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Intervista a Michele Nardelli.
- Subject: Intervista a Michele Nardelli.
- From: Francesco Lauria <francescollauria at yahoo.it>
- Date: Wed, 8 Sep 2004 08:23:57 +0200 (CEST)
Intervista a Michele Nardelli. Associazione Progetto Prijedor a cura di Francesco Lauria http://francescolauria.blog.tiscali.it Come nasce l'idea del Progetto Prijedor e la volontà di costituire una Agenzia per la Democrazia Locale? L’idea del Progetto Prijedor nasce da tante cose insieme, la casualità di una richiesta di aiuto rivolta nel 1995 alla Casa per la Pace di Trento, la volontà di avviare un’iniziativa umanitaria in un luogo dove non andava nessuno, il bisogno di conoscere e di abitare il conflitto, una sfida con noi stessi. Ecco, forse quest’ultimo aspetto è quello per alcuni versi decisivo: la volontà di portare un messaggio di pace e di speranza in un luogo, Prijedor, considerato inaccessibile, in preda al nazionalismo e in mano ai criminali di guerra. La volontà di sporcarsele le mani in un processo di diplomazia al limite del possibile, nel trovarsi a trattare con personaggi coinvolti nella pulizia etnica, a stringere mani che sapevi essere macchiate di sangue, nel forzare contesti altrimenti destinati alla chiusura e all’autismo. A questo si è progressivamente aggiunta una consapevolezza: quella della postmodernità dei processi che hanno sconvolto i Balcani negli anni ’90 ed ancor oggi. Una diversa chiave di lettura della “guerra dei dieci anni”, non una guerra etnica come spesso erroneamente è stato detto ma una guerra per ridisegnare poteri ed interessi che hanno molto a che vedere con il nostro tempo, ed in particolare con le modalità di dispiegarsi della globalizzazione e con la finanziarizzazione dell’economia. Infine l’individuazione dell’Europa come possibile chiave per demolire un nazionalismo usato peraltro come paravento di una nuova classe di criminali, rompere l’isolamento e dunque il consenso verso il nazionalismo, guardare a nuovi contesti politico-istituzionali e regolativi per scardinare quel contesto neofeudale (i signori degli uomini e della terra) che oggi descrive bene la situazione di molti dei paesi nati dalla disintegrazione della vecchia Jugoslavia. Da qui l’idea di utilizzare l’opportunità fornita dalle ADL, intelligente intuizione che permette di coniugare istituzioni locali e società civile. Nel 1996 la Repubblica Srpska e Prijedor erano considerati una sorta di "buco nero". Quale è stato il percorso di questi anni? Come si evoluto il quadro intorno a voi? Sì, un buco nero. O meglio, ancor più nero rispetto ad un contesto già piuttosto segnato. Perché, è bene ricordarlo, fino alla fine del 1997 gli aiuti internazionali del dopoguerra bosniaco andavano per il 98% alla Federazione mussulmano croata e solo il 2% alla Republika Srpska. Queste percentuali ben rappresentano l’atteggiamento della comunità internazionale, ma devo dire anche del mondo della pace, perché andare a sporcarsi le mani non è propriamente bello e facile. Così quando cercammo di coinvolgere Unops (l’agenzia delle Nazioni Unite che stava avviando il programma Atlante per la cooperazione decentrata in BiH), in un primo momento la risposta fu negativa, perché lì c’era il rischio di andare ad aiutare i cattivi, i criminali, gli assassini. Un atteggiamento, questo, condiviso inizialmente anche da molte associazioni e contro il quale abbiamo dovuto continuamente scontrarci. Alla fine, però, i risultati ci hanno dato ragione, tanto che oggi non solo Prijedor non è più un buco nero, ma viene indicata come la città del ritorno, parte importante delle reti europee delle città. Bisogna però dire molto chiaramente che ancor oggi abbiamo a che fare con pratiche e culture per cui la pace si esporta con la forza o la coercizione, bypassando il nodo dell’elaborazione collettiva del conflitto, con il risultato che Karadzic e Mladic sono ancora liberi e protetti dal consenso omertoso della gente. A Prijedor abbiamo invece scelto di percorrere una strada diversa, certamente costosa nel mettersi in gioco di ciascuno di noi, nella costruzione di relazioni fra le comunità e, a partire proprio da questa prossimità, che vuol dire conoscenza, rispetto e fiducia, nel poter affrontare insieme anche la lettura di ciò che è avvenuto, l’elaborazione e talvolta anche il perdono e la riconciliazione. Dopo otto anni siamo ancora all’inizio di questo percorso (come si vede, si tratta di tempi incompatibili con le modalità tradizionali della cooperazione internazionale), anche se i risultati in questi anni si sono visti concretamente, nell’aver contribuito a costruire le condizioni per il ritorno dei profughi (fino al 1998 non solo non era rientrata anima viva, ma il tema era tabù), per la ricostruzione dei villaggi devastati e dei luoghi di culto, nell’aver avviato le prime occasioni di dialogo fra le diverse comunità. La rottura dell’isolamento ha determinato altresì che il peso dei partiti nazionalisti andasse progressivamente diminuendo, che si facesse terra bruciata attorno ai personaggi più compromessi con la pulizia etnica e la guerra. Così come non credo sia affatto casuale l’elezione a sindaco di Prijedor di una donna espressione di un partito non nazionalista. Per raccontare il percorso di questi anni ci vorrebbe un libro, ma per questo ci penseremo. Sì il contesto è profondamente cambiato, anche se il più – almeno sul piano dell’elaborazione del conflitto – rimane ancora da fare. Quali prospettive economiche per la Bosnia? Come giudichi i processi di privatizzazione che stanno coinvolgendo anche il territorio dell'ADL? Questo è un tema di grosso spessore, che non può certo essere affrontato esaurientemente in poche battute. Per questo ti rimando al materiale che come Osservatorio sui Balcani abbiamo prodotto in questi anni, in primis il Manifesto per lo sviluppo locale nei Balcani e gli approfondimenti realizzati in occasione del convegno di Belgrado del settembre 2003. In breve la questione è questa. Sgombriamo il campo da alcuni equivoci che portano a considerare questi paesi come arretrati o sottosviluppati. Non è affatto così, anzi le economie che li caratterizzano sono immerse nei processi della postmodernità. Altro equivoco è quello della transizione verso l’economia di mercato. Che non esiste, per il semplice fatto che l’economia di questi paesi era già economia di mercato, certo con una sua peculiarità data dalla natura mafiosa (questo era lo stato) delle relazioni economico-sociali nei paesi a capitalismo burocratico. In questi anni si è passati da una deregolazione mafiosa (che occupava lo stato e che doveva almeno salvare le apparenze) ad una più esplicita, aperta a tutto. Processi che segnano anche le privatizzazioni in corso: la socializzazione delle perdite e la privatizzazione delle rendite. Non che l’apparato industriale della vecchia Jugoslavia facesse gola a qualcuno, obsoleto com’era e segnato dalla guerra. Quello che ingolosisce gli speculatori di ogni risma erano e sono le produzioni senza controllo (nocività, inquinamento), la manodopera che non costa nulla e priva di tutele sindacali e soprattutto il valore di rendita delle aree industriali che spesso sorgevano nel cuore delle città. Di qui anche i fenomeni di delocalizzazione delle imprese che riciclano su questi territori i macchinari non più in regola con le normative europee (un duplice guadagno, dunque) e di speculazione immobiliar-commerciale sulle aree industriali dismesse. Tutto questo, sia chiaro, ci riguarda da vicino, perché gli attori di questi processi hanno molto a che vedere ad esempio con il miracolo economico del nord est italiano. I processi di privatizzazione sono peraltro l’iceberg della rinuncia da parte della politica e delle istituzioni ad avere un qualche ruolo di indirizzo nell’economia e dunque rischiano di diventare una pura e semplice svendita del patrimonio pubblico e del territorio. Oltretutto le comunità locali sono completamente tenute fuori da questi processi, fortemente centralizzati: mi è capitato più volte di discutere con i rappresentanti della società civile e delle istituzioni locali del futuro urbanistico delle città a forte presenza industriale, i quali mi spiegavano la loro totale impotenza di fronte alla futura destinazione di aree di valore strategico per una qualsivoglia opera di riqualificazione urbana. In questo contesto di generale deregolazione e di vuoto di potere da parte delle istituzioni, il ruolo delle ADL può arrivare fino ad un certo punto e non oltre: comunque decisivo è il rapporto che si mette in moto con la comunità locale sostenendone il ruolo di denuncia, di interdizione e di costruzione di nuova consapevolezza. Quali sono le "ripercussioni" sui comuni trentini dell'esistenza dell'ADL? Nell’ADL di Prijedor concorrono, oltre alla Municipalità locale, l’Associazione Progetto Prijedor (partner leader), la provincia di Cordoba, il Coté d’Or francese e più recentemente il Sindacato dei pensionati del Friuli Venezia Giulia. All’Associazione Progetto Prijedor aderiscono venti comuni trentini, un comprensorio e diverse associazioni di volontariato. In questa maniera, un gruppo significativo di enti locali della provincia di Trento sono entrati a far parte della rete europea delle istituzioni locali impegnate nella diplomazia delle città. In altre parole hanno cominciato ad abitare la globalizzazione in forma attiva, in primo luogo cominciando a prendere coscienza di che cosa significa il concetto di interdipendenza, costruendo legami profondi con territori segnati dai moderni conflitti, attivando infine le proprie risorse di comunità in singoli progetti di solidarietà e di cooperazione. Ma la cosa forse più importante è quella di aver imparato a guardarsi dentro, osservandosi da fuori. Prendendo consapevolezza così delle proprie prerogative ma cogliendo anche le criticità del proprio territorio. E’ questo un processo ancora embrionale, non sempre elaborato collettivamente, ma credo a lungo andare di grande valore. Nelle parecchie centinaia di persone che in questi otto anni di relazione fra la comunità trentina e quella di Prijedor sono state coinvolte a vario titolo (dalle adozioni a distanza ai progetti nell’agricoltura, dallo sport ai temi più complessi dell’elaborazione del conflitto), è cresciuta la consapevolezza del villaggio globale, consapevolezza che spesso ha coinvolto anche amministratori e rappresentanti delle istituzioni locali che forse per la prima volta si sono trovati ad essere protagonisti di una diplomazia parallela che talvolta sa arrivare laddove falliscono le cancellerie. Così il Comune di Trento, capoluogo della nostra autonomia, ed il Comune di Massimeno, il più piccolo Comune del Trentino con meno di cento abitanti, hanno avviato – passatemi il termine – una loro politica estera se mai possiamo ancora parlare di politica estera e di politica interna. L’esperienza ci dice che non servono grandi mezzi finanziari, nella relazione di prossimità e di reciprocità quel che serve è la capacità di attivare le risorse del territorio, le esperienze professionali, i saperi, le modalità di autogoverno. E poi, ma solo nell’ambito di queste relazioni, anche il sostegno a progetti specifici purché ideati, condivisi e gestiti dalle comunità interessate. Potresti raccontarmi la genesi e la messa in pratica dell'iniziativa "Anch'io cittadino d'Europa" che si è svolta in occasione delle ultime elezioni europee? Nell’ambito del Forum Civico di Prijedor. Luogo che si è andato costituendo lungo il percorso sull’elaborazione del conflitto che dalla fine del 2002 ha visto impegnate una trentina di persone delle varie nazionalità presenti nell’area di Prijedor che avevano collaborato a vario titolo con il Progetto Prijedor e l’ADL. Ad un certo punto abbiamo riunito le persone che nel corso degli anni avevano dimostrato una maggiore sintonia con il nostro approccio e abbiamo detto loro: “Care amiche e cari amici, in questi anni abbiamo fatto molte cose insieme, ma c’è una sorta di non detto fra noi, ovvero la difficoltà di ragionare a mente aperta su ciò che è accaduto nella prima metà degli anni ’90. Ecco, di questo vogliamo parlare con voi. Così abbiamo proposto loro un percorso pluriennale che spaziava dalla lettura del ‘900 ai temi del conflitto e della colpa, passando attraverso la “banalità del male” di Hannah Arendt e la “sbornia collettiva” di cui ci ha parlato Rada Ivekovic nel suo splendido saggio “Autopsia dei Balcani”. Un capitolo specifico di questo percorso è l’Europa. In prossimità delle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo, ho proposto al Forum Civico di svolgere delle elezioni simboliche dove sulla scheda, al posto dei simboli dei partiti, ci fosse la scritta “Anch’io sono cittadino europeo”. Il nodo dell’Europa per il futuro di questa regione credo sia decisivo, tant’è che come Osservatorio sui Balcani ne abbiamo fatto uno dei tratti distintivi della nostra ricerca ed iniziativa politica. Pensiamo al manifesto “L’Europa oltre i confini” presentato a Sarajevo nel 2002 alla presenza dell’allora Presidente della Commissione Europea Romano Prodi, pensiamo all’iniziativa simbolica che ha collegato lungo il Danubio le città di Vienna e Belgrado nel 2003. La proposta è stata condivisa e la mobilitazione è stata davvero significativa, se pensiamo che tutte le circoscrizioni elettorali si sono aperte nei due giorni che si votava nel resto d’Europa, raccogliendo quasi settemila schede che verranno consegnate nel prossimo autunno ai responsabili delle istituzioni europee nel corso di un viaggio di studio che porterà il Forum Civico a Strasburgo e a Bruxelles. Pensare che nei nostri paesi il voto per il rinnovo del Parlamento Europeo (per non parlare della consultazione per l’adesione alla nuova Europa) ha avuto ed avrà percentuali di partecipazione irrisori e che una cittadina della martoriata Bosnia decida di andare a votare per manifestare il proprio senso di appartenenza europea, credo possa ben rappresentare il paradosso di un continente ancora ben lontano dall’Europa federalista che avevano in mente i padri fondatori. ___________________________________ Scopri Mister Yahoo! - il fantatorneo sul calcio di Yahoo! 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