C’è qualcosa di più
duro delle immagini dei bambini del Niger che muoiono di fame? Sì,
c’è. L'ho trovata nelle parole di J.R. Bullington, che per cinque
anni ha diretto un programma di aiuti americani in quel Paese, il
secondo nella graduatoria mondiale della povertà (è superato solo
dalla Sierra Leone, ma lì c’è stata la guerra civile). Le immagini
che hanno fatto il giro del mondo - ha scritto Bullington -
avrebbero potuto essere dell’anno scorso o di quello ancora
precedente: «Il fatto triste è che la crisi alimentare attuale non è
una emergenza temporanea. E’ la fotografia di una spirale di
impoverimento cronico che è in atto da decenni». Venticinque anni fa
il reddito medio annuo pro capite in Niger era di 234 dollari.
Pochissimi, ma più dei 185 attuali: mezzo dollaro, cinquanta
centesimi di euro al giorno. In tempi «normali» il 40 per cento dei
bambini sotto i quattordici anni sono gravemente malnutriti e uno su
quattro non arriva ai cinque anni di età.
L’aspettativa media
di vita è di 46 anni, a causa delle carestie ma anche per la
mancanza di acqua potabile e di malattie come Aids, malaria, colera,
tifo, epatiti, gastroenteriti contro le quali mancano vaccini e
farmaci. Perfino di influenza, in Niger, si muore.
Quel pezzo
d’Africa, assediato dal Sahara che si spinge sempre più a Sud, è il
paradigma, esasperato, di tutto il continente. Avrebbe qualche
ricchezza naturale: un po’ di petrolio, manganese, fosfati,
molibdeno, ferro, carbone e quel maledetto uranio che qualcuno
s’inventò fosse stato venduto a Saddam Hussein. Ma le sue ricchezze
non può sfruttarle, per mancanza di investimenti. L'anno scorso, il
governo di Niamey ha dovuto abbandonare lo stoccaggio di scorte
alimentari d'emergenza su ordine del Fondo Monetario Internazionale
e le 30 mila tonnellate di viveri che dovevano essere inviate nelle
regioni più colpite secondo il piano del Programma Alimentare
Mondiale dell'Onu non sono mai arrivate per mancanza di strutture
distributive. Gli aiuti sarebbero stati comunque insufficienti. Nel
novembre scorso gli osservatori dell'Onu denunciarono che la
disponibilità di carne era, in Niger e nel vicino Mali, del 12 per
cento del fabbisogno, ma poi venne lo tsunami del Sud-Est asiatico e
le risorse delle organizzazioni internazionali e delle associazioni
mondiali furono concentrate laggiù…
Sì, c'è qualcosa di più
duro di quelle foto, di quelle riprese che ancora una volta la Bbc,
come fu per l'Etiopia, ha buttato nel gran calderone delle
inquietudini, degli egoismi e della indifferenza di questa stagione
segnata nella nostra parte del mondo dalla paura del terrorismo. C'è
il fatto che quei bambini muoiono praticamente sotto i nostri occhi,
che tutti lo sappiamo e che nessuno (quasi nessuno) fa nulla perché
lo sterminio si fermi. Non basta, a muovere il nostro mondo dei
ricchi, il senso morale, il rispetto dell'uomo e della giustizia; ma
non basta neppure quell'elementare, egoistico, ragionare politico
che ci dovrebbe dire che violenze e guerre per tutti, anche per noi
privilegiati, saranno consuetudine del futuro se milioni di uomini
continueranno a vedere morire i propri figli appena nati, a sapere
che al di là del deserto e del mare si mangia e si vive il doppio
che nel proprio villaggio. La globalizzazione spalma sul pianeta,
con il bene e con il male, la consapevolezza del bene e del male:
nessuno potrà dire, domani, «non lo sapevo».
Pensare il
mondo per quanto è grande e vario, ma unico. Questa è la lezione che
l'Africa, ancora una volta, ci manda. E mi pare inconcepibile che
chi ha intelligenza e responsabilità di potere paia talvolta non
rendersi conto del pericolo che, soprattutto in presenza di un
terrorismo che mina le nostre certezze e insidia il nostro modo di
vivere, porta con sé il ragionare in termini di «noi» e di «loro»,
fino ad evocare il pericolo del «meticciato». Come se non fossero
proprio i terroristi ad esasperare, fino a conseguenze estreme e
micidiali, la contrapposizione tra «noi» e gli «altri». E come se
non fossero invece proprio le società libere a rifiutare, in nome
dei diritti umani e con le pratiche della democrazia, questa
separatezza. Si tratta di due atteggiamenti molto diversi: il
primo è quello della affermazione delle diversità, con
l'accentuazione delle «radici» e delle «identità». Si contrappone la
propria civiltà alle altre, rivendicando la superiorità della
propria cultura, della propria religione, del proprio gruppo. O
della propria «razza» e della sua purezza, com'è accaduto con esiti
tragici. L'altro è quello che parte dal riconoscimento e dalla
valorizzazione delle diversità. E' il concetto che sta alle
fondamenta della più grande democrazia del mondo, gli Stati Uniti,
che si fondano e prosperano su un formidabile melting pot: non una
identità indistinta e generica, ma l'idea di una civiltà
costantemente «aperta», capace di mutare e di mutarsi e di
influenzare diffondendo, proprio in ragione della sua apertura, i
valori che le sono propri, come la libertà, il pluralismo culturale,
religioso e politico, il rispetto dei diritti di ciascuno.
La prima strada può sembrare più facile, ma è un piano
inclinato che scivola inevitabilmente verso il conflitto e la
guerra. La seconda è più difficile da praticare, ma garantisce al
mondo un futuro.
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