Torino processo agli antifascisti. Una democratica barbarie
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- Date: Fri, 2 Nov 2007 14:35:57 +0100
| Torino processo agli 
antifascisti. Una democratica barbarie 5 anni e 5 mesi. Questa la 
richiesta formulata il 30 ottobre dal PM Tatangelo al processo che vede alla 
sbarra 10 antifascisti torinesi.  Facciamo un passo 
indietro. Era la notte tra il 10 e 
l’11 giugno del 2005.  Al Barocchio, una casa 
occupata alla periferia della città, una squadraccia fascista entra di soppiatto 
nel cortile e ferisce a coltellate due compagni svegliati dal rumore. Uno di 
loro, l’intestino trapassato da un fendente, verrà operato d’urgenza: per poco 
non ci scappa il morto. La settimana successiva 
l’appuntamento è in piazza Madama Cristina per una manifestazione antifascista. 
Il corteo attraversa il quartiere S. Salvario e poi si dirige in centro. In via 
Po viene caricato dalla polizia per impedirgli di proseguire verso piazza 
Castello, il salotto buono della città, dove lo shopping del sabato pomeriggio 
non deve essere turbato da un corteo che racconta storie di aggressioni fasciste 
e del silenzio complice di politici e media. La polizia attacca il 
corteo, spara lacrimogeni seminando il panico tra i passanti. Il corteo è 
disperso: alcuni manifestanti per frenare la furia della polizia erigono una 
piccola barricata. Un quarto d’ora dopo è tutto finito. Due manifestanti, che si 
erano fermati ad aiutarne altri due travolti dalla carica vengono tratti in 
arresto e passeranno due settimane in galera. Un mese dopo, è il 20 
luglio, nel quarto anniversario dell’assassinio di Carlo Giuliani, parte una 
raffica di arresti. 10 antifascisti vengono accusati di devastazione e 
saccheggio. Nello stesso procedimento vengono accusati di resistenza e lesioni 
10 antirazzisti che il 19 maggio di quello stesso anno avevano manifestato in 
solidarietà con gli immigrati in rivolta all’interno del 
Cpt. Gli antifascisti 
trascorreranno 6 mesi tra carcere e domiciliari. L’accusa loro rivolta 
“devastazione e saccheggio” vale da 8 a 15 anni di reclusione. Un reato 
intrinsecamente collettivo, un reato che aggira le responsabilità specifiche dei 
singoli, per configurarsi, sia pure in modo anomalo, come reato associativo, là 
dove l’associazione è data dal comune intento di turbare violentemente l’ordine 
pubblico. La requisitoria del PM 
Tatangelo, durata oltre cinque ore, si è dipanata ossessivamente intorno alla 
tesi che una vetrina rotta, qualche tavolino e sedia danneggiati durante la 
carica possano costituire “devastazione e 
saccheggio”. Il teorema Tatangelo è 
semplice ed agghiacciante. I danni sono stati pochi? 
Non ha nessuna importanza: l’articolo 419 “devastazione e saccheggio”, 
secondo l’interpretazione suggerita dal PM, che si è appoggiato in tal senso su 
una sentenza della Cassazione, si applica ogni volta la condotta incriminata 
abbia la finalità esplicita di turbare l’ordine pubblico. 
Qualsiasi turbativa dell’ordine pubblico è quindi da considerarsi “devastazione 
e saccheggio”? No. Tatangelo, magnanime, nega. La condizione indicata dal PM è 
che si susciti paura ed insicurezza tra i cittadini. In particolare se ci si 
trova nel centro buono della città di sabato pomeriggio. I fatti avvenuti 
durante la manifestazione al Cpt (buco nel muro di cinta e sassaiola) si 
configurano come meri reati di resistenza e danneggiamento perché la 
gente era lontana. Invece, nel caso del corteo antifascista, si era in mezzo 
alla gente. Capolavoro di equilibrismo 
l’intera requisitoria non mancherebbe di lati comici se non ne andasse della 
libertà di 10 persone. Si deve desumere che non 
sia lecito manifestare in centro perché altrimenti si rischia di turbare 
l’ordine pubblico? Il nostro PM si guarda bene dal fare una simile affermazione 
e si limita ad prodursi in un cortocircuito logico. Premette che 
probabilmente se la polizia non avesse caricato per impedire 
l’attraversamento di piazza Castello la giornata si sarebbe conclusa senza 
incidenti. Parrebbe un’ammissione che la carica è stata la vera causa del breve 
scontro del 18 giugno 2005, ma ovviamente ci troviamo di fronte ad una figura 
retorica. La polizia – sostiene Tatangelo – non poteva non caricare un 
corteo di violenti, non poteva correre il rischio che i violenti 
arrivassero in centro. Sebbene sino a quel momento non fosse accaduto 
nulla era chiaro che lo scopo della manifestazione era arrivare 
nel cuore della città per dare vita a scontri e violenze. Tatangelo non 
nega che il corteo avesse finalità comunicative, ma sostiene che gli 
antifascisti per conquistarsi la visibilità che desideravano abbiano 
esplicitamente provocato disordini. Gli antifascisti miravano allo scontro 
spettacolare e volevano che avesse la cornice accattivante dell’affollato 
centro cittadino: la polizia non poteva che impedirlo. Come dimostra la sua tesi 
il PM? Con arroganza e fantasia. 
 La sola presenza di un 
gruppo di compagni in testa al corteo con bastoni e facce coperte è la 
dimostrazione che scopo della manifestazione era la violenza di piazza. Che i 
volti fossero coperti per impedire ai fascisti l’identificazione e che i bastoni 
fossero un deterrente contro possibili attacchi squadristi è considerato un 
pretesto per nascondere le vere intenzioni. Il fatto che appena una settimana 
prima i fascisti avessero colpito per uccidere non ha rilevanza per 
Tatangelo. E se i manifestanti i 
bastoni non li hanno? Niente paura: ci pensa la polizia a metterglieli in mano, 
come accaduto a Massimiliano e Silvio, accusati di aver attaccato la polizia 
rispettivamente brandendo rispettivamente un tubo di ferro e utilizzando un 
giunto metallico. Loro negano ma che vale la loro parola di fronte alle accuse 
di onesti poliziotti? A che servono le foto che mostrano Massimiliano con 
una bandiera rossa e nera sostenuta da un’asticella di plastica? A che serve che 
la perizia sul tubo abbia evidenziato che era privo di impronte, come se 
fosse stato ripulito da chi l’aveva in custodia? Nulla - sostiene Tatangelo – i 
poliziotti non avevano nessun motivo per incastrare due persone che non 
conoscevano. Mai e poi mai la polizia potrebbe mentire per fregare due 
anarchici! Chi lo dice incorre nel reato di calunnia. Tatangelo annuncia che 
chiederà gli atti per procedere nei confronti di Massimiliano e di Agnese, la 
compagna che aveva testimoniato a suo favore, raccontando come fosse stata 
travolta dalla carica e Massimiliano si fosse fermato ad aiutarla. Durante il 
dibattimento Agnese e Massimiliano avevano dichiarato esplicitamente che la 
polizia mentiva e vanno puniti. La polizia, dice Tatangelo, non mente 
mai: al più può sbagliarsi perché osserva da angolature diverse. In tal modo si 
spiegano le diverse versioni date dai testimoni della digos e dell’antisommossa 
relative alla posizione del compagno Tobia, indicato dal PM come sobillatore 
intransigente che avrebbe guidato gli altri alla devastazione. Naturalmente 
nessuno deve permettersi di sospettare che Tatangelo abbia motivi di personale 
risentimento nei confronti dell’anarchico che, nel suo “Le scarpe dei suicidi”, 
ha denunciato il ruolo di Tatangelo nella grave montatura contro gli anarchici 
Sole e Edoardo, morti suicidi in prigionia. In sostanza la tesi è tanto 
banale quanto spaventosa. I manifestanti, non tutti per carità, sono dei 
violenti, e siccome sono violenti per loro c’è un solo modo di “comunicare”: la 
violenza. Un bel sillogismo, non c’è che dire. Peccato che se non si dimostra la 
premessa risulta difficile desumerne la conseguenza, ed in questo caso l’unica 
vera “dimostrazione” sta nel profilo politico degli imputati, quasi tutti ben 
noti alla polizia per essere anarchici o antagonisti. Per Tatangelo non ci sono 
dubbi che il corteo del 18 giugno 2005 mirasse esclusivamente a provocare 
scontri e violenze nel centro cittadino. Il suo è un processo basato sulle 
intenzioni. Tatangelo scambia l’effetto con la causa, invertendo l’onere 
della prova. La polizia carica per impedire l’accesso a piazza Castello? La 
colpa è dei manifestanti che sono (per natura?) violenti e quindi non vanno 
fatti passare. Che siano violenti lo si deduce dal fatto che pretendevano di 
andare avanti, pretendevano di esercitare la loro libertà di manifestare anche 
in centro. Il fatto che gli incidenti in via Po siano stati la conseguenza e 
non la causa della carica viene ignorato perché irrilevante. Tatangelo 
insinua che se non fossero stati fermati gli antifascisti avrebbero presto fatto 
ben di peggio. Fantastico! In questo modo si hanno le 
due condizioni fondamentali per l’applicazione del reato di “devastazione e 
saccheggio” ossia la “molteplicità degli agenti”, una moltitudine di persone 
determinate in tal senso, al di là della concreta condotta individuale, e 
la grave turbativa dell’ordine pubblico, data dalla presenza di centinaia 
di cittadini nel centro di Torino. Per questo il PM, pur chiedendo il minimo con 
l’applicazione delle attenuanti, pretende che gli imputati siano condannati. 
Chiede il minimo perché è consapevole che nella “sensibilità comune” una pena 
che va da 8 a 15 anni potrebbe parere eccessiva. Ma tant’è. Così ha stabilito il 
legislatore. Dura lex sed lex. Il “minimo” sono 5 anni e 
cinque mesi per 9 imputati, che diventano 5 anni e 7 mesi per Fabio, reo di aver 
partecipato anche alla manifestazione davanti al cpt. A questi si aggiungono le 
pene per i due del cpt che non avevano scelto il rito abbreviato: da un minimo 
di un anno e 4 mesi a un massimo di due anni e 2 
mesi. Il 20 novembre si 
prosegue con le arringhe dei difensori. Poi dovrebbe essere emessa la 
sentenza. Sin qui la cronaca 
ragionata dell’udienza del 30 ottobre. Sappiamo tuttavia che le 
aule di “giustizia” sono solo i luoghi dove lo Stato regola i conti con i suoi 
oppositori e che l’andamento dei processi è lo specchio delle strategie 
repressive che chi detiene il monopolio della forza – e del “diritto” – pretende 
di imporre. Qualunque sia l’esito del 
processo contro gli antifascisti torinesi ci pare chiaro che in questo paese ci 
troviamo di fronte ad una torsione degli stessi principi formali del 
diritto liberale che segnala una volontà di criminalizzazione dell’opposizione 
politica e sociale di segno molto ampio. L’articolo 419 del codice 
penale è uno dei tanti strumenti a disposizione dei pubblici ministeri per 
colpire chi per scelta o per condizione è nemico dell’ordine costituito. Un 
ordine che si basa sull’ingiustizia, su una terrificante disparità nella 
distribuzione delle risorse, sulla limitazione della libertà di scegliere in 
autonomia il proprio percorso di vita, sulla negazione di ogni prospettiva di 
reale partecipazione di tutti alla vita collettiva. La democrazia non è che il 
feticcio usato per creare l’illusione della libertà, dell’equità, della 
giustizia. Quanto più lo stato si 
sente forte, tanto più dismette la maschera liberale per assumere una più 
robusta attitudine disciplinare.  In questa chiave si leggono 
molte delle vicende degli ultimi anni.  Sta arrivando al suo 
epilogo il processo di Genova, dove, a 6 anni dalle giornate contro il G8, il PM 
del processo contro i “Black Bloc” invoca pene esemplari, arrivando a chiedere 
da 6 a 16 anni per i 25 manifestanti accusati di “devastazione e saccheggio”. 
 Nei confronti dei tanti che 
l’8 dicembre del 2005 parteciparono alla liberazione di Venaus dalle truppe di 
occupazione, l’inchiesta, non ancora conclusa è per il reato di “devastazione e 
saccheggio”. È cominciato a Milano il 
processo di secondo grado contro gli antifascisti che l’11 marzo del 2006 
scesero in piazza contro Forza Nuova: in primo grado con rito abbreviato vennero 
condannati a 4 anni per “devastazione e saccheggio”. 
 A Genova, a Milano, a 
Torino la prova della “devastazione e saccheggio” consiste nella presenza alle 
manifestazioni. Non c'è uno straccio di prova a carico dei compagni. Ma che 
importa? A sentire i PM, basterebbe l'indimostrabile “intenzione”. 
 Questo delirio giuridico serve ad attaccare la libertà di partecipare attivamente alle lotte esprimendo le proprie idee. Il reato per il quale sono 
perseguiti i 10 di Torino, i 18 di Milano e i 25 di Genova, e per il quale 
rischiano lunghi anni di detenzione, è, intrinsecamente, un reato di natura 
collettiva, poiché prescinde dalle responsabilità individuali. L'accusa 
di "devastazione e saccheggio" palesa la chiara volontà di criminalizzare le 
manifestazioni di piazza. Sullo sfondo le nuove misure repressive contemplate nel pacchetto Amato Mastella. nel cui mirino sono immigrati, lavavetri, posteggiatori, venditori senza licenza. Mentre gli assassini in 
divisa, mercenari ben pagati, in nostro nome portano le bombe, le torture, la 
ferocia democratica in Afganistan, la banda Prodi mette in atto misure 
repressive che colpiscono i poveri, i senza casa, i senza lavoro, i senza 
permesso. E se non basterà… si troveranno sempre truppe di complemento 
volontarie, pronte a colpire anarchici e case occupate, ad assalire le baracche 
dei rom, a dar fuoco ai barboni sotto un ponte… E per chi non ci sta ecco pronta 
l’accusa di devastazione e saccheggio. Il momento è difficile. 
Occorre mettere insieme tutte le forze disponibili per fare barriera contro la 
barbarie che avanza. Una barbarie che di volta in volta assume le vesti dei 
fascisti che accoltellano e bruciano campi rom, dei poliziotti che uccidono 
torturano i manifestanti cantando “faccetta nera”, dei pubblici ministeri che 
cercano di seppellire sotto anni di galera chi si oppone al disordine statale e 
capitalista. Occorre rompere il muro del 
silenzio! A Genova come a Torino. 
Fermiamoli! Federazione Anarchica 
Torinese – FAI Corso Palermo 46 – la sede 
è aperta ogni giovedì dopo le 21. Per info e 
contatti: 338 
6594361 fat at inrete.it | 
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