giustizia che fu (giudice Di Lello)



editoriale

il manifesto - 03 Dicembre 2004

Giustizia che fu
GIUSEPPE DI LELLO
La giustizia era amministrata in nome del popolo italiano. I giudici erano
soggetti soltanto alla legge. Ne parliamo al passato perché questo
principio basilare dello stato di diritto, proclamato dall'articolo 101
della vigente Costituzione come incipit del titolo IV dedicato alla
magistratura, verrà verosimilmente cancellato dall'attuazione della legge
delega per il riordino dell'ordinamento giudiziario voluto dal
centrodestra. La giurisdizione come «potere diffuso» e, cioè, come potere
amministrabile in nome del popolo italiano da ogni singolo giudice soggetto
soltanto alla legge, è stata una delle più importanti conquiste
democratiche consentiteci dalla vigente carta costituzionale e dalle tante
lotte, interne ed esterne alla magistratura, condotte per la realizzazione
di una indipendenza del potere giudiziario posta a salvaguardia
dell'uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge.

Questo principio di uguaglianza in Italia non è mai piaciuto a nessun ceto
politico, ma la sua vigenza è stata sempre considerata necessitata, salvo a
ritardarne l'attuazione, a mitigarne gli effetti. Maestri in ciò sono stati
i «moderati» democristiani e i loro alleati centristi che si sono adoperati
per avere una magistratura amica che, con una selezione di classe dei
magistrati e una cassazione e un consiglio superiore espressioni di quella
selezione, potevano assicuragli sonni tranquilli.

Non c'era bisogno di giudici corrotti, bastava selezionarli in anticipo tra
quanti condividevano i sacri valori della proprietà privata o dell'ordine
nelle strade o del potere di comando nella fabbrica o nella scuola e
riselezionarli in seguito (nel caso fosse sfuggito qualche ribelle)
vagliandone sentenze e provvedimenti, e non c'era più da preoccuparsi. Poi,
l'amico Csm sceglieva l'amico capo dell'ufficio, l'amico procuratore capo
avocava o insabbiava, l'amica cassazione o cassava o, sospettando
legittimamente, spostava il processo verso la sede innocua e il gioco era
fatto.

Così ha provato a fare anche il primo Berlusconi con la imponente
legislazione ad personam, dal lodo Schifani salva-solo-se-stesso
all'emendamento salva Previti. Con la seconda fase ora il Cavaliere tende a
sradicare una volta per tutte la mala pianta anche perché non sempre le
leggi ideate dagli avvocati amici sono risultate costituzionalmente solide
o non aggirabili da magistrati esperti, mentre i sodali scalpitano, si
lamentano e vogliono anch'essi beneficiare di un sistema che garantisca una
immunità generalizzata. Vuole tornare al passato di non belligeranza tra
potere politico e potere giudiziario ma con riforme strutturali che non
prevedano smagliature o intrusioni non gradite in magistratura: di nuovo
una selezione rigorosa con la scuola della magistratura e con una serie
continua di concorsi interni, con la separazione delle carriere, con un
consiglio direttivo della cassazione con poteri di comando, con minori
poteri al Csm e con tutto il potere ai capi degli uffici, della procura in
particolare, ecc. La ciliegia di questa torta, però, sta nel bavaglio ai
magistrati: una mossa veramente intelligente e vincente.

Il sistema di indipendenza compatibile creato dai moderati, che consentiva
l'applicazione della legge solo se favoriva gli interessi dei poteri
dominanti o se non interferiva con gli stessi, si era gradatamente
sgretolato. Grazie soprattutto all'ingresso in magistratura di giudici
attenti ai valori della costituzione e decisi a renderli effettivi nella
loro attività giudiziaria.
La riaffermazione e la pratica del diritto di critica dei provvedimenti
giudiziari, provenienti dagli stessi giudici, ha rivelato a strati sociali
democratici ma «indifferenti» (operai, sindacati e studenti non avevano
bisogno di tali rivelazioni) la natura di classe delle leggi e delle prassi
interpretative e ha cooperato alla nascita di un grande movimento
democratico che ha portato l'abbattimento di tutte le barriere, specie
quelle selettive, che impedivano la democratizzazione del sistema
giudiziario: anche da ciò quel potere diffuso che ora si vuol cancellare. I
magistrati non potranno più parlare, discutere, partecipare, lottare, per
riaffermare i valori di uguaglianza della costituzione, né emettere
provvedimenti che non siano in linea con i valori dei poteri forti pena
l'esclusione o l'emarginazione.

Bisognerà ricominciare daccapo, come prima, come sempre, con le lotte, per
la pace e l'uguaglianza innanzitutto, per sconfiggere non tanto e non solo
Berlusconi, ma tutto un sistema di valori liberisti che vede nella
magistratura indipendente e nei valori della costituzione vigente un serio
ostacolo al suo dispiegarsi.

Bisognerà, però, ricominciare daccapo anche con la «rieducazione» dei
magistrati, in questi ultimi anni troppo spesso ripiegati sulla loro
corporazione, tesi a vedere nelle critiche solo la delegittimazione della
casta e incapaci di ragionare, collettivamente, sulla repressione delle
lotte dei lavoratori e dei movimenti, sulle mille ingiustizie legittimate
anche dai loro provvedimenti, sui migranti, sui licenziamenti, sulle
vecchie e nuove povertà, sulle esclusioni, precarizzazioni, autoritarismi.

Se non escono dal loro guscio, se non si immettono di nuovo nel vasto
movimento democratico e antiliberista che lotta per un mondo migliore,
saranno condannati alla subalternità e alla sconfitta.

(giuseppe di lello)