Maledetti in nome della legge



Maledetti in nome della legge
Rischiare il patibolo per oltraggi al Corano inventati da vicini invidiosi.
È il prezzo di essere non musulmani in un paese ostaggio degli estremisti. Dove un'accusa di blasfemia può portare un cristiano al patibolo. Dal Pakistan cinque storie di ordinaria persecuzione

di Faccioli Pintozzi Vincenzo

Testimoniare la fede cristiana in Pakistan è un'impresa, a volte disperata. Il paese, infatti, ha una delle legislazioni più ferocemente contrarie ai non musulmani, nonostante la Costituzione garantisca la libertà religiosa. Fra le norme che colpiscono con più violenza la minoranza cristiana, circa il 2 per cento della popolazione, brilla la famigerata legge sulla blasfemia, che punisce con la galera o il patibolo chi dissacra il Corano, Maometto o l'islam. E che spesso, però, viene usata per consumare feroci vendette personali o per eliminare, senza bisogno di alcuna prova, concorrenti economici. Secondo i parametri della "giustizia" pachistana, infatti, basta la testimonianza di due musulmani adulti per considerare valida l'accusa di blasfemia: nelle corti locali, la testimonianza dei non musulmani non conta. Lo sa bene Shahid Masih, che mentre veniva trascinato in cella gridava la sua innocenza. I poliziotti incuranti gli hanno detto di stare zitto, perché il musulmano Ghafar lo aveva denunciato per blasfemia e questo a loro bastava. Masih (che in urdu significa Cristo) è appena uscito di prigione: ha passato «diverso tempo in carcere» ma non ricorda quanto. È stato giudicato colpevole ai sensi dell'articolo 295 C del codice penale pachistano, la legge contro la blasfemia, appunto. Per liberarlo si è dovuto scomodare un procuratore musulmano, che si è fatto impietosire ed è intervenuto per farlo uscire dal carcere.
Stesso percorso per Walter Fazal Khan, 84enne cristiano di Lahore, che ha guadagnato la libertà soltanto grazie alla deposizione di alcuni musulmani. Secondo i testimoni, Khan è stato intrappolato in una congiura tesagli da Raja Riaz, il suo autista, che voleva rubargli i terreni. Proprio quest'ultimo aveva dichiarato agli agenti di aver visto il suo datore di lavoro bruciare pagine del Corano. Nonostante l'assenza di prove, la polizia aveva arrestato l'anziano cristiano. La famiglia dell'uomo e diversi gruppi civili che lo conoscono avevano definito l'accaduto, sin dal primo momento, «una cospirazione» orchestrata da alcuni uomini d'affari musulmani che volevano ottenere i terreni di Khan. Questi, infatti, aveva rifiutato la vendita e non si era fatto piegare dalle intimidazioni. Così un giorno, senza alcuna prova ma con un mandato di arresto, la polizia ha bussato alla sua porta. Dopo una settimana di carcere, i musulmani del luogo, che avevano chiesto l'arresto e l'esecuzione del cristiano, hanno ammesso di «essere stati provocati da alcuni sobillatori» che presentavano Khan come «un blasfemo».
Meno fortunato Ranjha Masih, anch'egli cristiano di Lahore, condannato all'ergastolo per blasfemia: è stato liberato, ma ha passato otto anni in cella di isolamento. Masih, 58 anni, era stato arrestato l'8 maggio del 1998, nel corso di una manifestazione contro il governo. I manifestanti avevano lanciato delle pietre e una di queste aveva colpito l'insegna di un negozio che conteneva un versetto coranico. Addossandogli la responsabilità del gesto, la polizia aveva arrestato Masih con l'accusa di essere un blasfemo. Nel 2003 una Corte di Faisalabad lo ha condannato all'ergastolo, fra le proteste dei musulmani locali che ne chiedevano invece l'impiccagione. Nel corso dell'intera detenzione, la polizia lo ha tenuto «per sicurezza» in una cella di isolamento. Ora Masih vuole emigrare in Germania, ma una lettera anonima a un giornale ne ha annunciato la morte violenta, «non importa dove si nasconderà».

Un debitore che non vuole pagare
Stesso percorso per Martha Bibi, a sua volta accusata senza prove, rilasciata su cauzione il 3 maggio scorso. Fazal-e-Miran, giudice della Corte suprema di Lahore, ne ha ordinato la scarcerazione, previo pagamento di una somma pari a 100 mila rupie (circa 1.500 euro). Secondo gli avvocati dell'All Pakistan Minorities Alliance (Apma), associazione che ha seguito il caso di Martha per tutta la durata, la donna, 40enne, è «fisicamente molto provata, ma con la gioia di essere sopravvissuta. Non ha mai smesso di ringraziare Dio per aver permesso alla giustizia di trionfare». Martha Bibi, che viveva nel villaggio di Kot Nanak Singh, è stata accusata il 22 gennaio scorso di avere fatto osservazioni dispregiative contro il Corano e di avere «abusato del sacro nome del profeta Maometto». In realtà, secondo alcuni testimoni locali, le accuse sono state presentate da alcuni appaltatori musulmani che non volevano pagare i materiali forniti a un cantiere dalla Bibi e dal marito, muratore. Il presidente dell'Apma, Shahbaz Bhatti, ha commentato ad AsiaNews: «Questo caso, e la sentenza di scarcerazione, dimostrano una volta di più che la legge sulla blasfemia serve solo a risolvere dispute personali, sempre a danno delle minoranze. Per questo va abolita del tutto».

Una lite finita male
Una delle conferme più eclatanti di questa teoria viene dalla storia di Amjad e Asif Masih. Il 30 maggio scorso la Corte suprema del Pakistan li ha dichiarati non colpevoli di blasfemia e ne ha ordinato l'immediata scarcerazione, dopo sette anni di ingiusta detenzione. La Corte di Faisalabad aveva condannato entrambi all'ergastolo nel 1999 per aver bruciato una copia del Corano. Nel maggio 2003 l'Alta Corte di Lahore ha respinto il loro appello confermando il massimo della pena. AsiaNews si è fatta raccontare la loro storia da Kausar Bibi, moglie di Amjad, e da Sadiq Masih, il padre. «Nel febbraio 1999 - ha detto Kausar - la polizia ha arrestato mio marito e Asif a Jhang, dove abitiamo, dopo una banale lite con dei vicini musulmani. Quando abbiamo appreso la notizia ci trovavamo a un matrimonio e siamo riusciti a raggiungere la stazione di polizia solo il giorno seguente». «Una volta arrivati - ha spiegato Sadiq - ci hanno detto che Amjad era stato trasferito al carcere centrale di Faisalabad, mentre Asif Masih era ancora lì, detenuto per reati minori. Allora abbiamo subito chiesto la cauzione per entrambi. Dopo pochi giorni hanno notificato il rilascio su cauzione, ma una volta tornati in prigione le autorità carcerarie hanno rifiutato di farli uscire. Il problema era che la cauzione valeva solo per il caso di lite, accusa che noi conoscevamo, ma nel frattempo tutti e due erano stati accusati di blasfemia per aver bruciato in cella una copia del Corano. "Provate a ottenere il rilascio su cauzione per un'accusa del genere, se volete liberarli", ci hanno detto in carcere». Per Kausar e il resto della famiglia «è stato uno shock enorme. Non sapevamo come muoverci in questo campo, non ci era mai successo prima. Inoltre le nostre misere condizioni economiche non ci avrebbero potuto permettere di affrontare un caso così impegnativo». La famiglia di Amjad si è allora rivolta al Bishop John Joseph Shaheed Trust (fondazione intitolata al vescovo John Joseph, suicidatosi nel 1998 per protestare contro la legge sulla blasfemia), che le ha fornito sostegno economico e legale. «Dopo che abbiamo presentato appello alla Corte suprema, i miei quattro bambini hanno digiunato e pregato Dio per il loro papà». Anche oggi, dopo la scarcerazione e la dichiarazione di innocenza, Amjad e la sua famiglia non sono al sicuro. Chi sopravvive al massacro della giustizia rimane per sempre, agli occhi dei vicini, un blasfemo.
Johnson Michael, presidente della Fondazione intitolata a monsignor John Joseph, dice: «Ho incontrato molta gente nel corso della mia vita, ma nessuno è come questi sopravvissuti. Hanno avuto una forza straordinaria nel difendere il loro credo, una forza che pagano giorno per giorno, ma che conforta tutta la comunità. Ci sentiamo edificati dal loro esempio». Eppure, aggiunge Peter Jacob, segretario generale della Commissione episcopale Giustizia e Pace, «se qualcuno è accusato di essere un blasfemo, non importa cosa dicono i giudici: la sua vita diverrà miserabile, sarà costretto a nascondersi in povertà». Questo «vale anche per le famiglie, che perdono ogni diritto sociale e vengono condannate a rimanere ignoranti e povere». Fino ad ora, «nessuno è stato impiccato dalla legge per accuse collegate alla blasfemia. Eppure 24 persone sono morte fuori dal carcere per opera di estremisti che non sono mai stati fermati».