Torino. L'anarchia ai tempi della peste
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- Date: Tue, 14 Oct 2008 01:50:04 +0200
Torino. L’anarchia ai tempi della peste Proposta di incontro e discussione – aperta a tutti gli
interessati – sull’aria che tira, sui tempi che corrono, sulle prospettive di un
movimento di trasformazione radicale che deve fare i conti con gli orizzonti
cupi di questo primo scorcio di millennio. Se la prospettiva della libertà e dell’eguaglianza
tramonta dall’orizzonte dei più, se il mondo che viviamo è l’unico possibile, se
la merce segna un’epoca di guerra e di sopraffazione, se le identità si
raggrumano tra il ciarpame della nazione e della religione e lo scaffale di
supermercato, quali prospettive per l’azione di chi crede possibile e
desiderabile un mondo senza servi e senza padroni? Ne cominciamo a parlare venerdì 17 ottobre ore 21 alla
FAI in corso Palermo 46 Chi
volesse partecipare anche con uno scritto può inviarlo a fai_to at inrete.it e noi lo faremo
girare. Per
info: 338 6594361 Vi sono città e paesi in cui le
persone, di tanto in tanto, hanno il sospetto di altre cose; in generale, questo
non ne cambia la vita; soltanto, vi è stato il sospetto, ed è sempre qualcosa di
guadagnato. (Albert Camus, Quest’incontro scaturisce dal desiderio di confrontarsi,
al di là delle discussioni pratiche che si fanno ogni giorno, sulle prospettive
del nostro agire, come anarchici, come rivoluzionari, come amanti della libertà
in un’epoca che vede il tramonto di ogni desiderio di trasformazione sociale di
segno libertario. Quello che proponiamo non è un astratto argomentare che
si scinda, con un’operazione di taglia e cuci, dalle asperità dello scontro
sociale nel quale siamo immersi, ma mira a cogliere, nel vivo di della lotta, le
possibilità e le prospettive per una narrazione di segno libertario che non
eluda il caos ma vi si immerga per trovare un lessico che sappia ri-farsi
comune. Ci
siamo nutriti di universali – i classici che hanno aperto la modernità:
libertà/uguaglianza/solidarietà – definendone il senso e la struttura
conflittuale – quelli più recenti – che della triade assiologica illuminista
hanno distillato i succhi – diversità/molteplicità – ma oggi non sono (più) le
leve che definiscono il nostro mondo. L’anarchismo ha puntato sulla possibilità
che la cesura moderna potesse essere portata alle estreme conseguenze. Morto dio
e tagliata la testa a chi, per diritto divino, si arrogava il potere di dominio
assoluto, la critica al potere in quanto tale, anche nella forma morbida della
democrazia rappresentativa, pareva a portata di mano. Un’illusione, figlia di
certo afflato escatologico difficile da eludere, ma pericoloso nella sua
capacità incantatrice, come ogni storia che voglia una sua filosofia. D’altro
canto l’idea egualitaria, astrazione giuridica che, sin sul piano formale, ha
faticato a conquistare l’universalità pretesa dall’assunto assiologico, lungi
dal assurgere alla materialità della relazione sociale, tende a scomparire
persino dalla formalità del diritto. L’inattualità dell’anarchismo è consacrata dallo
svuotarsi della modernità che ha trasfigurato i propri postulati nell’estasi
della merce, bilanciata da pulsioni identitarie che rimettono in pista gli
orrori della nazione e della razza. L’ipermercato e l’ampolla leghista alle sorgenti del Po
sono specchi di una realtà dove libertà è l’accesso alle merci, uguaglianza è la
comunione dei simili che si riconoscono escludendo l’altro da se.
Viviamo una realtà sociale frantumata, di cui è cifra la
guerra tra poveri, la guerra come orizzonte permanente, quasi senza pareti tra
conflitti interni ed esterni. La
trincea della paura ne è il segno distintivo, la metafora più convincente. In
trincea non si scorge altro orizzonte che quello segnato dal filo spinato oltre
la sponda, dove i nemici sono pronti ad affondare le baionette nella carne viva.
Il nemico diventa nemico assoluto, irriducibile ad ogni possibile riconoscimento
nell’universalità dell’umano. La stessa nozione di “diritto umano”, sulla quale
si giocano formali partite sulla misura della altrui civiltà, diviene alibi di
guerra, pur rivestita dalla maschera dell’intervento salvifico, intrinsecamente
super partes. Credere agli incubi può far sì che si realizzino.
Viviamo un pianeta dove le risorse disponibili sono dissipate in un delirio
d’onnipotenza nell’eternità di un oggi senza domani, immaginato nel continuo
ritorno della novità della merce, dove il nuovo è mera tecnica comunicativa che
non ambisce ad una proiezione futura. Se a ciò si aggiunge che in grande
maggioranza coloro che vivono questo nostro stesso pianeta sono
irrimediabilmente esclusi dall’accesso alla merce nella sua materialità ma
parimenti investiti dal suo intollerabile portato simbolico, l’immensità del
baratro nel quale stiamo scivolando diventa immediatamente attingibile.
Non
basteranno gli eserciti, le bombe, le torture, lo sterminio da malattie
curabili, i muri armati a difesa della frontiere ad impedire che la guerra
arrivi sulle soglie delle linde case di chi abita i luoghi dove ci si ammala
perché si mangia troppo. La
peste è alle porte. Quando la peste arriva non si può far altro che
rimboccarsi le maniche e lottare con le unghie e con i denti per fermarla,
soffocando la tentazione di fuggire dai suoi miasmi ammorbanti. Il nostro agire
rischia tuttavia di farsi semplice resistenza, senz’altra prospettiva che quella
di rallentare, inceppandolo qua e là, il meccanismo. Se il capitalismo diviene
pervasivo come una seconda natura, se lo Stato, ed in generale la gerarchia,
definiscono l’orizzonte del possibile e del desiderabile, se oltre non c’è che
la follia religiosa, è giocoforza agire sui frammenti di una realtà sociale
dimidiata dalla guerra, incapace di nutrire “il sospetto di altre cose”, quel
sospetto che forse non trasforma la vita, ma senza il quale non è neppure
immaginabile il cambiamento. Il
nostro impegno, come anarchici che attuano ogni giorno la resistenza, non può
fare a meno di essere volto a far sì che si manifesti “il sospetto”che vi sia
dell’altro, che si possa andare oltre rompendo lo specchio che riproduce
all’infinito il nostro oggi. Stare dalle parte degli oppressi e degli sfruttati è
normale, costitutivo del nostro essere anarchici, tuttavia il difficile è nella
declinazione del come. Il linguaggio della resistenza è immediato e
trova, qua e là, compagni di strada, gente disposta a non chinare il capo, a
mettersi in gioco per ostacolare politiche razziste, classiste, sessiste,
predatorie. Il conflitto sociale è regolato da strategie di controllo di stampo
squisitamente disciplinare. Contrastarle fa parte di una lingua che facilmente
si fa comune, che mostra ai più, a chi pensa che la partita sia persa in
partenza che è sempre possibile fare qualcosa, è sempre possibile aprire nuovi
sentieri. Sebbene il lessico della resistenza trovi qua e là consenso, tuttavia
quello della rivoluzione, quello dei liberi ed eguali, delle libere ed eguali,
si impantana sempre più. Come individuare le sottili tracce nel bosco che portano
alla radura dove si manifesta “il sospetto che vi sia altro”? Che non basti
dirlo lo sappiamo, come sappiamo che le parole che lo dicono suonano false,
prive di mordente, irrimediabilmente “passate”. Il nostro futuro, quello che
abbiamo imparato ad amare, senza essere – quasi – mai stato attinto, è scomparso
dall’orizzonte degli sfruttati e degli oppressi. Moneta fuori corso, usurata dal
non uso, non seduce né appassiona. Solo gli artifici della retorica ne
conservano una residua credibilità, spesso ancorata ad un narrare di ieri che
mantiene un’aura di passione altrimenti sopita, dimenticata, scalzata.
C’è
chi ritiene che il lessico comune che si produce nell’immediatezza della
resistenza senza andare oltre, sia un bene, perché in tal modo fonda – sia pur
provvisoriamente – la propria irriducibilità alla logica del dominio. Il rischio
serio è che fondi parimenti l’inattingibilità della prospettiva anarchica.
Ciò che apre o chiude un orizzonte è la sua
desiderabilità, un suo parlare che si faccia narrazione, storia di uno e storia
di tanti, humus in cui affondare radici e insieme ascia che taglia i rami morti.
Ciò che mette in gioco o getta fuori dall’arena la rivoluzione non è la
possibilità di farla, ma il desiderio che si realizzi. In altre parole serve una
lingua comune che vada al di là dell’immediato, che sappia sedimentarsi e farsi
energia di trasformazione. Altrimenti si cade nell’illusione che la meccanica possa
più della coscienza, che quest’ultima non sia che una derivazione della prima,
che la rottura dell’ordine sociale sia la chiave di ogni possibile rottura
dell’ordine simbolico. Talora la materialità di certe fratture – la barricata,
la rivolta, lo sciopero ad oltranza, la disobbedienza generalizzata, a volte
basta un sasso, un no, un basta – spesso innesca accelerazioni impreviste ed
imprevedibili anche sul piano simbolico, o contribuisce ad incrinare altri piani
di oppressione, ma difficilmente questo avviene in assenza di una sia pur minima
prefigurazione utopica di segno libertario. Se non so dove andare, andrò in giro senza meta, forse
arriverò da qualche parte o forse continuerò a calpestare la stessa polvere di
cortile. Se voglio che tutto cambi, perché sono sfigato, basterà
che la sfiga finisca per poter sedere anch’io alla tavola imbandita, tirando
calci a chi, come me ieri, sgomitava per arrivare alle briciole.
Chi invece non ha nulla da perdere, non necessariamente
vuole far saltare l’assetto del mondo. Se non voglio più nulla perché penso che tutto mi sia
precluso, a volte sfascio tutto: macchine, cabine telefoniche, scuole e strade,
la faccia dei poliziotti e quella di qualche sfigato diverso da me. Poi ci
saranno folle di sociologi, politici destri e sinistri, che mi vorranno
raccontare, infilzandomi nell’ordine dei loro discorsi. Ci sarà anche chi
apprezzerà la mancanza di logica e su questo costruirà l’ordine del suo
discorso, un ordine fatto di rotture, peccato che, anche lui, finisca con il
parlare per me. Che non dico niente. Punto. È successo in Francia, domani
potrebbe capitare anche da noi: sapremo evitare la retorica delle periferie in
fiamme, la poesia sommessa del caos, per registrare che l’afonia non parla in
linguaggio cifrato la rivolta contro lo stato e il capitale? E tanto meno la
rivoluzione? Non
ci sono scorciatoie: se si vuole fare il pane occorre impastare acqua, sale e
farina. Un alchimia semplice ma che dice molto a chi sa ascoltarla. Per imparare
a farlo occorre provare, per provare serve volerlo fare. Le storie –
necessariamente plurali - le si racconta mentre le si fa, le si fa mentre le si
racconta. Non
è molto ma forse non c’è altro modo per coniugare l’anarchia ai tempi della
peste. Il
dibattito è aperto… |
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