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Mohsen
- Subject: Mohsen
- From: <alexik at libero.it>
- Date: Tue, 22 Nov 2005 20:28:33 +0100
Ricevo e giro storia di ordinaria Bossi/Fini: Ciao Ale Mohsen, cittadino francese prigioniero in via Corelli A volte ci si imbatte nel razzismo allo stato puro. Non quello sofisticato, elaborato, che si caratterizza per l'incipit "io non sono razzista, però..." Qua si parla del razzismo che dice: "Hai la pelle scura, e dunque sei illegale". In sé non è una grandissima novità. In Italia esistono razzisti ruspanti che occupano cariche importanti nelle istituzioni, come il parlamentare europeo Mario Borghezio il quale - non ci stancheremo mai di ricordarlo finché non chiederà pubblicamente scusa (dunque, molto probabilmente, per l'eternità) - in un comizio è giunto a definire 'facce di merdà gli immigrati di religione musulmana. Ma la storia di Mohsen ha un elemento in più. Segna un momento l'incontro tra il razzismo analfabeta e la quotidianità dell'ordine pubblico, richiama certe turpi gesta della polizia di Los Angeles. Delinea una prassi nascente? Speriamo di no, ma il solo dubbio dà un motivo in più per raccontarla. Mohsen, che ha vent'anni, da due vive in Italia e frequenta a Perugia l'università per stranieri. Fino a quel giorno dello scorso agosto conduceva l'esistenza normale di un ragazzo della sua età: un piccolo appartamento, una fidanzata, un gatto. Era una giornata molto calda e Mohsen s'era svegliato tardi. Ancora un po' stordito, s'era vestito di corsa, aveva calzato un paio di ciabatte di gomma, aveva afferrato il mazzo di chiavi e poi era sceso giù, in piazza, per comprare il giornale e fare colazione al bar. La torpida routine d'una torrida giornata di agosto. Lasciamo per un momento Mohsen a sfogliare il suo quotidiano preferito e osserviamolo da lontano. Mettiamoci, insomma, nello stesso angolo visuale di quei due poliziotti che, accaldati, quella mattina svolgevano il loro turno di lavoro per le vie di Perugia. Ecco, il piccolo appartamento non c'è più, tanto meno il gatto e la fidanzata. Si disintegra anche il libretto dell'università. Non parliamo poi dei saggi di informatica, dei romanzi in italiano e in francese, dei cd, dell'impianto stereo. Resta solo un ragazzo nero, trasandato, che scruta le pagine di un quotidiano. Gli annunci economici, probabilmente. A meno che non stia solo fingendo di leggere per darsi un contegno. Uno studente? Difficile. E' agosto, l'università non funziona. Un clandestino allora? Molto probabile. Anzi, certo. Già, perché i due poliziotti raggiungono Mohsen che si risveglia di soprassalto. "Documenti!", gli intimano. Ha un momento di esitazione, si fruga nelle tasche. Niente. Li ha lasciati su, a casa. "Vado a prenderli". Vecchio trucco: il ragazzo vuole guadagnare un po' di tempo e poi darsela a gambe. "Seguici in centrale". E qua Mohsen commette un grave errore. Pur essendo senza documenti, si arrabbia. Già, come farebbe ognuno di noi se due poliziotti lo trascinassero in questura solo perché è andato all'edicola sotto casa senza la patente, la carta d'identità o il passaporto. Così Mohsen protesta e, a un certo punto, addirittura grida: "Sono francese!". (Parentesi: era agosto e ancora non era scoppiata la rivolta delle banlieue. Seconda parentesi: una vicenda come quella che stiamo raccontando, se si fosse verificata in Francia, sarebbe stata una parabola adatta a spiegare uno dei motivi della stessa rivolta). Ma torniamo al punto di vista dei poliziotti. Il ragazzo sostiene d'essere "francese". Una scusa più patetica non si era mai sentita. Di solito dicono di aver smarrito il permesso di soggiorno, o danno un falso nome. Ma "sono francese" è davvero troppo. Non che i due poliziotti non sappiano che esistono francesi neri, ma questo ha tutte le caratteristiche del clandestino. Non gli credono. Mohsen capisce che le cose si stanno mettendo malissimo. Comincia ad aver paura. Cambia tono. Supplica i poliziotti di accompagnarlo a casa. Niente da fare. La macchina della Bossi-Fini si è già messa in moto. Mohsen - che è francese per davvero, un francese figlio di genitori tunisini, dunque uno di quegli 'immigrati di seconda generazione" che tra qualche anno popoleranno in gran numero anche le nostre città - viene portato a Milano. Da quando vive in Italia c'è già stato tre volte, ha visitato i monumenti principali e anche il Museo della scienza e della tecnica. Solo che ora ci arriva a bordo di un cellulare e trova alloggio non in un albergo ma nel Centro di permanenza temporanea di Via Corelli dove fa un corso accelerato di vita e vede un sacco di cose molto brutte (non le raccontiamo perché, come ripete continuamente il nostro governo, nei Cpt non si verificano violenze e dunque il ragazzo deve aver avuto allucinazioni da stress). L'incubo è durato ventidue giorni. Il tempo che è occorso alla madre per interrompere le sue vacanze in Egitto, prendere un aereo per Milano e trovare un avvocato che ha chiarito ciò che lo stesso Mohsen, quella torrida mattina di agosto, avrebbe facilmente chiarito se solo gli fosse stato consentito di rifare le scale di casa. (la storia di Mohsen ci è stata raccontata da Daniele Comberiati) (16 novembre 2005)
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