"SEMINO
CON FIDUCIA E ME NE VADO ALTROVE".
PARIGI-JACQUES GAILLOT:
"Non ho smesso di valicare
barriere, comprendendo che l'essere umano viene prima della legge, l'amore prima
dei princìpi, la giustizia prima dell'ordine costituito".
ha parlato con la rivista d'oltralpe
Golias, in un'intervista di cui riportiamo ampi stralci.
da "Golias" di marzo-aprile 2003 Incontro con Jacques
Gaillot "OTTO ANNI DOPO IL SUO SILURAMENTO,LA PAROLA DI UN UOMO ANCORA FERITO
DA QUEL PROVVEDIMENTO"
(le parole del titolo non sono di
Jacques Gaillot, come lui stesso ha detto a Napoli il 13.6.03 a noi dell'ASSOCIAZIONE PARTENIA http://utenti.tripod.it/partenia Del
resto Jacques Gaillot è un uomo libero interiormente e pertanto non può
essere ferito da nessuno. LA CHIESA CATTOLICA HA
DESTITUITO JACQUES GAILLOT POICHE' ERA ED E' DALLA PARTE DEI SENZA DIRITTI,
DEGLI ULTIMI. MA ANCHE LA CHIESA CATTOLICA DICE DI ESSERE DALLA PARTE DEGLI
ULTIMI (IMMIGRATI), PERCHE' ALLORA NON DESTITUISCE SE STESSA? FORSE PERCHE' I
SUOI IMMIGRATI SONO POLITICAMENTE UN BEL BUSINESS E QUELLI DI JACQUES
GAILLOT NO?)
In occasione dell'uscita del libro
Un Catechismo che sa di libertà, Golias ha incontrato mons.
Jacques Gaillot. È l'occasione per fare il punto sul suo itinerario, partendo
dalla sua destituzione come vescovo di Évreux (gennaio
1995).
Immaginiamo, al di fuori di ogni verosimiglianza, che domani
mattina Le proponessero una nuova diocesi in Francia, Lei accetterebbe? E, se
sì, a quali condizioni? Direi "no". Il futuro non è tornare indietro. Il
mio cammino è proteso in avanti e la mia vita è fuori le mura. Per il Giubileo
dell'anno 2000, il presidente della Conferenza episcopale (francese, ndt) fece
un gesto fraterno nei miei confronti per dire che noi eravamo "in comunione". Un
uomo dall'Alsazia mi scrisse: "Mentre mangiavo e guardavo il telegiornale, ho
saputo che Lei era stato reintegrato nell'episcopato. Che tristezza! La
forchetta cadde nel piatto. Fino a quel giorno avevo stima per tre uomini che
hanno saputo dire "no": il generale De Gaulle, l'abbé Pierre e Lei. Le loro foto
sono sulla parete del mio ufficio. Ebbene, devo togliere la Sua foto dal mio
ufficio!". Gli risposi subito di non affrettarsi! Questa reazione è
significativa: tutti quelli che si trovano distanti o fuori dell'istituzione mi
riconoscono con chiarezza perché sono contrassegnato dal marchio
dell'esclusione.
Ho sentito dire da Lei, come già in altre circostanze
da Guy Riobé e Dom Helder Câmara, e come ho letto di mons. Romero: "Se fossi
stato quello che sono diventato, non sarei mai stato nominato vescovo". Quali
sono le sue conclusioni in merito alla scelta e alla nomina dei vescovi? Il
"carattere episcopale" sarebbe un semplice conformismo, ma conformismo a che
cosa? Al momento della mia ordinazione nella cattedrale di Évreux, nel
1982, domandavo a Dio la grazia di essere il vescovo che Lui si attendeva da me
per rispondere alle aspettative del popolo al quale ero inviato. Non immaginavo
per nulla ciò che stavo per diventare. È tutto un popolo che mi ha insegnato a
diventare vescovo. Io ho vissuto il mio episcopato come una nascita. Gli eventi
sono precipitati, obbligandomi a fare scelte e gesti precisi. Molti incontri mi
hanno aperto ad altri orizzonti. Non ho smesso di valicare barriere,
comprendendo che l'essere umano viene prima della legge, l'amore prima dei
princìpi, la giustizia prima dell'ordine stabilito. Ho verificato che Gesù
apparteneva all'umanità e non ai soli cristiani. Quest'adattamento alla missione
ricevuta si è realizzato lungo i giorni, rinnovando il mio cuore ed il mio
sguardo. Quando vogliono scegliere un vescovo, si dovrebbero forse chiedere: "È
adatto a rinascere?". Si tratta di essere autentici più che conformisti e di
lasciare l'avvenire aperto.
Questo problema istituzionale naturalmente
riguarda solo i vescovi; non si può pensare invece che sia la questione della
Tradizione a non esser fatta solo di usi e di definizioni ufficiali, ma
innanzitutto di un'evoluzione del popolo di Dio attraverso i rischi della sua
storia? Detto in altro modo, nella Sua esperienza di vescovo di Évreux e poi di
Partenia, non è Lei forse testimone di questa Tradizione nel suo senso largo e
nobile? Di passaggio in una grande città, su richiesta di associazioni
impegnate nella solidarietà, sono stato invitato a partecipare ad un incontro di
cristiani. Nel corso del dibattito, qualcuno prese la parola per dire: "Su
questo problema il papa ha detto che...". Una donna gli rispose: "Mi
piace sapere ciò che pensano i responsabili della Chiesa per chiarirmi le idee,
ma, in ogni modo, sono io che decido". Trovavo che questa donna aveva dato
una risposta molto giudiziosa. Indicava così la formidabile evoluzione che
avviene sotto i nostri occhi: è l'individuo con la sua libertà e la sua
coscienza che si determina. Non aspettiamo più che l'autorità parli per sapere
ciò che dobbiamo fare o dire. L'influenza dell'Istituzione sulle coscienze
appartiene al passato. Questo cambiamento è più radicale di quello delle
strutture. Il popolo di Dio ha un senso della fede che gli è dato dallo Spirito
Santo. "La condizione di questo popolo è la dignità e la libertà dei figli di
Dio, nel cuore dei quali, come in un tempio, abita lo Spirito Santo… La comunità
dei fedeli, poiché ha l'unzione che viene dal Santo, non può sbagliarsi nella
fede" (Lumen gentium, nn. 9 e 12). Sono spesso testimone meravigliato
della maturità dei cristiani che portano ed incarnano il fermento evangelico
nelle situazioni umane più varie. Che cosa fa sì che dei cristiani arrivino a
questa maturità? Essi sono "divenuti capaci di leggere negli avvenimenti,
piccoli o grandi, ciò che richiede una situazione, ciò che Dio si aspetta da
loro". È il concilio Vaticano II che si esprime così (Presbyterorum
ordinis, n. 6).
In questa prospettiva leggiamo ed ascoltiamo cose
apparentemente contraddittorie a proposito del Vaticano II: per alcuni siamo
ancora a livello di applicazioni inattuate, mentre per altri si tratta di uno
spirito in cammino e che va già oltre quello che è stato deciso e codificato dal
concilio. I due tipi d'interpretazione si oppongono sempre più: cosa ne
pensa? Uno dei frutti del concilio è precisamente questa maturità di una
gran parte del popolo di Dio: i cristiani si sentono e sanno di essere
responsabili, liberi, attori in prima persona. Hanno una fede personale.
Decidono da sé e prendono iniziative. È straordinario. Niente li ferma. Il tempo
per loro non consiste più in analisi. Essi vivono e lottano. Quando ero giovane
prete al momento del concilio, non ho conosciuto questa germinazione. Preferisco
questa Chiesa di oggi nella quale c'è una vitalità della base e constato con
ammirazione che una gran parte del popolo di Dio è in anticipo sui suoi stessi
responsabili. Senza dubbio molti cristiani non vanno più in chiesa o ci vanno
raramente, ma sono fermenti di umanità là dove vivono.
Lei ha
intrapreso una riforma che era più che una semplice ristrutturazione della
diocesi di Évreux. Può parlarci di questa ristrutturazione che Lei immaginava,
che è altro rispetto al semplice ricondurre ed adattare uno statuto ed un
modello clericali? Per temperamento sono poco portato alle
ristrutturazioni! L'importante per me è creare uno slancio, dare un soffio,
risvegliare delle libertà, dare fiducia, mostrare che le cose si possono fare
senza aspettare. L'avventura spirituale è avvincente. I cristiani di base si
sono sentiti responsabili. Hanno imparato a fare Chiesa con delle differenze da
gestire, dei dibattiti da iniziare, dei conflitti da regolare. Partire dai
poveri, dar loro accesso alle responsabilità, chiamarli al diaconato o al
sacerdozio non si fa senza difficoltà. Quando Gesù dice a Nicodemo: "Devi
rinascere", è vero anche per la Chiesa. È chiamata a rinascere. Quando dice
ai suoi discepoli: "Chi perderà la sua vita a causa mia la troverà", ciò
vale anche per la Chiesa, che è chiamata a perdere il suo potere, le sue
sicurezze, le sue abitudini per trovare la vita. Ho visto con gioia la nascita
di una Chiesa nella quale delle comunità si prendevano le loro responsabilità
insieme a preti felici di vivere la condizione comune dei battezzati, essendo in
mezzo a loro fratelli tra fratelli.
Si ha molto spesso l'impressione
che un po' di sociologia ed un appello ai laici, e dunque al concilio Vaticano
II, mascherano male il dato principale della scarsità del clero. Si farebbe
meglio a dirlo chiaramente. Che cosa ne pensa? Sembriamo aver paura della realtà
oppure consolarci in un riformismo superficiale… Nel 1993 l'assemblea dei
vescovi di Francia doveva affrontare il dossier sui preti. Alla fine di
settembre, avevo mandato un articolo al giornale Le Monde per lanciare il
dibattito su questo problema. Dieci anni dopo, penso che l'articolo sia ancora
attuale. Lo rileggo per ricordarlo: "I preti si fanno rari. Il loro
numero non cessa di diminuire. La loro età media si fa sempre più alta. Le
statistiche segnano rosso. Di questo passo finiremo presto sull'orlo di un
baratro. E intanto le norme d'accesso al ministero ordinato restano immutate.
[…] Come un vecchio dolore al quale finiscono per adattarsi, molti cattolici
giungono ad accettare che il deficit aumenti in maniera indefinita. Per mancanza
di preti le comunità languiscono e muoiono. È sufficiente ascoltare le
statistiche per vedere se la situazione migliora o peggiora? La prospettiva
resta la stessa. Ritrovare una situazione di Chiesa come l'abbiamo potuta
conoscere un tempo. Tentare di ricostituire il passato piuttosto che suscitare
il futuro. Ma non facciamo passi in avanti mantenendo gli occhi nello
specchietto retrovisore. Aprire seminari, pescare giovani in lungo e in largo,
accogliere dei tradizionalisti, è così che prepareremo il futuro? Possiamo
temere che queste iniziative non preparino i preti di cui la Chiesa avrà
bisogno. Ci si contenta, nei fatti, di continuare la Chiesa così com'è stata,
assicurando la sopravvivenza di un funzionamento striminzito. Perché tanti
blocchi e così poca immaginazione? L'epoca delle prime comunità cristiane non
conosceva queste sclerosi. In esse si creavano i servizi in funzione dei
bisogni, con flessibilità e libertà; ogni comunità celebrava l'eucaristia
secondo i luoghi, si trovavano soluzioni diverse e non c'erano modelli imposti
dappertutto. Non bisognerebbe ritrovare una simile libertà d'iniziativa? In
questo modo tutto sarà stato tentato, messo in opera. È probabilmente perché
questo deficit, unico nella storia della Chiesa, è il sintomo di una crisi molto
più profonda. Il rapporto tra la società laicizzata e secolarizzata e la Chiesa
non può più essere lo stesso, e lo statuto del prete si trova radicalmente
modificato. I responsabili se ne preoccupano veramente? Fino a che punto di
regressione bisognerà essere condotti perché s'instauri un vero dibattito e
siano ricercate delle soluzioni?" (Le Monde del 6 novembre
1993). Quest'articolo uscì lo stesso giorno della discussione in assemblea
plenaria. Una bomba! In apertura di seduta, il presidente mi sconfessò
affermando che quest'articolo era inammissibile e che io prendevo ancora una
volta le distanze da Roma e dall'episcopato francese. Applausi dei vescovi,
compreso il mio vicino. Vi fu un silenzio pesante. Dovevo lasciare l'assemblea?
Dovevo intervenire? Feci la scelta di restare e di non dire niente. Il
presidente passò all'ordine del giorno.
In quest'avventura la Chiesa
di Francia appare sempre più come una matrigna che divora i suoi figli, come se
il servizio interno della Chiesa fosse il dovere più grande del cattolico di
oggi. È veramente questo volto triste che ha sognato il concilio parlando della
"Chiesa nel mondo di oggi"? È strano. Lei avrà senz'altro una visione
particolare ora che non è più responsabile di una diocesi! I problemi
della società sono prioritari. Quelli della Chiesa sono secondari. La Chiesa non
è fatta per se stessa. Esiste in relazione al mondo. Il mondo è la misura della
santità della Chiesa.
Per volontà di Roma e dei Suoi confratelli, Lei
è stato cacciato da questo servizio alla Chiesa, che assorbe certamente più un
vescovo che il resto dei cattolici, e Lei ora si trova, al contrario, al
servizio dei Suoi fratelli di ogni appartenenza, in collaborazione con tutti
quelli e tutte quelle, cristiani o no, che hanno la preoccupazione dei poveri e
degli esclusi. Che cosa ha voglia di dire alla Chiesa di Francia? Grazie
a Roma, mi ritrovo in un cammino che non avevo previsto di intraprendere. È per
me un'altra vita, appassionante e dura, a fianco di quelli che sono abbandonati
dalla società. La Chiesa non è mai se stessa senza i poveri. Il suo ruolo è di
essere là dove il popolo soffre: i palestinesi, gli zingari, gli immigrati, i
senzatetto, i carcerati, i malati…, facendo dei gesti che la compromettono
insieme a loro.
"Non abbiate paura!" è stato una sorta di "leitmotiv"
dell'attuale papa. Lei sembra averlo messo in pratica credendo che andare verso
il mondo fosse nel programma della Sua vocazione di vescovo; non è forse questo
che Le è stato rimproverato? La Sua storia ad Évreux, l'incontro con le persone
del luogo, L'hanno condotta altrove, come accade ancora oggi. Cosa ha voglia di
dire ai Suoi "fratelli vescovi" e agli altri cristiani? Alcuni giorni
prima della festa di Natale, quando la folla invadeva i marciapiedi dei grandi
magazzini del boulevard Haussman a Parigi, i sans-papier (immigrati senza
documenti, ndt) vennero a manifestare. Ero con loro. Abbiamo fatto il giro delle
Galeries Lafayette, sotto l'occhio della polizia, al suono dei tam-tam, con
bandiere e distribuendo volantini alla folla. Non occupavamo un luogo.
Invadevamo lo spazio pubblico della strada. Ci siamo fermati davanti alla chiesa
Saint Louis d'Antin. Subito le porte della chiesa si chiusero. In cima al corteo
un militante alzò le braccia con un cartello che tutti potevano leggere:
"Gesù accoglieva gli stranieri, la Chiesa li espelle". Bisogna dire che,
la vigilia, la polizia aveva espulso i sans-papier da due chiese! Vicino
si trovava un gruppo che intonava con forza dei canti di Natale al microfono.
Cercava di coprire la voce dei sans-papier che dicevano alla folla:
"Che Natale sarà per noi? Siamo stati costretti ad abbandonare i nostri
paesi, lasciandoci indietro la nostra famiglia, i figli, la terra, il villaggio.
Siamo privati dei diritti fondamentali: lavoro, casa, libertà di
circolare…". È una bella parabola che può ispirare la Chiesa: essa è
invitata a lasciare aperte le sue grandi porte per assumere il rischio di
accogliere la vita del mondo. È anche chiamata al raccoglimento per poter
ascoltare la grande voce dei poveri.
Può dirci qualcosa della Sua vita
di oggi? Come vive? Di che vive? Vedette un giorno per i media e messo in
un angolo l'altro… Da quattro anni sono ospitato molto fraternamente dai
Padri Spiritani nel cuore di Parigi. Ho sempre pensato che il beato Jacques
Laval, originario dell'Eure ed apostolo dell'Île Maurice, aveva condotto i miei
passi verso la casa madre degli Spiritani. Arrivando ad Évreux, mi ero messo
sotto la sua protezione, ammirando la maniera in cui aveva condotto la sua vita
presso i poveri. Sospetto che abbia messo lo zampino nella mia partenza da
Évreux! La casa degli Spiritani è un incrocio di popoli. Nel momento in cui
scrivo queste righe, ci sono dei giovani dei paesi dell'Est che sono venuti per
il grande raduno di Taizé a Parigi. Apprezzo questi contatti così diversi che
aprono all'umanità. Nella mia camera mi ritrovo come al tempo in cui ero
studente. Mi basta un piccolo tavolo come ufficio ed alcuni libri, tra cui la
Bibbia ed il breviario, che fungono da biblioteca. Disponendo dell'equivalente
del salario minimo garantito, faccio fronte alle spese: pensione, pranzo,
telefono, senza dimenticare i francobolli, di cui sono, purtroppo, grande
consumatore. Non avendo più la macchina, faccio economia. I viaggi mi sono
pagati da quelli che mi invitano. Non ho mai avuto bisogno di chiedere del
denaro. La comunità di preghiera con gli Spiritani è una benedizione. È una
fonte che disseta. Non partecipo spesso ai pasti della comunità, ma è raro che
manchi ad una funzione quando sono là. Fornito di una carta argento, ho il
piacere di viaggiare gratis sui mezzi pubblici di tutta l'Île de France. Non me
ne privo, andando in piazza con l'associazione Droits devant! (I
diritti prima di tutto!, ndt), di cui sono copresidente con Albert Jacquard
e Léon Schwartzenberg, con il Droit au logement (Diritto alla
casa) ed il Comitato dei senza tetto. Così ieri ero alla prefettura
di polizia di Parigi con i rappresentanti del nono collettivo dei
sans-papier. Oggi ero in periferia, ad Achères, con gli zingari, invitato
dal loro comitato di sostegno. Le famiglie vivono nel fango, nell'umidità, con
la presenza dei topi, in condizioni che non si possono immaginare! Domani ci
sarà la difesa di un prigioniero politico tunisino, del quale presiedo il
comitato di sostegno. Si tratta di Zouhair Yahyaoui, trentaquattro anni, che
sconta una pena di due anni di prigione dura in condizioni inumane per aver
osato criticare il regime di Ben Ali nel suo forum su Internet. Ci sono i
viaggi in Francia e all'estero, come per esempio la Palestina, per i diritti
dell'uomo e per la pace. Non avendo un segretario, passo molto tempo a
rispondere al mio cellulare, alla posta elettronica e alle lettere, a fissare
appuntamenti, ad andare a comprare biglietti di treno e d'aereo. Mi resta anche
da aggiornare il sito di Partenia, inviando ogni mese dei testi a Zurigo. Come
si vede, non sento odore di chiuso. In questo genere di vita, i grandi
media non mi sollecitano più ed è bene così. È il tempo del silenzio.
(...).
Il funzionamento più elementare della giustizia in uno Stato di
diritto vuole che ogni accusato abbia il diritto di perorare la sua causa e di
difendersi: sembrerebbe che ciò non sia valso nel Suo caso. Sono stato
convocato a Roma senza sapere ciò che mi attendeva. Sono stato condannato senza
processo. Non ho mai ricevuto personalmente un documento che indicasse i motivi
della mia destituzione. C'è stata un'offesa fatta ad un popolo. La collegialità
non ha funzionato. Ecco, almeno alcuni vizi di procedura… Oggi non si accendono
più i roghi. Si rigetta, si fa tacere, si esclude.
Lei non era
accusato per questioni di fede o di costumi. È dunque una situazione
eccezionale: non c'è stato processo e Lei non ha avuto la possibilità di
difendersi. Quali argomenti avrebbe invocato a Sua difesa? Otto anni
dopo, non ho più il desiderio di difendermi. Sono proteso verso l'avvenire e
vivo la mia vita. Può essere interessante sapere che la goccia che ha fatto
traboccare il vaso nel mio siluramento è l'intervento del ministro dell'Interno
dell'epoca presso la Segreteria di Stato vaticana. La rivista Golias
l'aveva segnalato, così come Le Canard enchaîné, ma ne ho avuto conferma
da una buona fonte a Roma.
È facile pensare che, liberato da una
responsabilità ufficiale, Lei ha acquisito una più grande libertà di parola e di
azione, ed anche una più grande disponibilità. Possiamo pensare anche che nel
corso di questi ultimi anni il Suo pensiero, la Sua visione della Chiesa si è
dovuta evolvere? Quando si è vescovo di una diocesi, si è fagocitati da
un gran numero di riunioni, di commissioni, di consigli. L'amministrazione ha il
suo peso. E non è semplice trovare del tempo per andare verso quelli che stanno
fuori. Grazie a Roma, sono libero da tutto ciò che è istituzionale ed ho una
grande libertà d'azione. Quando ero ad Évreux, non mi era possibile venire ad
una manifestazione o presso un'occupazione abusiva a Parigi, perché cadeva
sempre di sabato o di domenica. Oggi per me la Chiesa evoca dei volti: donne e
uomini che credono nel Cristo, gente concreta, che concilia vita e fede,
cercatori di Dio, persone in preda al dubbio e allo spaesamento… Sono delle
piccole comunità che brillano nella notte come luci nella città. È una Chiesa
concreta.
Quando era vescovo di Évreux poteva interrogarsi, ma forse
non poteva sufficientemente parlare di temi come il matrimonio dei preti,
l'ordinazione delle donne, la situazione dei divorziati etc.? Ora, che può dirci
in merito? Ho affrontato chiaramente questi problemi quando ero vescovo
di Évreux. Per esempio, in un'assemblea a porte chiuse a Lourdes nel 1988 ho
perorato la causa dell'ordinazione presbiterale per gli uomini sposati. In un
secondo intervento riguardante i preti sposati dicevo: "È, in effetti, molto
strano che si facciano tanti sforzi per trattenere persone che su punti
essenziali della fede sono lontani dal concilio Vaticano II e che ci si rassegni
all'abbandono di preti di valore per il solo fatto che hanno infranto la
promessa del celibato. Perché non accordare la dispensa dal celibato a preti che
ne fanno domanda ma che vogliono rimanere in comunione con la Chiesa? Fino a
quando ci si priverà del ministero dei preti sposati, che si rendono disponibili
per il servizio alla Chiesa?". Il silenzio si fece glaciale nell'assemblea.
Oggi capisco meglio che è tutto un sistema che deve essere cambiato. Si
potrebbero comunque ordinare uomini sposati o donne, ma si continuerebbe a
perpetuare un sistema che ha fatto il suo tempo. Vino nuovo in otri nuovi.
(...).
Il Suo nuovo ministero di vescovo di Partenia l'ha messo in
rapporto con cause molto diverse e con organismi non meno diversi, gli uni
confessionali, ma gli altri, certamente la maggioranza, non confessionali, cosa
non nuova per Lei. Può parlarci di quest'esperienza ed eventualmente di ciò che
avrà voglia di dire alle nostre buone strutture, tanto cattoliche? Faccio
parte di associazioni non confessionali e non caritative. Non siamo fatti per
dare aiuti. Lottiamo per il rispetto dei diritti fondamentali. Perché i poveri
siano in piedi, responsabili e attori in prima persona. I militanti dicono
spesso: "Non vogliamo la carità, reclamiamo la giustizia". Per non
conservare la miseria. Mi piace la riflessione di Dom Helder Camara: "Quando
aiuto i poveri, mi dicono che sono un santo. Ma quando faccio in modo che i
poveri prendano in mano il loro destino e diventino responsabili, mi dicono che
sono un vescovo rosso". Ci sono cristiani che sono presenti là dove donne e
uomini sono in pericolo. La loro presenza può fornire una buona coscienza
all'istituzione della Chiesa, ma non cambia per questo l'istituzione. L'azione
di questi cristiani non incide sul funzionamento dell'istituzione, che continua
come prima.
Immaginiamo che Lei sia al centro di molte richieste e
perciò dev'essere obbligato a fare delle scelte; non deve essere facile. Alcune
volte Lei deve evitare di essere coinvolto in molte cose. Può
parlarcene? In effetti ho molte richieste. Essendo al di fuori, evito gli
inviti della comunità cattolica. Così rifiuto abitualmente di animare ritiri o
raduni. Ma accetto di parlare alle logge massoniche in Francia e all'estero. Se
dei media mi invitano ad un dibattito sulle dimissioni del papa o sul
celibato dei preti, rifiuto. Non è questa la mia lotta. Se m'invitano a parlare
dei sans-papier, accetto subito. La mia vocazione è quella di restare ai
margini, presso coloro da cui la Chiesa è lontana. Talvolta, sono contenti di
servirsi di me. Ciò avviene senza ipocrisie. Per esempio so che, andando a
visitare in periferia la comunità dei rom, la televisione regionale sarà lì.
Anche il sindaco non mancherà di essere presente.
I Suoi impegni Le
fanno incrociare il mondo associativo, ma anche quello umanitario e quello
politico, e questo talvolta al di là dei tabù ecclesiastici e sociali. Certo, la
Sua libertà è grande ora, ma come se la cava? Invitato dal Mrap
(Movimento contro il razzismo e per l'amicizia tra i popoli, ndt) in una città
tradizionalmente di sinistra, ma che ha virato a destra, intervengo sui diritti
dell'uomo e la solidarietà. Nel corso degli incontri, il comune - la maggior
parte dei membri è cattolica - brilla per la sua assenza, con grande rabbia del
Mrap. Io non mi formalizzo. Passo oltre.
La Sua nuova diocesi è anche
una "diocesi Internet". Può parlarci della sua nascita e dei suoi sviluppi? Lei
ci parlava anche di un progetto di catechismo, che ne è? Ha un'idea dei Suoi
corrispondenti? Dopo sette anni di funzionamento, sono sempre
meravigliato delle possibilità di Internet. All'inizio una squadra si è messa
concretamente all'opera. Poi abbiamo dovuto passare rapidamente all'inglese e a
sette lingue. Abbiamo proceduto innovando, senza mai fermarci quando abbiamo
trovato una buona soluzione. Il forum si è imposto così come le foto. Gli
internauti ponevano molte domande. Mi è stato suggerito di lanciare un
catechismo elettronico. Una squadra si è messa all'opera. Gli echi erano molto
favorevoli. Nelle cappelle o nelle parrocchie ci si serviva dei testi proposti.
Dopo tre anni abbiamo pensato che sarebbe stato utile farne un libro: Un
catechismo che sa di libertà. Testo che è infatti in corso di
pubblicazione..
Una delle Sue intuizioni, già quando era vescovo di
Évreux, era che bisognava incontrare gli uomini là dove sono e non attenderli
nelle nostre sacrestie o le nostre opere, che essi non hanno grandi
chances di frequentare. Così Le sono stati rimproverati degli articoli o
la Sua partecipazione a trasmissioni, o ancora il fatto di aver aperto le porte
del Suo episcopio. D'altronde Gesù non ha fatto altro, secondo il Vangelo, che
percorrere le città e le campagne. Gliel'hanno fatta pagare. Come vede le cose
ora, molti anni dopo la sua destituzione? L'avvenire è nell'apertura e
nello scambio con gli altri. Dopo la mia destituzione, ho constatato con gioia
che vescovi e preti prendono la parola nei media su ogni argomento; altri
mettono in "prima pagina" sulle loro riviste diocesane le priorità che dei
sans-papier. Altri infine dichiarano apertamente l'immoralità civica
dell'estrema destra. Non sono in nessun modo inquietati dall'istituzione. Sono
dei passi in avanti che bisogna salutare positivamente.
Ci ricordiamo
del Suo incontro con Eugen Drewermann a Strasburgo. Anche lui si è ritrovato,
diversamente da Lei, in situazione d'esclusione. Non ha l'impressione di uno
scandaloso pasticcio? O allora bisognerebbe rassegnarsi a pensare che tutto ciò
era inevitabile? Ma allora la questione sarebbe grave per la nostra
Chiesa… Eugen Drewermann ha saputo riprendersi. La sua bella umanità non
è stata distrutta dall'istituzione. Se fosse stato distrutto, si sarebbe potuto
parlare di un terribile pasticcio. Ma non è il caso. E, se fosse rimasto in
funzione in seno alla Chiesa, non avrebbe conosciuto la notorietà che ha oggi.
Gli ho già detto che la Chiesa gli ha reso un buon servizio. Poiché era fuori,
molti hanno potuto beneficiare della sua parola e della sua testimonianza. Detto
ciò, non è certamente compito dell'istituzione far soffrire la gente a rischio
di spezzarla.
In questa prospettiva, può parlarci della Sua visione
attuale sulla vexata quaestio biblica circa il rapporto tra istituzione e
profezia? Come vescovo Lei è partito dalla prima ed ha tentato di includervi la
seconda; ne è risultata la Sua esclusione e dunque è stato sospinto nella
seconda; vede Partenia come una possibilità di profetismo? Ci sono
profeti tra di noi. Ce ne sono sempre stati. In particolare, in periodi di
crisi. È una ragione di speranza. Sono donne e uomini che nascono in maniera
imprevista e che fanno ascoltare parole forti di indignazione. Compiono gesti e
puntano l'indice su carenze strutturali. Denunciando questo stato di cose,
anticipano i tempi. Aprono al futuro. Impediscono all'umanità di ritornare
indietro. I profeti sono abitati da un soffio che dona loro la forza e il
coraggio di resistere nelle loro lotte di liberazione. Ciò che li rende
autentici è che vivono ciò che annunciano. Ci accorgiamo che sono liberi
interiormente. È evidente che l'Istituzione non ama i profeti. Se ne fa l'elogio
una volta che sono morti. Ma quando sono in vita disturbano l'ordine costituito
e si fa di tutto per ridurli al silenzio. L'Istituzione e la profezia sono un
po' come l'acqua e il fuoco. Metto spesso in guardia l'associazione Partenia dal
non diventare un'istituzione come un'altra, dal non farne una diocesi come
un'altra, dal non ricreare inconsciamente ciò che abbiamo già conosciuto.
Partenia è ai margini. Il futuro non è forse nei margini? Partenia non è al
centro, ma è o dovrebbe essere al cuore. I profeti ignorano le frontiere. Non
possiamo assegnare loro una residenza. Quando il profeta Amos, che è del regno
del Sud, va a parlare al potente regno del Nord, non lo prendono sul serio.
Qualcuno del Sud può mai rimproverare il Nord? È ridicolo. L'istituzione e la
profezia hanno bisogno l'una dell'altra, senza farsi paura. Oggi non è
l'istituzione che è in crisi. Sta benissimo. Ma i profeti si fanno
rari.
Si è parlato di "Partenia, diocesi senza frontiere"; detto
diversamente, Lei non è più rinchiuso nei limiti e negli incarichi di una
diocesi territoriale. Il fatto merita di essere sottolineato perché corrisponde
ad una realtà della società occidentale attuale; sempre più, contrariamente a
tentazioni comunitariste, vediamo sgorgare il bisogno di strutture parallele,
trasversali, complementari in rapporto alle strutture tradizionali che
corrispondono spesso ai vecchi ambiti geografici o
istituzionali. Internet ci fornisce l'immagine della rete: non c'è
centro, cortocircuita i poteri in carica e ignora le frontiere. Siamo in rete.
Possiamo comunicare e pensare differentemente. Andiamo e veniamo. È uno spazio
di libertà. Penso a quella giovane donna incontrata nel bus. È incinta e
gradirebbe che io battezzassi il suo bambino. È inutile chiederle a quale
parrocchia appartiene o se conosce un prete o se suo marito è d'accordo… Sfugge
all'inquadramento istituzionale. È già al di là. Il mio ruolo non è quello di
indicarle la porta buona a cui bussare, ma di ascoltare il suo
desiderio.
In ciò che possiamo immaginare della Sua vita attuale,
vediamo piste diverse: ci sono azioni concrete, la partecipazione ad istanze di
lotta o di difesa, spostamenti per conferenze o dibattiti, incontri più
specificatamente spirituali. Come vive tutto ciò? Dev'essere talvolta più
brillante e talvolta molto meno brillante di ciò che viveva ad Évreux. È
divenuto molto più nomade… Quando ero ad Évreux, avevo il vantaggio di
camminare in mezzo ad un popolo che imparavo a conoscere di anno in anno. È una
gioia vedere le evoluzioni positive delle persone, la crescita delle comunità,
la lotta dei militanti contro l'ingiustizia, la mobilitazione per la pace, i
progressi della non-violenza nelle scuole e nelle famiglie… C'erano risultati
che mi confortavano, ma anche delusioni e passi indietro che mi davano pena. Ora
che sono fuori le mura, non cammino più con un unico popolo. Sono con curdi,
iraniani, baschi, tunisini, palestinesi, africani… Vado ovunque, vedo per una
volta persone che lascio, e so che non le rivedrò mai più. Sono un seminatore e
parto senza sapere ciò che avverrà. Gesù era uscito per seminare e seminava
dappertutto. Ho questa spiritualità del seminatore. La gente non mi appartiene.
Appartiene a Dio. Altri passeranno dopo di me. Non sta a me vedere i risultati.
Non mieto. Semino con fiducia e me ne vado altrove. Questa spiritualità del
seminatore mi procura speranza, sapendo che, dovunque vado, lo Spirito Santo
agisce nel cuore delle persone.
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