Lettera Europea



LETTERA EUROPEA N°33
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La guerra in Iraq è stata il più clamoroso esempio
della totale incapacità di agire dell'Europa, della
paralisi prodotta dalla sua divisione, della sua
inesistenza come soggetto politico nei rapporti
internazionali. Alcuni dei governi dei suoi Stati
membri si sono lasciati invischiare in un'avventura
che i loro cittadini rifiutavano e il cui esito
catastrofico era largamente prevedibile. Altri, che
pure avevano avuto un riflesso di orgoglio e avevano
tentato di far valere la loro autonomia, sono stati
costretti ad assistere impotenti ad una vicenda
sanguinosa e insensata che la presenza di un attore
indipendente e autorevole avrebbe potuto scongiurare.
Uguali conclusioni si devono trarre dallo scoraggiante
spettacolo della completa assenza dell'Europa dal
teatro della tragedia israelo-palestinese e della sua
completa rinuncia al ruolo di mediazione e di proposta
che le è naturalmente attribuito dalla storia e dalla
sua situazione geografica.

Nel frattempo l'area dell'euro sta attraversando una
lunga fase di stagnazione economica, che aumenta il
suo ritardo nei confronti degli Stati Uniti e del
Giappone. Il suo sistema produttivo è sempre più
esposto alla concorrenza di economie meno sviluppate,
ma ben più dinamiche, come quella cinese. Le
prospettive di benessere delle famiglie in Europa si
stanno drasticamente ridimensionando. Lo stesso euro,
che prima della sua creazione era considerato come un
passo decisivo verso l'unità politica del continente,
è messo a rischio dalla sempre più evidente incapacità
dei governi degli Stati che lo hanno adottato di
adeguarsi alle regole del patto di stabilità, che pure
dell'euro costituiscono le condizioni di
funzionamento. La dura realtà dei fatti sta
dimostrando che non possono far parte a lungo della
stessa area monetaria governi con politiche economiche
e di bilancio indipendenti. Ed è evidente che
l'allargamento non farà che aggravare ulteriormente un
problema già gravissimo.

L'Unione europea è sulla via della disgregazione. Il
nazionalismo, anche se nella forma meschina del
provincialismo, sta facendo ritorno. L'Europa sta
uscendo dalla storia e i suoi cittadini accettano
passivamente un ruolo di crescente subalternità.

Di fronte a tutto questo è stupefacente l'incapacità
degli uomini di governo e dei partiti europei di
cogliere la gravità del momento storico che l'Europa
sta vivendo. Esiste certo una generica consapevolezza
dell'esigenza che l'Europa "parli con una sola voce",
ma manca del tutto quella della strada da percorrere
perché questa esigenza non rimanga un pio desiderio
dai contorni indeterminati, e diventi una drammatica
presa di coscienza che preluda a decisioni radicali.
Basta prendere atto dei progetti nei quali essa si
manifesta, che non vanno al di là dell'auspicio di un
rafforzamento della collaborazione tra Stati sovrani:
siano essi il progetto della formazione di una sorta
di direttorio anglo-franco-tedesco, già condannato
alla paralisi dalla totale divergenza di vedute tra i
suoi membri in materia di politica estera; o quello
della sottoscrizione e della (peraltro assai
improbabile) ratifica di un nuovo trattato,
pomposamente chiamato "costituzione", che apporterebbe
soltanto innovazioni di tipo cosmetico alla struttura
attuale delle istituzioni comunitarie senza intaccare
minimamente la sovranità degli Stati membri.

Il fatto è che non si può più rinviare il momento nel
quale deve essere posto il problema della creazione di
un potere europeo e del quadro nel quale esso può
essere inizialmente creato. Un potere europeo non può
nascere da nessuna confederazione, da nessuna unione
doganale o monetaria, da nessun congegno
istituzionale, per quanto complicato, che lascino
intatta la sovranità degli Stati. Perché quello della
sovranità è il problema, che non può essere aggirato,
ma deve essere affrontato. E la sua soluzione implica
la creazione di un esercito europeo, sottoposto ad un
governo democratico, che si sostituisca agli eserciti
nazionali e di un bilancio europeo autonomo,
alimentato da tributi imposti direttamente ai
cittadini.

Ciò significa trasferire a livello europeo i poteri
della spada e della borsa. Ma questi sono i poteri che
definiscono la statualità. Perché l'Europa parli con
una voce sola è necessario quindi che essa diventi uno
Stato federale. Si tratta certo di un obiettivo
difficile. Ma esso indica la sola via d'uscita
dall'impasse nella quale l'Europa si trova perché, se
oggi purtroppo ha una credibilità e un senso
affermare, come ormai molti fanno, che il tempo delle
speranze europee è finito e che l'unità europea è
diventata un sogno irrealizzabile, non ha né una
credibilità né un senso sostenere che l'unità europea
si può fare riscrivendo le regole dell'Unione,
ritoccandone le istituzioni e lasciando intatta la
sovranità degli Stati.

Nello stesso tempo non ha alcun senso porsi il
problema della fondazione dello Stato federale europeo
senza porsi quello del quadro nel quale questa
fondazione può avvenire. E' inutile continuare ad
illudere sé stessi e gli altri fingendo di credere che
l'unità politica dell'Europa possa nascere come per
incanto da una coincidenza di intenti tra i governi di
venticinque paesi profondamente diversi per grado di
sviluppo economico, per tradizioni politiche e per
struttura sociale, la grande maggioranza dei quali
vede nell'appartenenza all'Unione europea soltanto
un'opportunità economica da sfruttare e deve
rispondere ad opinioni pubbliche che considerano la
sovranità nazionale un bene prezioso da difendere. La
verità è che il processo di rilancio dell'unità
europea può avvenire soltanto attraverso la creazione
di un nucleo federale nel quadro dei paesi fondatori
(inizialmente con o senza l'Italia): o altrimenti non
avverrà affatto. Né ha senso affermare che i paesi
fondatori non costituiscono la massa critica
sufficiente per tener testa ai grandi attori
dell'equilibrio mondiale, e in primo luogo agli Stati
Uniti. Un nucleo federale composto dai paesi
fondatori, anche senza l'Italia, avrebbe una
popolazione di quasi 170 milioni di abitanti, e quindi
superiore a quella del Giappone, cioè di un attore
riconosciuto dell'equilibrio mondiale: e il nucleo
federale iniziale sarebbe aperto all'adesione di tutti
i paesi europei che ne accettassero la costituzione e
quindi sarebbe destinato a non rimanere a lungo nella
sua composizione iniziale, ma ad espandersi
rapidamente fino a raggiungere le dimensioni
dell'intera Europa. Come non ha senso, infine,
criticare la proposta del nucleo federale perché essa
dividerebbe l'Europa. In realtà l'Europa è già divisa,
e la sua divisione si approfondisce, nei comportamenti
reali, ogni giorno di più. Bisogna che qualcuno abbia
il coraggio di invertire la tendenza e di riprendere,
compiendo l'indispensabile primo passo, il cammino
dell'unità.

Publius







	

	
		
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