Mohamed Hegazi, egiziano, si è convertito al
cristianesimo. Vuole ufficializzare la sua fede ma una fatwa islamica
lo condanna a morte. Autorità e Chiesa tacciono.
Adottiamo Mohamed Hegazi come simbolo della libertà religiosa
in Medio Oriente. Venticinque anni, nato musulmano, convertito al
cristianesimo nove anni fa e sposato con una convertita, ha chiesto alle
autorità egiziane di vedere registrata la loro nuova religione sulla carta
d’identità per assicurare che il loro figliolo, che sta per nascere, veda
la luce come cristiano. Ma si è scatenata l’ira degli estremisti islamici
che l’hanno tacciato di apostasia e ingiunto allo Stato di attuare la
condanna a morte avallata da una fatwa, un responso giuridico,
dell’Università islamica di Al Azhar. Ciò avviene in un Paese sostenuto
massicciamente dall’Occidente perché considerato moderato e in cui i
cristiani sono circa 10 milioni. E non si tratta di ripetere l'operazione
che nella primavera del 2006 portò al rilascio e all'espatrio del
convertito afghano Abdul Rahman, che ha ottenuto asilo in Italia. I
cristiani in Medio Oriente sono la popolazione autoctona e deve essere
garantito loro e a tutti, compresi i convertiti, il diritto alla piena
libertà religiosa a casa loro.
Il caso è esploso dopo che Suad Saleh, preside
della Facoltà di studi islamici e arabi dell’Università islamica di Al
Azhar, ha legittimato con una fatwa la condanna a morte di Hegazi perché
non si è limitato a convertirsi ma «ha detto pubblicamente di essersi
convertito al cristianesimo e si è perfino fatto fotografare insieme alla
moglie con in mano il Vangelo ». La logica è la seguente: se ti converti e
ti nascondi nelle catacombe potresti avere salva la vita, ma se hai la
«sfrontatezza» di annunciarlo pubblicamente e magari con il sorriso in
bocca, a testimonianza della profondità della tua fede e della gioia con
cui la vivi, allora devi essere ucciso. Il quotidiano governativo Al Messa
riferisce di un sondaggio secondo cui tutti gli ulema, i giureconsulti
islamici, d’Egitto sono unanimi nella «necessità di condannare amorte
l’apostata». Il caso è stato proposto anche al Grande Mufti Ali Gomaa che,
in un’intervista al Washington Post, ha risposto in modo assai ambiguo:
«La scelta significa la libertà e la libertà include la libertà di
commettere dei gravi peccati fintantoché non arrechino un danno agli
altri». A suo avviso chi si converte dall’islam a un’altra religione non
commette un «grave peccato», tranne nel caso in cui la conversione
costituisce una minaccia per la società. E sembra proprio che per gli
estremisti islamici manifestare pubblicamente la gioia della fede in
Cristo sia un pericolo da sanzionare con la morte.
«Ricevo delle minacce di morte sul mio
cellulare. Ogni volta che cambio il numero dei fanatici riescono a
ottenerlo, mi chiamano e mi preannunciano che mi faranno fuori», ha
raccontato Hegazi a Le Figaro. «Il pericolo non viene solo dagli
estremisti, un qualsiasi cittadino potrebbe uccidermi agendo di sua testa,
nella convinzione di servire l'islam». Hegazi, che è stato il
rappresentante del movimento di opposizione «Kifaya » (Basta!) a Port
Said, vive ora in clandestinità insieme alla famiglia. Il suocero ha
auspicato che la giustizia obblighi la moglie a divorziare e che «mi venga
restituita anche morta». Contemporaneamente due esponenti
dell’Organizzazione dei cristiani del Medio Oriente, Adel Fawzi e Peter
Ezzat, considerati gli ispiratori della conversione di Hegazi, sono stati
arrestati per «attentato all’islam» e «sedizione religiosa». Il tutto
avviene in un contesto dove regna la paura. Il Centro Al Kadima per i
diritti dell’uomo, ha ritirato la denuncia che era stata depositata la
scorsa settimana per sostenere la causa di Hegazi, motivandola con
«l’assenza del certificato di conversione della Chiesa». E la Chiesa
locale? Tace. Un silenzio assordante per il timore di inasprire il
conflitto con un regime che ha di fatto abdicato al clero islamico
radicale rimettendo nelle sue mani il controllo degli affari sociali che
s’intrecciano con una religione sempre più invasiva.
Proprio perché l’Egitto è il nostro
dirimpettaio che ostenta fama di tolleranza e di moderazione, mi
auguro che l’Italia non resti a guardare. Auspico che il capo dello Stato
Napolitano lanci un vibrante appello al presidente egiziano Mubarak
affinché assumaun gesto significativo, ricevendo Hegazi e riconoscendogli
pubblicamente pari dignità come cittadino e testimoniando il rispetto
della libertà religiosa. Auspico che il presidente del Consiglio Prodi
chieda garanzie al governo egiziano sulla tutela della vita di Hegazi,
chiarendo che per l’Italia il rispetto della libertà religiosa è un
parametro fondamentale per definire la realtà e lo sviluppo dei rapporti
bilaterali e multilaterali. Auspico che le università italiane (La
Sapienza di Roma, il Pontificio Istituto Orientale di Roma, l’Orientale di
Napoli, la Bocconi di Milano, l’Iuav di Venezia) che il 15 giugno 2005
hanno sottoscritto un accordo di cooperazione con l’Università islamica di
Al Azhar, con la benedizione del nostro ministero degli Esteri, recedano
dall’iniziativa dopo aver avuto l’ennesima conferma che i suoi più alti
vertici hanno legittimato il terrorismo suicida palestinese e il massacro
anche delle donne e dei bambini israeliani, nonché l’uccisione dei
musulmani convertiti al cristianesimo. Auspico tutto ciò per i cristiani
d’Egitto ma anche per noi. Perché se volteremo le spalle a chi, alle porte
di casa nostra, viola la sacralità della vita, la dignità della persona e
la libertà di scelta, significa che abbiamo abdicato ai valori che
corrispondono al fulcro della comune civiltà dell'uomo.
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Magdi Allam