La storia di Alì , padre detenuto a cui non serve un diminutivo



Articolo di Sergio Cusani e Sergio Segio pubblicato sul quotidiano "La
Repubblica" (Pagine di Milano) del 20 dicembre 2002

La storia di Alì, padre detenuto a cui non serve un diminutivo

Nessun massimalismo, ma un deciso invito alla chiarezza. Ne hanno diritto i
detenuti, le loro famiglie, gli operatori penitenziari e gli agenti, la
stessa opinione pubblica. A distanza di un mese dai lunghi applausi con cui
tutti i parlamentari hanno accolto la richiesta del Papa di «una riduzione
della pena», non c'è ancora una coerente conseguenza da parte delle forze
politiche. Qualcuno dice che non ci sono i numeri per approvare l'indulto.
I numeri, però, si contano e si misurano nelle Commissioni e nelle Aule
parlamentari. Non si misurano in base a estemporanee dichiarazioni. Noi non
sappiamo se ci siano i consensi sufficienti in parlamento per varare
l'indulto. Sappiamo però che non si può continuare a illudere i detenuti.
Nemmeno si può far torto alla loro intelligenza, spacciando per "indultino"
una misura di sospensione della pena, qual è quella in discussione alla
Commissione Giustizia della Camera. Una misura che si profila (specie se
verrà ulteriormente peggiorata dagli emendamenti annunciati) addirittura
più limitata delle norme già esistenti, delle misure alternative già
possibili. Norme e misure che non vengono applicate per vari e annosi
motivi: carenza di organici, rigidità interpretative dei tribunali,
sovraccarichi di lavoro. Allora il problema è applicare queste norme e
misure, ma senza confondere questa necessità con l'indulto.
Anche l'indulto è necessità urgente per ridare dignità e diritti a chi vive
nelle celle, e a chi lavora nelle carceri. Ma l'indulto è anche
precondizione per affrontare problemi e riforme più strutturali del sistema
penitenziario e di quello penale, che non possono essere affrontate se non
si riportano i numeri delle persone recluse (oltre 56.000 detenuti per
42.000 posti) a un livello decente e sopportabile dalle strutture.
L'indulto è la via maestra che ci pare doveroso verificare. Per davvero e
sino in fondo. Le forze politiche e i singoli parlamentari nella loro
libertà di coscienza si assumano la responsabilità di dire sì oppure no.
Con nettezza. In tempi brevi. Se sarà no, solo allora si pensino e si
verifichino soluzioni diverse.
Rovesciare questa metodologia, come è stato fatto in Commissione Giustizia
della Camera, non ci sembra né sensato né coerente con le necessità
dichiarate, che sono quelle di consentire un'uscita anticipata di un certo
numero di detenuti. Detenuti che non sono pericolosi criminali ma persone
che spesso hanno già scontato gran parte della pena o che sono in carcere
per reati di scarsa pericolosità. Come tante. Come Alì, tunisino recluso a
San Vittore per una condanna a 8 mesi. Ne ha già scontati 4. Alì è sposato
con una cittadina italiana, hanno una bambina di 8 anni, ora ricoverata per
leucemia mieloide acuta. Alì ha chiesto di uscire, per starle vicino,
eventualmente per donarle il midollo. Sinora gli hanno concesso solo un
permesso di 3 ore sotto scorta.
Un permessino. Le parole del Papa, i richiami di Ciampi, la dignità dei
reclusi avrebbero bisogno di risposte vere e piene. Non di diminutivi.