Intervista a Marina Nemat - scrittrice iraniana



Intervista a Marina Nemat - scrittrice iraniana

“Ovunque tu vada, il cielo ha sempre lo stesso colore”, sebbene il cielo appaia il medesimo, è però un’altra terra ad attendere Marina Nemat quando sbarca a Toronto il 28 agosto 1991. L’Iran è lontano e con esso i ricordi spiacevoli. “Prigioniera di Teheran” (Cairo Editore) è la sua autobiografia. Recentemente insignita del premio per i Diritti Umani del Parlamento Europeo, la scrittrice ha denunciato con grande forza le violenze perpetrate in Iran dopo la Rivoluzione Islamica e non solo: “ Spero che attraverso la mia storia il mondo cominci a giudicare gli orrori ai quali la mia generazione venne sottoposta, di come le nostre proteste furono messe sotto silenzio. Questo riconoscimento è un miracolo, mi dice che finalmente il mondo si è accorto della nostra situazione”. E aggiunge: “Non servirà a riportare in vita i morti, ma a evitare altri morti”. Al Premio è accompagnata una risoluzione, che mira a proteggere tutte le minoranze religiose, in particolare quella cristiana, perseguitata in Turchia, in Iraq, in Pakistan e non solo. È il 1982, Marina è una ragazzina, cristiana ortodossa di origini russe, viene accusata di connivenza con i rivoluzionari contrari a Khomeini. La prelevano da casa nel cuore della notte per portarla a Erin, carcere politico di massima sicurezza, che al solo nominarlo, tra gli iracheni, desta terrore. L’interrogatorio è lungo, non le risparmiano torture e violenze di ogni genere per costringerla a denunciare persone che non conosce neppure. È cristiana, è russa. È certamente una rivoluzionaria comunista secondo i suoi carcerieri. Tanta efferatezza è anche gratuita: la lista dei nomi è già pronta e lei condannata a morte.
Un istante prima della fucilazione la sentenza viene commutata in ergastolo. A salvarla uno dei carcerieri, Ali, che innamoratosene perdutamente la costringe a convertirsi all’Islam e a sposarlo. Passeranno due anni, due mesi e dodici giorni prima che le sia concesso di tornare a casa. Un lasso di tempo interminabile.
A liberare il flusso dei ricordi, quasi vent’anni dopo, è l’uccisione di Zagara Kazemi, una foto-giornalista iraniana-canadese, arrestata per aver scattato nel 2003 fotografie della prigione, colpevole di aver denunciato cosa accadeva: “Fu allora che cominciai a non dormire più”. Quel passato ingombrante riaffiora all’improvviso, di notte, mentre tutto sembra ormai sopito, risolto: il ricordo è fulminante come la consapevolezza che è il momento di parlare: “Ci sono storie che vanno assolutamente raccontate. Io per anni ho tenuto nascosta la mia, volevo dimenticare. Ricordare vuol dire rivivere. Ma abbiamo un obbligo morale, non possiamo far finta di niente. Ho ritrovato la stessa volontà di rimozione nel racconto di tantissimi iraniani, soprattutto quelli in diaspora. Un giorno, durante una manifestazione, una ragazza mi è venuta incontro piangendo, mi ha detto che sua mamma era stata ad Erin, mi chiedeva come poteva aiutarla, cosa poteva fare per lei che non aveva mai trovato la forza di parlane”. Parlare moltiplica i ricordi, aiuta la ricostruzione storica e la denuncia: “Quando ci saranno centinaia di libri scritti dai prigionieri politici iraniani cominceremo ad avere una prospettiva completa, a far luce su quanto è accaduto. Spero solo con il mio libro di incoraggiare molte altre vittime a fare lo stesso”.
La solidarietà tra le detenute è emozionante e struggente allo stesso tempo. Ragazzine innocenti, giovani attiviste, madri, donne che fondano una nuova famiglia nel dolore. Religioni e culture diverse convivono e si supportano a vicenda. Dalla prigione tutto è chiaro, i ruoli sono distinti: vittime e carnefici, buoni e cattivi, martiri e assassini, ma fuori, il mondo è diverso e anche il giudizio ne risente: “Io ho odiato Alì, mi aveva salvato la vita ma io ero morta lo stesso. Sposandolo avevo dovuto rinnegare Andre, l’amore della mia vita, convertendomi, avevo dovuto rinnegare la mia fede. Eppure, col tempo, ho dovuto rivedere le mie posizioni. Nessuno è completamente buono o completamente cattivo. È stato tanto difficile interiorizzare le sfumature dell’essere umano. Accettare che non era un mostro. Ho conosciuto la sua famiglia, lo amavano, lo consideravano un uomo buono. Non era un mostro”. Ma a parte la questione religiosa e politica, in Iran esiste anche una questione di genere.Le donne hanno solo una libertà apparente. Hanno possibilità di studiare, fare carriera, assumere ruoli di responsabilità, ma entro le mura di casa non hanno diritti, sono schiave dei mariti e dei padri: “ In Iran non è cambiato niente da quando sono andata via. Era terribile e tutt’ora lo è in larga parte. Io ho un’amica, una ricercatrice e studiosa di genetica con specialità oltre la laurea. Una donna di grande cultura, molto rispettata nel proprio lavoro. Ma quando torna a casa non conta più niente. Ha denunciato il marito per percosse e il tribunale ha solo saputo dirle che in caso di divorzio non avrà più diritti sui figli. Per legge la violenza domestica non è reato. Per un breve periodo, quello della presidenza di Katami, le cose sembravano migliorate, ma erano solo cambiamenti apparenti: le donne potevano usare il rossetto, portare lo smalto, tenere il velo più dietro da poter mostrare un po’ di capelli, ma questo è nulla perché da un momento all’altro potevano essere arrestate comunque se incontravano sul loro cammino un integralista”.
Allegato Rimosso