Per la
maggior parte dei musulmani, e ancor più per le musulmane, la
questione del velo è un «falso problema». Una «faccenda privata»
ingigantita dall'Occidente, che magari in buona fede (vedi Francia)
s'ostina a non capire le priorità del mondo islamico. Da Rabat al Cairo,
da Kabul a Jeddah, è questo che ripetono da anni intellettuali, femministe
e gente comune. Ed è quindi davvero importante la decisione presa dal
Marocco: scoraggiare e limitare l'uso del velo. Forse un giorno proibirlo.
Non perché «disgustoso» come l'ha definito il sempre provocatorio Salman
Rushdie, né per essere «segno di separazione» come ritiene l'ex ministro
britannico Jack Straw.
Commenti che in realtà sono diretti al
niqab, il tessuto che copre il viso e quasi nessuno usa in Marocco.
Ma perché perfino l'hijab, il foulard che copre i capelli, sarebbe
diventato simbolo di quell'Islam estremista che Mohammad VI tenta di
sostituire con una lettura moderna e moderata della religione di Allah.
Sarebbe una concessione a quell'ala della società marocchina che nel 2003
ha appoggiato gli attentati di Casablanca (45 morti) e che da allora è
oggetto di continui arresti e controlli. A differenza di altri passi
compiuti sulla via della democrazia religiosa dal «sovrano-cittadino» —
come lui stesso si definisce nonostante sia pure discendente diretto del
Profeta e «Principe dei credenti» — questa volta la battaglia è stata
lanciata in sordina. Scuole e università, uffici pubblici, polizia e linee
aeree hanno iniziato a impedire l'uso dell'hijab.
Più recentemente, si è passati ai libri
scolastici. Nell'ultima edizione di un diffuso testo per le
elementari, ad esempio, la foto di una mamma con bambina muhajjabat,
velate, è stata rimossa. E dai libri sono spariti anche gli accenni
all'obbligo al velo che il Corano imporrebbe: questione discussa
all'infinito in realtà, tra esperti musulmani e non, poiché i versetti in
questione (24:27-31) possono essere variamente interpretati. «La faccenda
— ha dichiarato il ministro dell'Istruzione, Aboulkacem Samir — non è
religiosa, ma politica. L'hijab per le donne è diventato quello che è la
barba per gli uomini, un simbolo politico. E noi dobbiamo stare attenti,
tra l'altro, che i libri scolastici rispettino l'intera società, non una
fazione politica». Anche la risposta, per ora, è stata politica: il
dirigente del partito islamico moderato Giustizia e Sviluppo, Abu Zaid Al
Idrissi, ieri sul quotidiano Alliwaa (la bandiera) ha accusato il governo
di aver «ceduto alle pressioni degli Usa»: riducendo le ore di religione
nelle scuole e mandando al macero 700 mila copie di un libro con foto
«velate».
E il
Consiglio nazionale degli insegnanti di religione ha denunciato le
pressioni presso editori e autori di testi perché questi siano emendati
dai versetti sul hijab. La battaglia del velo, in sostanza, è iniziata
anche in Marocco. Due anni fa Mohammad VI, sostenuto dalla giovane e colta
moglie Lalla Salma, era riuscito a convincere il Paese con la nuova
mudawwana, la legge di famiglia più innovativa del mondo islamico che tra
l'altro concede il divorzio alle donne e rende quasi impossibile la
poligamia. Perfino i partiti e i gruppi islamici avevano accettato quel
compromesso tra Dichiarazione dei diritti umani e Sharia. E tutti avevano
salutato con favore la nomina delle prime 50 predicatrici donne incaricate
di insegnare religione nelle moschee e nelle carceri, così come la
partecipazione di teologhe alle discussioni religiose che si tengono ogni
Ramadan in presenza del Re. Ma il velo è un'altra storia. Non solo le
donne più anziane, le più religiose, le più povere lo portano da sempre.
Ma anche tra le classi ricche e colte l'hijab è tornato in auge. Al punto
che il giornale saudita Al Watan, in un reportage dal Marocco, segnalava
ieri la nuova moda dell'hijab ramadan: veli e abiti islamici riveduti da
stilisti moderni, dai colori sgargianti e indossati da attrici e cantanti
per andare in moschea nel mese sacro. Convincere le marocchine della bontà
della nuova battaglia sarà impresa difficile.
Cecilia Zecchinelli