fiat voluntas pecuniae



fiat voluntas pecuniae
Friday November 29, 2002 at 06:08 PM <mailto:>

è la crisi internazionale che obbliga le residue, coriacee famiglie
grandi-borghesi a cambiare natura e a trasformarsi in anonime centrali del
capitale internazionale, pensionando per sempre l'arcaica figura del
"padrone".

Conferme dalla crisi mondiale

Secondo le previsioni dell'OCSE, entro dicembre diminuirà il PIL in 11 dei
venti paesi più industrializzati; in 18 crollerà la produzione industriale.
La Federal Reserve americana ha tagliato i tassi per la settima volta
dall'inizio dell'anno, segno che l'economia non reagisce. Il mitico
Greenspan, padre del miracolo economico delle new economy, non è più tanto
mitico. In caduta sono già Messico, Giappone, Singapore, Taiwan, Argentina,
Turchia e molti altri paesi dell'Asia e dell'America Latina. Si ipotizza la
caduta del PIL mondiale al di sotto dello zero nell'inverno: sarebbe la
prima volta dal 1980. Ma già nell'autunno vi sarà probabilmente un calo del
PIL americano, il cui peso specifico ha conseguenze su tutto il mondo.

Siccome l'andamento dell'indice del valore industriale rispecchia quello
del saggio di profitto, il calo della produzione e il mancato recupero di
valore negli altri settori indicano un blocco nel meccanismo di produzione
di plusvalore. In pratica producono sempre meno effetti le "controtendenze"
alla caduta del saggio di profitto, come il ricorso ad una più bassa
composizione organica del capitale (meno macchine, più operai sottopagati),
al taglio dei salari, all'aumento delle ore di lavoro, all'investimento
estero, alla maggiore finanziarizzazione. Questa perdita di energia del
sistema si vede già nello schema di accumulazione allargata di Marx: se il
sistema potesse crescere all'infinito, la retroazione positiva dovuta al
reinvestimento del profitto potrebbe continuare per sempre. Ma così non è
perché il nostro pianeta è un modello a dimensioni finite, non è
espandibile a piacere.

La caduta del saggio di profitto fa soffrire il singolo capitalista che,
per ovviarvi, cerca di accontentarsi di una massa maggiore (meglio
intascare il 2% su 1.000 dollari che il 10% su 100), quindi allarga la
scala della sua produzione ricorrendo alle fusioni, diventa più
monopolista, più finanziere, più centralista. In tal modo fa aumentare il
suo profitto, ma lo fa espropriando i suoi simili a suon di scalate ostili
in borsa. Fiat-Montedison, Pirelli-Telecom, Hewelett Packard-Compaq, tanto
per citare gli ultimi casi, non aumentano il potenziale capitalistico, non
accrescono il numero di fabbriche, di capitalisti e di operai, lo
diminuiscono. Il capitalista singolo se la cava, diventa più potente e più
ricco, ma il profitto complessivo, dato dalla somma dei profitti parziali
diminuiti di numero, ne risente. Nel frattempo la produttività aumenta, il
ciclo di accumulazione si abbrevia, in ciascuno di essi si affaccia lo
spettro della diminuzione anche della massa del plusvalore e ogni
capitalista non può fare altro che aumentare i cicli nell'anno, che è
l'unità di tempo non secondo la legge del valore ma secondo i criteri di
bilancio del suo commercialista.

Quando il capitalista non ce la fa più con la produzione e il commercio,
ricorre all'investimento diretto all'estero, nel tentativo disperato di far
giungere alla metropoli plusvalore prodotto altrove, dove il lavoro "costa
meno"; ma dove trova altri come lui, in una concorrenza sfrenata e una
produttività locale più bassa, che vuol dire una minore quantità di
plusvalore prodotto per ogni operaio. Su tutto vede incombere un capitale
spersonalizzato, globalizzato, così immensamente grande e mobile che lo
schiaccia e lo fa muovere ai suoi ordini.

Con gli Stati Uniti in declino, la Germania e il Giappone stagnanti, l'Asia
e l'America Latina in recessione, l'Africa allo sfascio, la Russia in coma,
il nostro capitalista ha ben motivo di allarmarsi per la sorte dei suoi
capitali. Nelle crisi passate aveva almeno la possibilità di muoverli dalle
zone in crisi verso quelle in via di sviluppo. La "crisi generale" del 1991
non era poi così generale: gli Stati Uniti erano in recessione, ma
Giappone, Germania e Tigri asiatiche stavano continuando il loro boom
economico. Come abbiamo visto nel numero scorso, l'attuale depressione può
anche essere meno profonda, ma è certamente più pericolosa per le possibili
conseguenze, dato che i vari paesi sono in crisi sincronizzata.

Il fatto che la Terra non si possa espandere fisicamente come si espande la
produzione è la causa della cosiddetta globalizzazione, cioè
dell'espansione del mercato mondiale, integrata da una politica
internazionale di investimenti. Ma questa integrazione mondiale, che è
stata salvifica per la crisi di dieci anni fa, oggi è diventata la causa
prima della crisi: se i maggiori paesi vanno in recessione, con
l'integrazione attuale il fenomeno non può che essere auto-referente,
proprio come nel modello di Marx, dove la frecciolina del
plusvalore-investimento mostra la retroazione. Finché i sistemi sono molti
e diversificati, è possibile modificare i flussi rappresentati dalla
frecciolina e dirigerli dove più conviene; ma se il sistema è globalizzato,
il modello si unifica e il flusso plusvalore-investimento si sclerotizza.

Gli economisti cercano di diffondere ottimismo facendo notare che nei paesi
più importanti l'inflazione è bassa e che quindi rimane molto spazio di
manovra per le politiche monetarie. Tanto più che in alcuni di quei paesi,
specie negli Stati Uniti, vi è un surplus di bilancio, o comunque una
diminuzione del deficit, per cui vi è anche massa monetaria disponibile per
stimolare l'economia.

Vista la cosa alla luce della teoria del valore a noi sembra che la
situazione sia del tutto diversa. E' vero che l'inflazione è bassa perché
sono diminuiti in genere i consumi, ma lo è soprattutto perché il calo
della produzione industriale ha fatto crollare i prezzi delle materie prime
(-32% dal '95). Con un simile risparmio di capitale costante la stagnazione
con un'inflazione al 2-3% (o addirittura zero come in Giappone) è un
segnale negativo, non positivo. Lo stesso discorso vale per la riduzione
dei deficit e la realizzazione del surplus americano. In una economia
mondiale basata da cinquant'anni sul deficit spending, cioè sulla politica
keynesiana di sostegno alla produzione e ai consumi, la riduzione del
deficit significa che la medicina keynesiana (o neo-keynesiana) non ha più
effetto, il malato la rigetta. Una dimostrazione sussidiaria è
l'insensibilità dell'economia americana al settuplice abbassamento del
costo del denaro, equivalente, come provvedimento, a un massaggio cardiaco
su di un cadavere, a un'ulteriore flebo in sala di rianimazione.

Ne abbiamo una verifica in campo finanziario. Per quanto riguarda
l'industria, di solito occorrono sei o sette mesi per vedere i primi
effetti di una manovra sui tassi; ma quelli sulle borse sono quasi
immediati, dato che aumenta la convenienza delle speculazioni con denaro a
prestito. Nel caso attuale i movimenti di borsa sono diminuiti invece di
aumentare, e il valore delle borse mondiali è addirittura crollato
catastroficamente, specie nel campo dei titoli legati alla new economy, i
più sensibili alla speculazione dovuta al denaro facile. Il Nasdaq è sceso
in un anno del 70%, le borse europee del 30% medio, Tokio è al livello del
1984.

Quando Fiat ha acquistato Montedison, attaccando Mediobanca che aveva messo
entrambi i giganti sotto tutela, e quando subito dopo Pirelli ha acquistato
Telecom, i commentatori nostrani hanno attribuito le nuove colossali
centralizzazioni di capitale al ritorno in auge delle vecchie famiglie del
capitalismo italico. Niente di più sbagliato: è la crisi internazionale che
obbliga le residue, coriacee famiglie grandi-borghesi a cambiare natura e a
trasformarsi in anonime centrali del capitale internazionale, pensionando
per sempre l'arcaica figura del "padrone".


<http://www.ica-net.it/quinterna/2000_todayrivista/05/conferme_crisimondiale.htm>http://www.ica-net.it/quinterna/2000_todayrivista/05/conferme_crisimondiale.htm