Una proposta di legge sui matrimoni
misti
Quelle «conversioni» che uccidono la libertà
Giorgio Paolucci
Un italiano che s’innamora di una marocchina e
vuole sposarla con rito civile, deve convertirsi all’islam. O, almeno, deve
esibire un certificato di conversione rilasciato da una moschea, una delle tante
che, senza alcun controllo, si sono moltiplicate in questi anni. È la condizione
posta dall’ambasciata o dal consolato per rilasciare alla cittadina straniera il
nulla osta alla celebrazione del matrimonio. Lo stesso avviene se la donna
proviene dall’Egitto, dalla Tunisia o dall’Algeria, solo per citare gli Stati da
cui arriva la maggior parte delle immigrate di cultura islamica. E questo accade
in un Paese, come l’Italia, che ha nella libertà religiosa uno dei pilastri
della Costituzione, ma che finora in questa materia si è di fatto inchinato alla
sharia. Poco importa che la conversione del nubendo sia autentica o simulata,
visto che spesso per ottenere il foglio che la certifica è sufficiente recitare
davanti a due testimoni la shaada (professione di fede) e «impegnarsi» a educare
i figli secondo la religione musulmana. Quello che, a torto, potrebbe essere
ritenuto un atto meramente formale, burocratico e strumentale rispetto
all’obiettivo che si vuole raggiungere, rappresenta in realtà un atto di
«sottomissione». Che secondo alcune fonti sarebbe già stato imposto a diecimila
italiani.
All’origine di tutto sta il fatto che, mentre per la nostra legge
l’appartenenza religiosa è irrilevante ai fini del matrimonio civile, nei Paesi
islamici la laicità – è il caso di dirlo – va a farsi benedire. E insieme a lei,
l’uguaglianza tra uomo e donna: infatti la sharia vieta le nozze di una
musulmana con un non musulmano, un divieto che invece non vale per i maschi. Con
questa condizione di palese ingiustizia fanno i conti migliaia di coppie
italo-straniere quando decidono di metter su famiglia e devono sottostare a un
diktat di natura religiosa per contrarre un matrimonio che ha valore civile. E
con un’altra palese ingiustizia si devono misurare molte donne – italiane e
straniere – che si trovano, spesso a loro insaputa, vittime e protagoniste di
convivenze poligamiche quando un musulmano le sposa dopo avere già contratto
matrimonio con un’altra nel Paese di origine, senza che questo comporti alcuna
sanzione nei suoi confronti.
Sono situazioni, queste, che si vanno
moltiplicando e dovrebbero far riflettere le anime belle che presentano
qualsiasi unione mista come una sorta di «paradiso» della convivenza tra
diversità, e declamano irresponsabilmente le «magnifiche sorti e progressive»
della società multiculturale.
Per modificare questo stato di cose è stato
presentato ieri alla Camera un progetto di legge bipartisan (ne parliamo a
pagina 12) dai deputati Santelli (Forza Italia), Santanché (An) e Fouad Allam
(Margherita). Si propone tra l’altro la modifica dell’articolo 116 del codice
civile, stabilendo che le uniche condizioni per contrarre matrimonio tra un
cittadino italiano e uno straniero sono quelle stabilite dalla legge del nostro
Paese. In sintesi, non è accettabile che per gli immigrati prevalga la legge
degli Stati di origine rispetto a quella italiana. Un principio che sembra
lapalissiano, ma che in materia matrimoniale viene allegramente violato.
È
da salutare come un segno di novità il fatto che la proposta arriva da
parlamentari schierati su fronti opposti, più interessati alla risoluzione di un
problema concreto che a rimanere abbarbicati sui rispettivi schieramenti. Così
come va rilevato che alla proposta di legge hanno già dato il loro appoggio
Souad Sbai e Yahia Pallavicini, due esponenti di quell’islam moderato che cerca
(faticosamente) di opporsi alla deriva integralista. Anche loro si riconoscono
nei principi che fondano la nostra civiltà, come la laicità e la pari dignità
tra uomo e donna. Anche loro credono che l’integrazione debba partire anzitutto
dalla condivisione forte di valori irrinunciabili. E che per i musulmani
d’Italia sia necessario rimettere l’orologio sull’ora della
modernità.