Distruggere le sculture di Maometto
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- Date: Tue, 11 Mar 2008 13:23:54 +0100
Distruggere le sculture di Maomettodi Daniel
Pipes Pezzo in lingua originale inglese: Destroying Sculptures of Muhammad
Questo episodio denota un contrastante successo degli islamisti nel contenere la libertà di espressione su Maometto da parte degli occidentali – si pensi a I Versetti Satanici di Salman Rushdie o alla rappresentazione dell'Idomeneo di Mozart da parte della Deutsche Oper. Se talvolta le minacce di ricorrere alla violenza funzionano, il più delle volte esse generano rabbia e incitano alla resistenza. Ma una elegante manovra diplomatica può conseguire maggiori risultati. Nell'illustrare ciò, si osservino due tentativi paralleli, compiuti nel 1955 e nel 1997, diretti a rimuovere le pressoché identiche sculture di Maometto troneggianti nei palazzi di giustizia statunitensi. Nel 1997, il Council on American-Islamic Relations (CAIR) chiese che parte di un fregio degli anni Trenta che decora la sala principale della Suprema Corte statunitense di Washington, D.C., venisse rimosso a causa del divieto posto dall'Islam di rappresentare il proprio profeta. L'altorilievo marmoreo di sette piedi, ad opera di Adolph Weinman, ritrae Maometto come uno dei 18 legislatori storici. Con la mano sinistra, il Profeta tiene il Corano sotto forma di libro (secondo i musulmani ciò denota una discordante inesattezza storica) e con la destra regge una spada.
Di contro, nel 1955 ebbe successo una campagna volta a censurare una rappresentazione di Maometto in un altro edificio forense americano. L'episodio riguarderebbe il palazzo di giustizia della Corte d'Appello della città di New York, Primo Dipartimento della Suprema Corte dello Stato di New York. Costruito nel 1902, l'edificio presentava sulla sua balaustra del tetto una statua marmorea, alta 8 piedi, che ritraeva "Maometto" come uno dei 10 legislatori storici, ad opera dello scultore Charles Albert Lopez. Questa statua del Profeta teneva altresì un Corano nella mano sinistra e una scimitarra nella destra. Per quanto fossero visibili dalla strada, le identità dei legislatori non erano facilmente distinguibili, vista l'altezza dell'edificio. Solo in seguito ad una opera di ristrutturazione del palazzo, avvenuta nel febbraio 1953, l'opinione pubblica venne a conoscenza dell'identità delle statue. Gli ambasciatori di Egitto, Indonesia e Pakistan presso le Nazioni Unite di tutta replica chiesero al Dipartimento di Stato americano di esercitare la propria influenza per rimuovere dall'edificio la statua di Maometto. Come al solito, il Dipartimento di Stato inviò due dipendenti da Frederick H. Zurmuhlen, membro della commissione per i lavori pubblici della città di New York, affinché lo convincessero a soddisfare le richieste degli ambasciatori. Il cancelliere capo George T. Campbell, riferì che la corte "ricevette anche numerosissime lettere da parte dei musulmani dell'epoca che chiedevano al tribunale di sbarazzarsi della statua". Tutti e sette i giudici d'appello raccomandarono a Zurmuhlen di rimuovere l'opera marmorea. Anche se, come riportato dal magazine Time, "bisognava ammettere che era minimo il pericolo che un gran numero di newyorkesi idolatrasse la statua", gli ambasciatori riuscirono a spuntarla. Zurmuhlen fece portar via forzatamente la statua offensiva in un magazzino di Newark, in New Jersey. Dal momento che Zurmuhlen non sapeva che farsene, nel 1955 il Time scrisse che la statua "venne chiusa in una cassa per diversi mesi". La sua ultima collocazione è ignota.
Rammentare quegli eventi del 1955 suggerisce diversi commenti. Innanzitutto, le pressioni esercitate dai musulmani sull'Occidente affinché esso si conformi ai costumi islamici precedono l'attuale era islamista. In secondo luogo, tali pressioni ebbero successo anche quando erano pochissimi i musulmani presenti nei paesi occidentali. E per finire, mettere in contrasto i paralleli episodi del 1955 e del 1997 indica che il precedente approccio degli ambasciatori di fare delle rimostranze prudenti – e non delle richieste dispotiche appoggiate da folle inferocite e men che meno da cospirazioni terroristiche – può ritenersi la strada più efficace. Questa conclusione conferma la mia opinione generale – e la premessa del progetto Islamist Watch – che gli islamisti lavorano silenziosamente in seno al sistema per conseguire più di quanto otterrebbero ricorrendo alla ferocia e alla bellicosità. In definitiva, un islamismo soft presenta dei pericoli altrettanto gravi rispetto a quelli offerti da un islamismo violento. |
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