Faiza e i giudici francesi.
Passaporto negato alla mamma in burqa
«Abito contrario alla
laicità». Niente cittadinanza
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE PARIGI — Il
burqa è incompatibile con il diritto alla cittadinanza? La libertà della donna
si difende meglio con il rifiuto del passaporto? Sembra di sì, secondo il
Consiglio di Stato, l'autorità della giurisprudenza francese, che ha respinto il
ricorso di una donna marocchina con la motivazione: «difetto di assimilazione».
Un caso senza precedenti, che allarga il fossato fra norme
e valori della società di accoglienza e la complessità di diritti e usanze di
coloro che debbono integrarsi. Ma anche un caso limite, se si considera che la
donna — Faiza M, 32 anni — vive in Francia da otto anni e parla correttamente la
lingua di Voltaire. E' sposata con un cittadino francese, dal quale ha avuto tre
figli, tutti nati in Francia. Avrebbe in sostanza i requisiti per ottenere la
cittadinanza, come ha sostenuto nel ricorso: «Non ho mai voluto mettere in
discussione i valori fondamentali della Repubblica», ha detto. In realtà, stando
ai funzionari che hanno istruito il dossier, la donna si è presentata con il
burqa a tre successivi colloqui. Accompagnata dal marito, Faiza M. ha detto di
aver spontaneamente aderito alla lettura più rigorosa del Corano.
Ma
il suo racconto aggiunge risvolti paradossali alla vicenda. La donna ha
infatti riferito di non aver mai portato il burqa prima di venire in Francia, di
avere assecondato la volontà del marito e di farlo «per abitudine più che per
convinzione religiosa». E il rifiuto della cittadinanza viene motivato anche
dalla condizione di sottomissione agli uomini della famiglia. «Non ha alcuna
idea della laicità e del diritto di voto, le sue dichiarazioni rivelano la non
adesione a valori fondamentali della società francese». Peccato che, per
aderirvi, sia costretta a non considerarsi francese. «Con questo spirito,
dovremmo chiederci se tutte le donne in condizioni di inferiorità o
sottomissione abbiano diritto alla cittadinanza francese», dice Daniele Lochak,
professore di diritto a Nanterre. E' la prima volta che la «pratica religiosa»
viene annoverata fra i requisiti indispensabili per l'ottenimento della
nazionalità. Finora era stata rifiutata a persone considerate vicine a movimenti
fondamentalisti o segnalate per comportamenti e discorsi pubblici di natura
radicale. In sostanza, potenzialmente pericolosi. Inoltre, le norme introdotte
dal presidente Nicolas Sarkozy in materia di immigrazione, hanno alzato la
soglia di controllo per quanto riguarda padronanza della lingua, conoscenza
delle leggi della République e matrimoni di convenienza, oltre al fenomeno non
trascurabile della poligamia. Mai però si era arrivati a considerare un'usanza o
una pratica, quale il burqa, come un ostacolo all'ottenimento del passaporto.
Nel giudizio, si è evidentemente tenuto conto della controversa legge sulla
laicità dello Stato con cui si è voluto tracciare un confine netto fra identità
religiosa, differenze culturali e «neutralità» della società e della scuola
francese. Confine delineato da insigni giuristi e limitato alle scuole pubbliche
e al rapporto del cittadino con l'amministrazione pubblica. Ma il divieto di
«ostentazione di simboli religiosi» resta molto vago nel paesaggio
multiculturale della società francese e in particolare delle periferie.
La legge è stata riconosciuta da tutte le comunità di
fedeli, nella pratica quotidiana usi e costumi sono accettati in nome
di un principio altrettanto valido: quello della tolleranza, che ha avallato o
subito piscine separate per donne, polemiche infinite negli ospedali pubblici
(per il rifiuto di donne musulmane delle visite ginecologiche di medici maschi)
e abbigliamenti (anche di altre religioni) per tradizione piuttosto visibili. Il
burqa è ovviamente il caso limite: definisce in sé una condizione d'inferiorità
e segregazione, in contrasto con un principio universale di eguaglianza di
diritti. D'altra parte, non sempre il rispetto del principio è l'unica
soluzione. In Francia, ci sono casi di donne costrette a divorziare e a rimanere
sole, con enormi difficoltà economiche, per uscire dalla condizione di
poligamia. Recentemente, si è assistito a un'ondata di indignazione per la
decisione del tribunale di Lilla di annullare un matrimonio fra due giovani
musulmani, riconoscendo che la sposa aveva mentito sulla sua verginità e dando
quindi ragione al marito. Sola voce discordante, la ministra della giustizia,
Rachida Dati, di origini maghrebine, la quale si è almeno chiesta se
l'annullamento non fosse un modo di proteggere la giovane da un matrimonio
forzato.
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