TESTIMONIANZE DI VITA



Seattle, 10 agosto 1915.

Caro padre,

poche volte in cinque anni di lontananza ho scritto direttamente a te. Non
certo perché l'affetto che per te nutro sia da meno o diverso da quello che
sento per mia madre. Mi rivolgo a te questa volta, perché credo che tu
meglio di mamma potrai comprendermi.

Ho appena ricevuto la lettera in cui mamma e tu anche mi consigliate a
tornare in Italia per arruolarmi sotto le armi. Credo che abbiate già
ricevuto la lettera in cui vi dicevo la mia ultima e ferma decisione al
riguardo. E rimane tale ancor oggi. Io non tornerò per farmi soldato.

Io so che quanto vi ho scritto e quanto vi sto per scrivere in questa
dolorosa occasione, vi farà male. E me ne dispiace sentitamente. Perché ogni
dispiacere ch'io possa anche inconsciamente causare a voi, mi fa pena al
cuore. Ma penso che qualora io volessi seguire questo consiglio, un rimorso
terribile mi lacererebbe l'animo per tutta la vita. Tu sai di quale rimorso
io intendo parlare. Parlo di quella pena incessante e pungente che morde l'
animo di coloro che agiscono al contrario di ciò che la loro coscienza gli
detta. Ebbene la mia coscienza a gran voce mi dice: Non partire. Non farti
soldato.

Qui io dovrei dirti le ragioni che inducono la mia coscienza a ribellarsi
non soltanto al comando di un re, ma al richiamo di un padre. Le ragioni
sono molte, e a dirtele io farei opera vana. Tu non mi comprenderesti. Non
perché voi siate inferiori a me, e io superiore a voi. Io, pur essendo carne
della vostra carne, sangue del vostro sangue, sono diverso da voi. Vedo il
mondo e concepisco la vita in un modo diverso dal vostro. Noi parliamo due
lingue differenti. Ecco tutto. Voi chiamate eroi coloro che vanno in guerra,
io li chiamo assassini. Una cosa mi preme di farti, di farvi comprendere a
tutti. Non crediate che io non torno perché ho paura di lasciare la vita sui
campi di battaglia. No. Vi è una ragione più nobile che mi spinge al rifiuto
di obbedienza, a non macchiarmi la mano col sangue dei miei fratelli. Perché
sono miei fratelli, anche se figli di un altro padre, e nati sotto un altro
tetto, i soldati dell'Austria. Non sono essi nostro prossimo? E non disse il
vostro Cristo che dite di amare e adorare e ubbidire: "Ama il prossimo tuo
come te stesso"? Non comandò dio di non uccidere? Per me dio è la mia
coscienza, e la ubbidisco perché mi condannerebbe a pene più crudeli di
quelle dell'inferno.

"Io non credo che tu voglia dimenticare la patria e la famiglia", mi dice
mamma. Cos'è questa patria? La terra che mi vide nascere e dove sono quelli
che mi han dato la vita? Ed allora io non l'ho dimenticata e non la
dimenticherò, ed anelo di rivederla.

Ma oggi la patria ha un altro significato. Servire la patria vuol dire
servire il re, servire la canaglia che spadroneggia. Ed allora io confesso
che quella patria non l'amo, la odio anzi, non la servo ma la combatto.

Non confondere la patria con la famiglia. Non pensate neanche ch'io abbia
dimenticato o vi possa dimenticare. Per una ragione soltanto potrei
dimenticarvi e vi dimenticherei. Quando cioè voi all'amore verso il figlio
preporreste l'amore verso chi comanda e governa; quando per la grandezza del
re domandereste a forza il sacrificio del figlio, quando per l'ubbidienza
alla legge fatta dai governanti voi domandereste di ribellarmi alla legge
della mia coscienza. Io vi amo quanto e più dei miei fratelli e della mie
sorelle. La lontananza ha irrobustito e santificato l'amore verso di voi.
Non mi maledite perciò s'io non torno. Tornerò quando la tempesta sarà
passata e sul cielo d'Italia splenderà il sole della pace, della giustizia e
della libertà. Non sarò processato al mio ritorno. Chi lo potrebbe? Il
governo, dopo la guerra, sarà esso stesso processato e condannato. Siamo
milioni noi che ci rifiutammo di partire. Qui da Seattle son partiti venti e
siamo duemila. Ma quand'anche fossi solo? La compagnia della mia coscienza
mi sarebbe sprone abbastante a marciare sempre avanti, a fronte scoperta.
Vogliatemi dunque bene. Non chiedo l'assoluzione del re, né quella di dio.
Mi basta la vostra.

Vi bacia vostro figlio Umberto[1].



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[1] Seattle, 10 agosto 1915, lettera di Umberto Postiglione al padre Franco;
archivio privato prof. Giorgio Tentarelli, L'Aquila. Ora in E. PUGLIELLI,
Abruzzo Rosso e Nero, Edizioni del Centro Studi Libertari "Camillo Di
Sciullo", Chieti, 2003.



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