25_anni_di _riforma_sanitaria



Il 23 dicembre scorso è stato celebrato, per la verità un po' in sordina,
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Giancarlo CANUTO - A SINISTRA - Brindisi



A 25 ANNI DALLA RIFORMA SANITARIA

dr. Maurizio Portaluri maporta at libero.it
Medicina Democratica BRINDISI





In questi giorni un autoferrotranviere della provincia di Bari mi ha
inviato un documento in cui, rilevando che su 18 dipendenti della azienda
di trasporti per la quale lavora 3 sono deceduti per un tumore, si chiede
alle autorità sanitarie ed alle organizzazioni dei consumatori misure
preventive per migliorare la qualità dell'aria nei veicoli e nell'ambiente
urbano a vantaggio della salute dei lavoratori e dei cittadini. Ormai da
tempo non mi stupiscono gli insegnamenti che, a me medico, provengono da
lavoratori e cittadini  seriamente impegnati a riflettere sulle condizioni
dei loro ambienti di vita e di lavoro. A stupirmi è stata invece la
coincidenza tra il ricevimento di questo modello di "partecipazione
sanitaria" ed un anniversario. Infatti, il 23 dicembre scorso è stato
celebrato, per la verità un po' in sordina, il venticinquesimo anniversario
della promulgazione della legge di riforma sanitaria, nota come legge 833
del 1978. Un provvedimento che può essere ben ritenuto il risultato di
lotte e rivendicazioni da parte di lavoratrici e lavoratori che non
ritenevano più tutelata la propria salute da un groviglio di enti
mutualistici più intento ad erogare prestazioni che a porre al centro del
proprio interesse  le condizioni sanitarie della popolazione.

Per questo la legge di riforma, unificando in un unico servizio sanitario
nazionale la struttura responsabile della salute individuale e collettiva,
introduceva il principio del diritto all'accesso in maniera gratuita di
tutti i cittadini a tutte le prestazioni necessarie. Inoltre veniva
introdotto il principio per il quale il servizio sanitario deve occuparsi
non solo della cura delle malattie ma anche della loro prevenzione e della
riabilitazione dei soggetti ammalati. La gestione di tale servizio veniva
affidata alle unità sanitarie locali, luoghi istituzionali che,
nell'intento dei promotori della legge, dovevano essere spazi di
partecipazione dei cittadini e di decisione collettiva ma che finirono
spesso per rappresentare più le esigenze elettorali dei partiti che quelle
di salute della popolazione. In particolare il Sud non riuscì a sfruttare
la unificazione del servizio a livello nazionale per recuperare
l'arretratezza determinata da decenni di gestione delle strutture sanitarie
affidata quasi esclusivamente agli enti locali e naturalmente influenzata
dalla carente disponibilità di risorse finanziarie rispetto alle altre
realtà del Paese.

Le varie "lobbies" sanitarie iniziarono a soffiare sul fuoco del
malcontento e a rimpiangere i tempi andati, quelli delle mutue,
dimenticando o nascondendo i costi più volte sopportati dalla collettività
in quei decenni per ripianare  gli sprechi inarrestabili di un sistema di
assistenza particolaristico, riservato solo ad una parte della popolazione,
foraggiatore di privilegi corporativi. Accanto a questa azione denigratoria
condotta dall'interno del sistema, un'altra forza di segno contrario alla
riforma democratica della gestione della sanità emerse tra la fine degli
anni ottanta e gli inizi degli anni novanta, caratterizzata dalla idea
ossessiva della limitatezza  delle risorse da destinare ai servizi pubblici
e dalla presunta necessità di introdurre le leggi del mercato e della
competizione anche nel campo della salute. Sotto queste spinte giunse la
prima controriforma del 1992, legata al nome ministro De Lorenzo -
destinato a diventare presto tristemente famoso per la gestione delle
autorizzazioni dei farmaci - i cui principi fondamentali furono la
trasformazione delle unità sanitarie locali in aziende e l'introduzione di
elementi privatistici nel sistema, sia nel campo dell'erogazione dei
servizi che in quello dei rapporti di lavoro.

Le ultime riforme in ordine temporale, quella Bindi e quella Veronesi,
hanno rafforzato la tendenza all'aziendalizzazione ed alla gestione
monocratica della sanità anche se recuperano tra le righe qualche spazio
per la partecipazione dei cittadini. Grazie al sistema universalistico le
condizioni di salute degli italiani sono notevolmente migliorate nei
decenni successivi alla introduzione della riforma ma questo effetto è oggi
il risultato a lungo termine di quel cambiamento mentre dovremo attendere
diverso tempo per valutare gli effetti sanitari delle politiche liberiste
in atto dagli anni 90 in Italia. La "mucca pazza" è solo un esempio
dell'effetto delle politiche liberiste dell'Inghilterra negli anni ottanta
e delle conseguenti riduzioni di sorveglianza e di obblighi nel settore del
trattamento dei mangimi per allevamento. L'idea neoliberista della
necessità di ridurre le risorse per la sanità pubblica cozza con
l'introduzione, da essa stessa propugnata, del privato nell'erogazione
delle prestazioni. Infatti il privato realizza un incremento dei costi
rispetto ad un sistema sanitario pubblico per il semplice fatto che deve
produrre anche il profitto per l'imprenditore. Inoltre l'idea
aziendalistica della gestione della sanità non permette di percepire il
ruolo che la prevenzione, quella vera naturalmente, può esercitare sulla
riduzione delle malattie e quindi, a lungo termine e in maniera duratura,
sui costi della cura delle stesse.

Studi di comparazione internazionale, pubblicati su riviste scientifiche,
mostrano che la riforma sanitaria in Italia ha prodotto i migliori
risultati di salute a bassi costi e che sistemi sanitari pubblici
garantiscono migliori condizioni di salute per tutti. D'altra parte si
comprende che, se la salute diventa una merce, per gli ospedali, o aziende
che dir si vogliano, soprattutto privati, sarà più  "conveniente" che ci
siano molti ammalati, clienti o utenti come significativamente si
preferisce chiamarli. L'interesse di un sistema sanitario aziendalistico
finisce per diventare opposto a quello della popolazione. Al contrario, ad
un sistema pubblico partecipato conviene ridurre il numero di malati ed
investire in prevenzione. Solo l'espansione del sistema pubblico e
gratuitamente accessibile a tutti e lo sviluppo delle attività di vera
prevenzione possono migliorare il livello di salute collettivo.

Nel campo dei tumori alcuni studiosi ritengono che un'azione efficace in
tema di prevenzione contro i cancerogeni negli ambienti di vita e di lavoro
può portare in dieci anni ad una riduzione del 30% dei nuovi casi di cancro
con conseguenti risparmi sulle cure. Non vi è dubbio che la salute rimane
una questione politica, nell'accezione più elevata del temine, e non una
questione asetticamente tecnica come si tende a far credere. Così come
l'AIDS e la mortalità infantile sono maggiormente diffuse nelle parti più
povere del mondo, così anche le malattie del mondo occidentale, quelle
cronico degenerative, sono diffuse soprattutto nelle categorie sociali meno
protette e la vita media non è uguale per tutti le classi sociali.
Basterebbe questo dato per comprendere come sia urgente e necessario
riavviare processi partecipativi che, con l'ausilio di tecnici, analizzino
i rischi per la salute ed indichino le priorità di intervento sanitario,
sociale ed economico.

Brindisi 28 dicembre 2003