carceri: dopo l'indultino il dramma



 
Se questo è un uomo
Il dramma delle carceri e la beffa dell’indultino
 
Dopo il danno, la beffa. Una beffa atroce, perfino meschina. Partorita neppure per cattiveria, ma solo dall’esigenza tutta politica di mascherare le spaccature nella maggioranza e la confusione e i tentennamenti nelle opposizioni. Prodotta quasi per inerzia – prevedibilmente ma non inevitabilmente - a partire dall’errore iniziale di non essersi trasparentemente confrontati e divisi sulla via maestra di un indulto vero e pieno, senza trucchi e senza diminutivi. Non solo in eventuale ossequio alle richieste del Papa, ma in doveroso rispetto del buon senso, della costituzionalità e dell’efficacia reale dei provvedimenti.
Il danno
Il danno è quello di vivere, e morire, in carceri invivibili, indecenti e inimmaginabili. Pure, per immaginarle, uno sforzo si può fare, per contrastare la cappa della disinformazione, del silenzio e dell’indifferenza. Per avere una lontana idea di cosa significhi vivere nelle celle d’estate, provate a pensare di essere sulla metropolitana in un’ora di punta, in una carrozza con i finestrini chiusi e bloccati, schiacciati in una folla di persone. Gronderete sudore, vi sentirete soffocare, probabilmente avrete un malore. Provate a pensare che questa insopportabile condizione duri non la mezz’ora di un tragitto medio, ma 20-24 ore al giorno. Tutti i santi giorni. Dopo tutto ciò, immaginate di non avere neppure l’acqua per dissetarvi o per lavarvi, come sta avvenendo in alcuni penitenziari.
Oppure provate a pensare che sia morta la vostra fidanzata e che vi venga negato il permesso di andare al suo funerale. È successo nei giorni scorsi a Paride Cozza, 29 anni, in carcere a Bologna per delle banconote false. Di fronte al rifiuto, si è impiccato alle sbarre. «Suicidio imprevedibile», è stato il commento dei responsabili del penitenziario.
Immaginate poi di essere gravemente malati e che vi vengano rifiutate le medicine per curarvi. Di nuovo: non per cattiveria, ma perché è così. Semplicemente perché le medicine in carcere non ci sono, perché ci sono i tagli alla spesa sanitaria (dal 1999 al 2002 una diminuzione del 35,5% a livello nazionale, con punte del -43% in Emilia-Romagna e del -42% in Piemonte) e perché in carcere, a onta delle leggi di riforma (n. 419 del 1998 e n. 230 del 1999), la sanità penitenziaria continua a essere separata dal sistema sanitario nazionale. Così - oltre che i detenuti del “Gruppo di lavoro” in una lettera al ministro Sirchia, lo denunciano gli stessi medici milanesi di San Vittore - dietro le sbarre manca tutto: dalle aspirine alle pomate, dalle pillole contro l’asma ai medicinali salvavita.
Provate a pensare di essere madre di un bambino piccolo, di essere in prigione (quasi sempre per reati irrisori). Sapete che, oltre due anni fa, nel marzo 2001, è stata varata una legge in base alla quale le detenute madri e i loro bambini non devono stare in carcere bensì in detenzione domiciliare. Eppure, oggi ci sono in carcere più bambini e madre di quando non c’era la legge: solo a San Vittore ci sono 5 bambini in cella, uno ha appena 20 giorni di vita.
Provate a pensare di avere problemi di sofferenza psichica e che la vostra malattia vi porti a fare cose sconsiderate, pur se non pericolose per gli altri: portare via un motorino non vostro, rubare delle candele dai tavoli di un ristorante. Sono le “colpe” commesse da Marco D. S., 41 anni, più volte ricoverato in ospedale psichiatrico. Finito nelle celle del carcere romano di Rebibbia per scontare 8 mesi e 15 giorni di condanna, nonostante il tribunale lo avesse per due volte dichiarato incapace di intendere e di volere, si è impiccato il mese scorso.
Immaginate di aver contratto in qualche modo il virus dell’AIDS (capita, anche a chi non è tossico o emarginato) e di essere assieme ad altre 41 persone nella vostra condizione, chiusi in pochi metri quadrati. Immaginate di avere a disposizione un’unica vasca per lavarvi, e di non poterla neanche utilizzare perché è sempre sporca di sangue degli altri malati. Immaginate di non riuscire più ad alzarvi dal letto e di dover effettuare i vostri bisogni fisiologici in un foglio di giornale perché non ci sono le “padelle” e altre attrezzature minime. Del resto, non sono garantite neppure le terapie. È quanto viene denunciato dai detenuti malati rinchiusi nel “centro clinico” (anche qui, come per l’indultino, oltre il danno c’è la beffa delle parole) del carcere milanese di Opera.
Provate a pensare di essere finiti in carcere per qualsivoglia motivo (e non è così difficile finirvi: può riguardare anche voi, non solo i tossici o gli esclusi), di essere in attesa di giudizio, di aver disperato bisogno di capire la vostra situazione, le prospettive. Provate a fare domande su domande per avere un colloquio con il direttore o con gli educatori. E di non avere mai né colloquio né risposte. Alla fine vi arrendete. È successo a Giuseppe Romeo, 52 anni: si è impiccato alla sbarre nella sua cella del carcere di Como la mattina del 26 maggio.
Provate a pensare di essere una donna e di fare l’agente di polizia penitenziaria. Di essere lontana da casa. Di essere stressata dai ritmi di lavoro o intristita dalla solitudine. È la storia di Loredana Calabrò: poco tempo fa si è sparata con la pistola di ordinanza nel carcere di Torino. Anche per lei, come avviene per la sorte dei detenuti, al suo disperato gesto ha risposto solo l’eco del silenzio dei giornali e la scarsa attenzione delle istituzioni.
Infine, immaginate di essere una persona tossicodipendente e di finire in carcere, magari neppure per furto, ma semplicemente per possesso o piccolo spaccio di qualche bustina. Non è un caso raro, tutt’altro: degli oltre 30.000 tossicodipendenti che entrano annualmente nelle carceri italiane, la metà viene arrestata esclusivamente per violazione dell’articolo 73 della legge sulla droga, vale a dire per traffico illecito di sostanze (e va considerato che il grande traffico, quello organizzato, viene punito dall’art. 74); in buona parte, peraltro, si tratta dei casi di spaccio di scarsa rilevanza ed entità, come previsti dal comma 5 dello stesso articolo 73. Immaginate di essere chiusi in cella, senza cure metadoniche, magari di essere sieropositivi e magari di esserlo diventati proprio in carcere. Peraltro, secondo uno studio dell’Osservatorio europeo sulle droghe, oltre il 50% dei detenuti nelle prigioni dell’Unione europea ha fatto uso o consuma sostanze stupefacenti e sino al 21% di loro ha cominciato ad assumerle per la prima volta proprio in carcere. E immaginate di leggere in questi giorni sui giornali le dichiarazioni di alti esponenti governativi, nonché di qualche leader di comunità terapeutiche preoccupato per la scarsità di clienti, che tuonano contro il lassismo delle leggi e che promettono una revisione della normativa, per renderla ancor più repressiva. Immaginate che il prossimo 26 giugno questa nuova legge venga presentata ufficialmente in occasione della Giornata mondiale contro le droghe. Immaginate che, come del resto avviene per gli “indultoni” a beneficio dei potentoni, essa trovi rapidissimi iter parlamentari e scarsa resistenza delle opposizioni. E provate a pensare cosa saranno le carceri nei prossimi anni. Perché è pur vero che non c’è fine al peggio. E neppure all’irresponsabilità della politica.
Ma soprattutto domandatevi se tutto questo è giusto, umano, sensato, utile. Se difende e risarcisce la società e le vittime o non, piuttosto, aggiunge solo rabbia a disperazione e a esclusione, sofferenza a sofferenza, ingiustizia a ingiustizia.
E domandatevi se le persone chiuse nelle celle, schiacciate nella dignità, umiliate nella speranza, irrise dal voto del Senato di martedì, sono ancora uomini e donne e non, invece, oggetti di un gioco obiettivamente cinico e politicamente miope.
La beffa
Poi tornate a guardare i giornali di oggi e di domani. E leggete dell’indultino, ulteriormente ribassato e rimandato alla Camera, sapendo che sarà affossato in un ping pong dove la parte della pallina tocca alla vita e alle aspettative, ora definitivamente e pericolosamente deluse, dei reclusi.
Allora, capirete che la beffa è veramente atroce. Per giunta aggravata dalle circolari della Direzione generale delle carceri che lanciano l’allarme estivo: non già sulle drammatiche condizioni di vita e di lavoro negli istituti, non sulla mancanza di medicine e di cure, non sulle carenze di personale, non sull’inosservanza di leggi e regolamenti, che pure esistono, non sulla mancanza d’acqua o sul dramma dei suicidi e dell’autolesionismo, ma sui pericoli di fuga.
Una beffa, tenacemente perseguita e infine realizzata. Ora, possiamo andare finalmente tutti al mare.
Sergio Segio
Milano, 25 giugno 2003