I Bertinotti del mondo non stanno col nostro



I Bertinotti del mondo non stanno col nostro
Contraddizioni (21 maggio 2005)
di Andrea A. Galli

Che ne è dei no-global, degli aggressivi accusatori della Nestlé, della
Philip Morris e di McDonald's, quando ci si sposta sul terreno delle
biotecnologie? «Dov'è il Michael Moore delle industrie biotech?» si chiedeva
il 10 maggio sul Foglio Eugenia Roccella. E dov'è finito - si può
aggiungere - il combattivo popolo di Porto Alegre, a fronte della tratta di
ovuli e sperma dai Paesi poveri, della fungaia di centri che lucrano sul più
sacro dei desideri, quello di un figlio, delle multinazionali farmaceutiche
che fanno lobbying per la vivisezione di embrioni umani a fini di ricerca,
anzi di nuovi brevetti?

In realtà, anche nel cosiddetto "movimento dei movimenti" - per usare
l'espressione
cara a Fausto Bertinotti - non tutti dormono. Con eccezione dell'Italia,
dove a cominciare proprio da Bertinotti con i suoi perentori 4 sì al
referendum, pare si dormano sonni tranquilli. Perché è Maria Mies, sociologa
ed ecologista tedesca, attiva tra i fondatori del World social forum di
Porto Alegre, che sostiene nel suo scritto Nuove tecnologie riproduttive:
implicazioni razziste e sessiste: «Le nuove tecnologie riproduttive sono
state sviluppate e prodotte su larga scala non per promuovere la felicità,
ma per superare le difficoltà incontrate dall'attuale sistema nel continuare
il suo modello di crescita, il suo stile di vita [...]. Esse sono
legittimate, da coloro che cercano di diffonderle, con motivazioni
umanitarie: aiutare le coppie infertili ad avere un figlio, e un figlio non
handicappato, diminuire i rischi della gravidanza, e così via. Il principio
metodologico è quello di evidenziare le sofferenze di un singolo individuo,
appellandosi alla solidarietà di tutti per aiutarlo. Per fare ciò ogni tipo
di ricatto psicologico viene utilizzato. I casi individuali servono solo per
introdurre certe tecniche e creare il necessario consenso fra la gente. Il
fine è il controllo della capacità riproduttiva femminile, mentre la donna
come persona, con la sua dignità, è del tutto ignorata».

E a proposito dell'eugenetica, «Gena Corea (giornalista americana) dà ampia
evidenza dell'assenza di considerazioni etiche nel movimento eugenetico e
della continuità tra questo e le nuove tecnologie riproduttive [...]. Un
passo ulteriore nell'applicazione del principio di selezione è stato
compiuto con il perfezionamento di vari metodi di diagnosi prenatale e con
la fecondazione in vitro (Fivet). Oggi è possibile non solo selezionare
ovuli e sperma secondo certi standard di qualità, ma anche isolare geni,
sequenziare il Dna, esaminare quali cromosomi sono difettosi, manipolarli e
in questo modo intervenire direttamente sul patrimonio genetico. I genetisti
sono impegnati ovunque nel mappare il corredo cromosomico di uomini, animali
e piante, per scoprire difetti genetici finora sconosciuti. Non mi
sorprenderei se, in un futuro prossimo, un'intera nuova classe di malattie
dovesse essere dichiarata tale.

L'eugenetica e la sociobiologia forniranno i criteri per stabilire cosa deve
essere considerato sano e cosa difettoso». Idee che la Mies condivide con
un'altra
leader storica del popolo di Porto Alegre, l'indiana Vandana Shiva, con la
quale ha firmato un libro che ha fatto scuola nel movimento, Ecofemminismo.
Anche la Shiva, fondatrice del «Research Foundation for Science, Technology
and Ecology» (Fondazione di ricerca per la scienza, la tecnologia e
l'ecologia)
di Nuova Delhi, conferenziere globetrotter e paladina mondiale della lotta
contro gli organismi geneticamente modificati (Ogm), dichiara che «le nuove
tecniche riproduttive come la fecondazione in vitro rappresentano vere e
proprie forme di violenza nei confronti delle donne, contro la loro dignità
e contro la loro stessa salute, che viene messa a rischio in modi che si
cerca di nascondere». Mentre la diagnosi genetica preimpianto non sarebbe
altro che «un orrendo apripista per pratiche eugenetiche che pensavamo di
esserci lasciati alle spalle. Viviamo in una società segnata dal pregiudizio
di sesso, di razza, di ceto sociale: la diagnosi preimpianto è in perfetta
sintonia con questo spirito e non può far altro che alimentarlo».

Anche sull'opportunità di sacrificare embrioni umani per la ricerca, la
studiosa indiana - che è fisico di formazione - non è tenera, parlando di
«assurdità», di «manovre truffaldine» che «oscurano la scienza onesta» e
«negano la realtà dei fatti, cioè che le cellule staminali embrionali non
hanno prodotto il minimo risultato apprezzabile dal punto di vista
terapeutico». Contrarietà che la Shiva ha espresso anche nel 2002
contribuendo a un numero speciale della rivista ecologista World watch
magazine, assieme a figure come il politologo Francis Fukuyama.

Un'altra stella anti-global, Naomi Klein, l'autrice del celebre libro No
Logo, ha firmato nel 2001 una petizione del «Boston Women Health's
Collective» - il gruppo femminista che si oppone alle pratiche di
fecondazione artificiale - per il divieto di ogni tipo di clonazione, anche
terapeutica. E con lei si sono pronunciati molti altri nomi della galassia
di Porto Alegre, o del mondo femminista d'avanguardia: dal «Women's Global
Network for Reproductive Rights» fino alle cyberfemministe americane di
SubRosa, un gruppo che incalza il dibattito al grido di «cosa sta combinando
la Banca mondiale nel mio utero?».

Del resto, seminari che si occupano di queste tematiche sono ormai regolari
nei grandi forum sociali. Proprio a Porto Alegre in gennaio se n'è tenuto
uno su «Genetica e giustizia sociale: la politica globale della genetica
umana e delle nuove tecnologie riproduttive», organizzato dal «Center for
genetics and society», un'associazione "liberal" californiana critica verso
l'utilizzo delle biotecnologie nell'ambito della riproduzione umana, e dal
«Ser Muhler», gruppo femminista brasiliano. La coordinatrice di
quest'ultimo,
Alejandra Rotanja, ha parlato dei pericoli cui le tecniche riproduttive
espongono le donne, specialmente quelle del terzo mondo, e di come «gli
sviluppi scientifici e tecnologici stanno trasformando la vita, la natura, i
corpi - le loro funzioni e i loro componenti, la loro più intima natura - in
oggetti dell'ingegneria e in prodotti del mercato».

Jurema Werneck, direttrice dell'organizzazione brasiliana per i diritti
civili Criola, ha posto invece il problema della risorgente eugenetica nel
contesto della società brasiliana, ancora attraversata da gravi tensioni
razziali. Rosario Isisi, bioeticista peruviano dell'Università di Toronto,
ha parlato dell'importanza di un eventuale veto delle Nazioni Unite sulla
clonazione - veto che è poi arrivato in febbraio - come primo segnale di una
possibile regolamentazione delle biotecnologie a livello internazionale.
Alda Sousa, genetista dell'Università di Porto, si è occupato del problema
della brevettabilità dei geni, che non riguarda più solo il mondo agricolo
ma investe ormai direttamente l'uomo. Intanto alla conferenza «Life after
capitalism», organizzata da una delle riviste più note della stampa
alternativa inglese, Z magazine, Marcy Darnovsky, sempre del «Centre for
genetics and society», parlava dell'impatto delle biotecnologie sull'uomo e
i suoi equilibri.

Anche all'ultimo Forum sociale europeo, dal 15 al 17 ottobre 2004 a Londra,
tre laboratori  organizzati dagli inglesi di «GeneWatch» sono stati dedicati
a questi argomenti, in particolare a diagnosi prenatale ed eugenetica,
clonazione umana, nuove tecniche di ingegneria genetica. Nel 2003, a
Berlino, si è tenuto un convegno di tre giorni, con rappresentanti di 70
organizzazioni provenienti da 30 Paesi sulla manipolazione tecnica della
generazione umana. Un meeting organizzato da realtà fortemente coinvolte nel
mondo dei social forum, come la tedesca Heinrich Böll Foundation, e segnato
da interventi tipo «Il ponte tra genetica e riproduzione assistita: apertura
di porte all'eugenetica?» di Regine Kollek, dell'Università di Amburgo; o
«La scelta negativa: l'uso della genetica e delle tecnologie riproduttive
per la selezione del sesso» dell'indiana Rupsa Mallik; o ancora «Il
superamento dei limiti della natura umana» di Andreas Poltermann, della
Heinrich Böll Foundation; e persino «Tentativi di screditare le cellule
staminali adulte», del malese Chee Yoke Ling (Third Word Network). Grande
spazio è stato dato nell'occasione anche al tema dei diritti dei disabili,
messi in discussione dalle nuove frontiere riproduttive. Gregor Wolbring,
del canadese «International centre for bioethics, culture and disability»,
ha parlato di un'avanzante «filosofia da fattoria degli animali (alcuni sono
più uguali di altri)», ha ricordato che «la comunità dei disabili sostiene
che i test per malati e malformati incrementeranno il pregiudizio nei
confronti delle persone etichettate come tali», e che «la distinzione tra
selezione genetica (eugenetica negativa) e perfezionamento genetico
(eugenetica positiva) è insostenibile».

Il belga Pierre Martens, dell'International Federation for Hydrocephalus and
Spina Bifida, nel suo intervento sul «Diritto di essere diversi. Diagnosi
prenatale e interruzione della gravidanza» ha raccontato l'odissea del
proprio figlio idrocefalo e con spina bifida, nato sfidando lo scetticismo
dei ginecologi e cresciuto vincendo il disprezzo dei pediatri. Anita Ghai,
una delle più note attiviste per i diritti dei disabili in India, ha
denunciato la superficialità verso i problemi dei portatori di handicap e in
particolare verso il tema della diagnosi genetica preimpianto. La Ghai che,
alla chiusura del Social forum di Bombay 2004 - dov'era stata una delle
protagoniste -, dovendosi lì misurare con movimentisti alla Bertinotti, che
caldeggiavano il sogno di «un mondo nuovo» e si dichiaravano
contemporaneamente favorevoli alla fabbrica del bambino sano, commentò: «Che
tipo di mondo vogliono creare costoro? Uno senza posto per i disabili? In
cui per noi sia preferibile morire piuttosto che essere di peso alla
società?». Già, proprio così.

siti utili
www.comitatoscienzaevita.it
o su www.referendumfecondazione.it
http://www.asnifampiemonte.org/referendum/