Forum giustizia e diritti di Roma



Tre contributi alla discussione del FSE del Forum giustizia e diritti di Roma.

"Vecchio e nuovo lavoro. Subordinazione e parasubordinazione contro
l'insicurezza post-fordista, per una
nuova cittadinanza" di Pietro Alò

"Il lavoro e la geometria dei suoi diritti dal fordismo al post"
Riflessioni a cura di Alessandro Brunetti e Carlo Guglielmi

"Contro le catene della precarietà, per l'emancipazione dal lavoro
subordinato: formazione permanente per
tutti e reddito sociale garantito" di Pietro Alò



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CONTRO LE CATENE DELLA PRECARIETA'
PER L'EMANCIPAZIONE DAL LAVORO SUBORDINATO: FORMAZIONE PERMANENTE PER TUTTI
E REDDITO SOCIALE GARANTITO.

Pietro Alò
Forum Diritti e Giustizia-Roma


Nel corso degli anni '90 tutti i paesi europei sono stati interessati da
una diffusa deregolamentazione dei rispettivi mercati del lavoro.
Giunge a maturità la fase post-fordista, con nuove modalità produttive e
nuove soluzioni organizzative, ma anche con la completa privatizzazione
delle attività di incontro tra domanda e offerta di lavoro e la crescente
diffusione delle nuove tipologie contrattuali, cosiddette atipiche.
Si impongono forme vecchie e nuove di flessibilizzazione dei rapporti di
lavoro: ciò avviene con un allentamento dei classici vincoli coercitivi
della subordinazione (quando è richiesto il convinto coinvolgimento del
dipendente nel processo lavorativo), ma anche con il ricorso al part-time,
al tempo determinato, all'interinale, alle collaborazioni coordinate e
continuative (quando sono ritenuti necessari una maggiore libertà
dell'impresa, un contenimento del costo del lavoro, ecc.).
Un processo, insomma, che si presta a diverse letture:
è in atto una precarizzazione del lavoro dipendente, che comporta una
insopportabile riduzione delle tutele e dei diritti dei lavoratori? O la
destrutturazione del lavoro fordista prefigura uno storico e auspicabile
superamento delle catene della "subordinazione"?
L'elaborazione di una adeguata proposta politica contro il neo-liberismo
impone opportune precisazioni in ordine ad alcuni concetti, quali, per
esempio, flessibilità, lavoro atipico, ecc1;.
Per avere conferma dell'importanza di una tale necessità è sufficiente il
riferimento alla classificazione delle professioni dell'International
Labour Office (prevede 6300 voci professionali), o alle implicazioni
politico-sociali legate al concetto di disoccupazione, definito dallo
stesso ILO.
Implicazioni politico-sociali di particolare rilievo, se è vero che dei tre
requisiti previsti per dichiarare disoccupato un individuo senza lavoro
(1-essere alla ricerca di impiego; 2-essere disponibile al lavoro entro 2
settimane; 3-aver compiuto un'azione di ricerca entro il mese precedente),
il terzo "modifica" sensibilmente l'indicatore dello stato di
disoccupazione nelle situazioni più difficili, come nel Mezzogiorno. Gli
individui, è dimostrato, sono maggiormente attivi nella ricerca del lavoro
laddove è prevedibile un esito favorevole e, di contro, meno attivi dove è
meno probabile trovare lavoro. A conferma di ciò, nel Mezzogiorno si è
osservato che, considerando un periodo della ricerca di 5 mesi,
l'indicatore del tasso della disoccupazione aumenta di ben 4 punti.

Una adeguata definizione del concetto di lavoro atipico presuppone quello
di flessibilità e, sia pur sommariamente, quello di post-fordismo.

Post-fordismo: l'attuale fase dell'economia mondiale è frutto di grandi
cambiamenti in ordine ai metodi produttivi, all'organizzazione di tali
metodi, all'organizzazione del lavoro, alle relazioni industriali.
L'impresa ha richiesto forza lavoro sempre più qualificata, ma anche più
"flessibile" per qualità, quantità, modalità delle prestazioni, alimentando
la crescita del cosiddetto lavoro atipico.

Flessibilità: l'impresa realizza elevati livelli di libertà in ordine al
mercato del lavoro con un processo di deregolamentazione generalizzata
(flessibilità esterna); ma realizza anche elevati livelli di libertà nel
rapporto di lavoro con il controllo degli orari, dei salari, del processo
produttivo, ecc; (flessibilità interna). L'impresa, sempre grazie alla
conquista di crescenti margini di flessibilità nel mercato e nel rapporto
di lavoro, comprime il costo del lavoro e raggiunge alti livelli di
produttività. Più in dettaglio, si può distinguere la flessibilità in:
-contrattuale (è il caso delle nuove tipologie contrattuali: tempo
determinato, cococo, interinale);
-temporale (part-time, notturno);
-salariale (contratti individuali);
-spaziale (domicilio, telelavoro, cococo).

Lavoro atipico:
Il lavoro atipico, quello per intenderci che produce la flessibilità
variamente intesa dall'impresa, è definito in rapporto al lavoro cosiddetto
"tipico", subordinato, a tempo pieno e indeterminato, insomma, il lavoro
standard, tipicamente "fordista".
L'Istat classifica ben 31 tipologie di lavoro atipico, di cui 18
strettamente atipiche e 13 parzialmente atipiche.
Per tale classifica sono stati utilizzati la durata del lavoro (orario
pieno e ridotto), il carattere temporale della prestazione (permanente o
temporanea), la copertura previdenziale (intera, ridotta, nulla).
I rapporti di lavoro che coprono tutte le tipologie di lavoro atipico sono:
Lavoro a domicilio, telelavoro, interinale, part-time, tempo determinato,
contratto di formazione lavoro, contratto di solidarietà, stagionale,
lavori socialmente utili, lavori di pubblica utilità, apprendistato, stage,
piani di inserimento professionale, collaborazione occasionale,
collaborazione coordinata e continuativa.

Se è scontata la funzione "liberante" per l'impresa, che svolgono i lavori
atipici della fase post-fordista, non del tutto scontata è la funzione che
essi svolgono per i lavoratori.
Nel movimento sono diverse le letture di un tale fenomeno, ma sono due le
estreme vie d'uscita proposte:
- il lavoro atipico è aumento della precarietà e dello sfruttamento,
quindi, bisogna ripristinare i diritti che i lavoratori stanno perdendo a
seguito della centralità assunta dall'impresa negli ultimi anni;
- il lavoro atipico, e la flessibilità che l'impresa richiede, è indicativo
della crisi del lavoro fordista, del tipico lavoro subordinato; questa
crisi produce un nuovo soggetto sociale portatore di nuove istanze di
liberazione, più che ripristinare i diritti del lavoro fordista bisogna
rivendicare nuovi diritti e fondare, quindi, una nuova cittadinanza oltre
quella lavorista sin qui conosciuta.

Prima di tirare conclusioni è opportuno osservare la dimensione
quantitativa e quella qualitativa del lavoro atipico.

Sempre seguendo le definizioni tipologiche dell'Istat, il lavoro atipico è
composto da poco meno di 2 milioni di lavoratori autonomi (collaboratori
coordinati e continuativi) e da oltre 4 milioni di lavoratori dipendenti
(part-time 1 milione e 800 mila, tempo determinato 1 milione e 500 mila,
400 mila apprendisti, 360 mila CFL, ecc;).
Dalla semplice osservazione dei dati, risulta evidente il fatto che,
rispetto ai dipendenti tipici, i lavoratori dipendenti atipici subiscono un
grave peggioramento delle condizioni di lavoro. Ciò trova conferma, anche,
in un'indagine svolta dalla Commissione Europea (EC, Employment in Europe
2001 - cit. nel Rapporto dell'Ires per il Nidil-Cgil del gennaio 2002).
Dall'indagine è emerso che gli sbocchi, in particolare del lavoro
temporaneo, sono molto eloquenti: un terzo di questi lavoratori trasforma
l'impiego in permanente entro un anno ma, purtroppo, il 50% di essi permane
nell'instabilità e il 20% ripiomba nella disoccupazione.
Anche per altra via è possibile risalire alla sostanziale insoddisfazione
per la propria condizione di lavoro vissuta dai lavoratori atipici.
L'Istat ha rilevato che del milione e 400 mila lavoratori occupati in cerca
di un altro impiego nel 2000, i lavoratori tipici sono il 36,5%, gli
atipici il 48,1%, gli autonomi il 15,4%.

I lavoratori atipici si dividono, poi, in un 18,9% che non desidera
l'impiego a tempo pieno indeterminato; il 24,1% dei part-time a tempo
indeterminato che vorrebbe il full-time; il 40,2% dei lavoratori a termine
che vorrebbe il tempo indeterminato; il 16,8% dei part-time a termine che
vorrebbe il lavoro full-time indeterminato. In conclusione, è ampiamente
dimostrato che l'80% dei lavoratori atipici vive una condizione lavorativa
non volontaria.
Che una tale condizione sia contrassegnata da un alto indice di insicurezza
è dimostrato anche da uno studio Ocse del 1997; significativamente è emerso
che è minore il grado di insicurezza dei lavoratori laddove è forte la
contrattazione collettiva e alto il grado di copertura del reddito in caso
di disoccupazione.

Ma, si potrebbe osservare, le analisi rispetto alla volontarietà del
superamento del lavoro tipico subordinato, e le connesse proficue
implicazioni di ordine analitico, sono da ricercare nel lavoro autonomo di
seconda generazione, più che nel lavoro a tempo determinato o comunque
connotato da esplicita precarietà.
Al riguardo, un importante indice della probabile o meno libera scelta
della propria condizione lavorativa, per i collaboratori coordinati e
continuativi, è costituito dal reddito. Infatti, il reddito rappresenta uno
dei più importanti indicatori dello stato di subordinazione socio-economica.
Dal fondo speciale Inps (10-13%) del 1999 risulta che il 75% degli uomini e
il 91% delle donne non supera i 40 milioni di lire annue; al di sotto dei
20 milioni di lire è collocato il 56% degli uomini e il 77,5% delle donne.
Sono dati, come è evidente, che illuminano sulla diffusa condizione
lavorativa involontaria, non desiderata, se non di tutti certamente di gran
parte dei Cococo.

Per concludere: come è possibile ridurre la condizione di insicurezza e di
diffusa precarizzazione imposta a milioni di donne e uomini dal
post-fordismo?
C'è una terza ipotesi tra l'illusorio tentativo di ripristinare i diritti
nel vecchio paradigma lavorista-fordista, oggi in crisi, e l'avveniristica
rivendicazione di una cittadinanza connotata da diritti universali slegati
sia dal fordismo ma anche da qualsiasi riferimento alla sfera economica?

Una tale ipotesi c'è ed è l'unica perseguibile dal movimento, se esso
intenderà praticare il terreno della articolata e diffusa battaglia
politica nell'opposizione al neo-liberismo.

Si tratta di contrapporre all'insicurezza prodotta dalla crisi del vecchio
paradigma fordista (che nella sicurezza dell'impiego fondava i diritti e la
sicurezza sociale) una nuova sicurezza, che sia fondata non già sul lavoro
tipicamente subordinato, ma su un nuovo statuto del lavoro, fatto di
diritti vecchi e nuovi, di diritti sociali, in quanto legati, ancora, alla
condizione lavorativa, ma anche di diritti di cittadinanza perché propri
del cittadino in quanto tale.

In questa visione l'individuo-cittadino è titolare, in quanto cittadino,
del diritto alla formazione permanente nel corso della vita (così come
finora era titolare del diritto all'istruzione).
E l'individuo-lavoratore, il soggetto della nuova condizione lavorativa
(subordinata, autonoma, attiva, non attiva, in formazione) è titolare del
diritto al reddito garantito.

La lotta alla precarizzazione, in questa fase di crisi del lavoro fordista,
non può che articolarsi, quindi, in lotta intransigente per la tutela dei
vecchi diritti (allorquando essi sono violati: certezza del salario a
fronte della prestazione, divieto di abuso nella rescissione del rapporto
di lavoro, ecc;) e affermazione e sviluppo di nuovi diritti (contro
l'insicurezza e la riduzione delle libertà individuali e collettive
alimentate dal post-fordismo).

Non è ovvio che il superamento del fordismo sia nel senso
dell'emancipazione, la barbarie è possibile.
La globalizzazione neo-liberista è aperta a diversi sbocchi, l'esito futuro
dipenderà molto dal mondo del lavoro per come oggi è e, soprattutto, dal
contributo che il movimento dei movimenti può fornire.


Roma, novembre 2002



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Riflessioni a cura di Alessandro Brunetti e Carlo Guglielmi
del Forum diritti e giustizia di Roma
(NB: pur di offrire un contributo alla discussione, gli autori hanno
acconsentito all'utilizzo della presente bozza non corretta, che in qualche
caso riporta parti di altri lavori prodotti sull'argomento.)

Il lavoro e la geometria dei suoi diritti dal fordismo al post

 Come già efficacemente rilevato sono da distinguere tre fasi nel passaggio
al cosiddetto "post-fordismo": nella prima - fine anni 70 - si assiste
soprattutto ad una introduzione massiccia di tecnologia labour saving con
la riduzione drastica degli organici: il lavoro diventa bene scarso, la
pressione crescente degli outsiders sulla cittadella degli insiders
indebolisce l'attitudine unificante del sistema della contrattazione
collettiva. Nella seconda fase è lo stesso rapporto di lavoro che viene ad
essere destrutturato: si generalizzano i contratti "atipici" e le forme di
precariato legale". Il lavoro oltre che bene scarso diventa provvisorio ed
instabile. Per contro muta la stessa forma dell'impresa che si fa
riflessiva e "a rete". La produzione si decentra, si frammenta, si immerge
nel sociale. È questa la fase del dibattito sulla "flessibilità" e sul
diritto del lavoro dell'emergenza.
Già qui tempo e spazio della prestazione cominciano a divenire parametri
incerti e mutevoli così come si accentua la diversificazione all'interno
della forza-lavoro che può cominciare ad essere distinta tra un cuore
assunto con le regole standard e una "contingent workforce" di precari e
"atipici". Tuttavia fautori della deregulation e difensori della
"tradizione" discutono ancora su uno sfondo comune. I contratti "atipici" e
la stessa forma dell'impresa "a rete" mantengono ancora, sia pure per
relationem o per contrasto, un riferimento alle situazioni "standard": nei
primi la misura rimane pur sempre il tempo della prestazione, la seconda
rimane un'organizzazione, anche se particolarmente snella e duttile, con
propri dipendenti. Le difficoltà si presentano ancora come interne al
sistema, questioni di armonizzazione delle tutele, di raccordo tra
flessibilità e stabilità, di dialettica tra autonomia individuale e
collettiva.
Nella terza fase della modernizzazione (grezzamente e pericolosamente
sbozzata nelle leggi delega in discussione) è l'idea stessa di un tempo e
di un luogo di lavoro ad essere messa in discussione, si attenta alla
stessa misurabililità in termini di durata, dell'attività lavorativa così
come alla sua localizzazione.
La rappresentazione geometrica del quadro sociale si compone quindi di
piani giustapposti con una frontiera militarmente vigilata al centro che
separa la cittadella sempre più povera e oppressa del lavoro subordinato
tradizionalmente inteso dal resto del mondo. Dall'altro lato del muro,
nell'immediata prossimità, vi sono  alcuni milioni di sans papier, talmente
disperati da avere quale unico miraggio l'accesso alla città. Più oltre,
nel medesimo piano al di quà della subordinazione,  si aprono borghi
suburbani delle più diverse nature: quelli omogenei e  attentamente
vigilati dei "gestori di simboli", il ghetto delle casalinghe e quello
degli outsiders che neppure bussano più alle porte della cittadella,
l'amplissimo sobborgo del lavoro professionale nella sua complessa
stratificazione (che va dall'eccellenza dei campi da golf alla miserabilità
delle favelas) ecc. ecc.
A fronte di tale non idilliaco scenario  un maestro del giuslavorismo
contemporaneo, Alain Supiot, nella sua Critique du droit du travail, parla
di un fallimento del diritto del lavoro, inteso come luogo di
armonizzazione delle sue due facce: il lavoro come bene mercantile (o il
lavoro astratto, risorsa di ricchezza esteriore e quantificabile) e il
lavoro come espressione della persona ( o lavoro concreto, risorsa di
ricchezza interiore non quantificabile). Il movimento delle garanzie ha
fatto sempre prevalere il primo sul secondo; una concezione monolitica e
totalizzante della subordinazione ha interdetto, per Supiot, ogni
determinazione soggettiva, non necessariamente individuale, dentro il
rapporto di lavoro.

Verso una nuova urbanistica di sistema: dai piani affiancati ai cerchi
concentrici.
L'unica uscita pare quindi quella di ricostruire un'unica "città universale
dei diritti" che comprenda al suo interno l'intera cittadinanza laboriosa.
E, dato che la caratteristica principe del post fordismo consiste
nell'esser divenuta l'intelletualità di massa l'asse produttivo
dell'attuale forma di accumulazione del capitale nella misura in cui
l'utile di impresa si ricava mettendo al lavoro risorse relazionali e
comunicative che nel fordismo si ritenevano fuori dallo scambio retribuito,
la cittadinanza laboriosa si identifica senza residui nella cittadinanza
tout court.
Per rimanere a Supiot, occorre quindi un rilancio della "libertà di
lavoro", come diritto costituzionale essenziale, non ovviamente nella
versione che sin qui ne è stata data, di libertà "negativa", di non aderire
a uno sciopero o a un sindacato, ma come scelta, il più possibile non
imposta, di tempi, carichi di lavoro e persino dello stesso schema
contrattuale ( lavoro subordinato, associato, autonomo, volontario ecc.).
Perché ci si avvicini a questa condizione è senz'altro necessario che si
superi l'attuale aut-aut in cui versa il lavoratore che - se vuole
conservare margini di autodeterminazione individuale ( in gran parte
incompatibili con il regime della subordinazione -  ius variandi, orario,
trasferimento ecc.) - è costretto a rinunciare al possesso dei diritti
fondamentali. Una indicazione sul "che fare" ci viene ancora dalla
Costituzione, dal negletto art. 35 che vorrebbe la "tutela del lavoro in
tutte le sue forme e applicazioni" che sembra imporre (numerose sentenze
della Corte cost. lo hanno detto espressamente, anche se non si è avuto il
coraggio di andare oltre le dichiarazioni di principio) l'estensione a
tutte le forme di "lavoro", inteso su questo piano molto generale come
"prestazione di attività in favore di terzi" (si veda il noto saggio di
D'Antona su Arg. dir. lav.) di uno zoccolo unitario di diritti fondamentali
individuali e collettivi.
Una riforma del diritto del lavoro nel senso appena prospettato dovrà
muovere seguendo una configurazione poliedrica la cui rappresentazione
geometrica di riferimento può agevolmente essere mutuata dalla teoria degli
insiemi. È utile dunque identificare tre centri concentrici ove il più
piccolo contiene, oltre al proprio specifico portato, anche le previsioni
del più grande e così per il seguente.

Il mercato e il rapporto:
IL PRIMO CERCHIO
Da un lato è evidente l'osservazione del fatto che la fluidità dei rapporti
di lavoro è in tendenza inarrestabile, dall'altro non possiamo che far
nostra (contro ogni rigurgito di neortodossia) la tesi di quanti rilevano
che - come Marx non ha mai negato la "preferibilità" del capitalismo
rispetto alle strutture oppressive del feudalesimo patriarcale - noi non
dobbiamo/possiamo  rimpiangere la strada unica che dalla scuola portava
alle caserme e poi o in galera o in fabbrica. Ciò detto  non vanno
contrapposte le tutele nel mercato alle tutele nel rapporto. E' infatti
davvero impossibile non rilevare come concettualmente la contrapposizione
tra tutela nel mercato e tutela del rapporto sia una falsa alternativa dato
che il mercato è rapporto in quanto oggi si lavora e si produce anche nel
mercato e si è forti nel mercato in base a quale  bagaglio professionale le
tutele nel rapporto hanno consentito di accumulare,  con la ovvia
conseguenze che garanzie e diritti vanno ripensati e rafforzati sia nel
rapporto che nel mercato. Ciò non di meno va posta, per quanto attiene
l'atteggiarsi delle concrete  forme delle tutela, una prima distinzione
tra il primo cerchio - che racchiude tutta "la cittadinanza laboriosa" - e
i due ulteriori sottocerchi che invece proprio nel conflitto
capitale/lavoro dello specifico rapporto trovano la loro ragione di
promozione e tutela.
Il primo cerchio, quindi,  è  quello della cittadinanza sociale  con
l'istituzione di nuovi diritti del  cittadino "laborioso" che consentano
ad ogni soggetto una scelta consapevole , senza ricatti e costrizioni,  dei
tempi e dei  modi del proprio contributo alla cooperazione sociale. Il
reddito di cittadinanza e il diritto alla formazione permanente e continua
sono, su questo terreno, le prerogative fondamentali  che rendono il "
precario" un soggetto protetto dalle dinamiche di mercato e capace di
mantenere un rapporto vivo e reattivo con la cultura, la conoscenza, gli
scambi sociali.
Al riguardo non si può negare come la "paralisi politica" che si è
parzialmente prodotta sul punto attiene all'erronea contrapposizione tra
reddito sociale e tutele nel rapporto mentre all'evidenza l'uno contiene e
sostiene la "nuova" idea di rapporto che deve sottendere l'intero costrutto
giuridico.  Ed infatti le attuali politiche di workfare europee  non sono
sbagliate in quanto il lavoro avrebbe  smesso di avere centralità nella
definizione degli individui e delle classi sociali (anzi è vero l'opposto)
ma perché continuano a muoversi su un paradigma vecchio ove la norma rimane
l'occupazione e l'eccezione (da tutelare con varie gradazioni di risposta)
è la disoccupazione. In realtà la norma è il "lavoro-non lavoro"  e quindi
l'unica politica di workfare attuale ed efficace è la generalizzazione (più
o meno articolata) dell'accesso al reddito.     E se è così viene meno ogni
possibile conflitto ad affiancare, ad esempio,  la battaglia per il reddito
e per l'articolo 18 essendo entrambi due istituti con il fine complementare
(anche) di rappresentare un baluardo contro la subordinazione (si veda
sempre Supiot) che, per dirla tutta, è  l'ambizione politico culturale che
deve informare tutto il nostro lavoro.

Dentro il grande cerchio
Spingendosi più all'interno del grande cerchio della cittadinanza laboriosa
si incontrano necessariamente le tutele nel rapporto (che, come detto, si
affiancano e reciprocamente sostengono con quelle nel mercato). Per
affrontarle efficacemente  non si può non partire dalla  dicotomia
esistente tra lavoro autonomo e lavoro subordinato. Tale contrapposizione,
fulcro dall'attuale diritto del lavoro, è divenuto il segno della crisi in
cui da più di un ventennio versano i diritti sociali. Tale dicotomia,
difatti, rappresenta lo stato di  crisi nella misura in cui non è più in
grado di cogliere i soggetti cui applicare le tutele svuotandole nei
contenuti, rendendole progressivamente inesigibili.
La progressiva sterilizzazione del reticolo di tutele diritti introdotti
alla fine degli anni 60, la perdita di universalità di un sistema di regole
che pur aspirava ad evadere dalla dimensione del "droit ovrier" per
diventare "droit social" cioè, un diritto di tutti, la divaricazione
crescente tra schemi giuridici e schemi produttivi in cui si perde la
corrispondenza tra forme del diritto e suoi presupposti socio-economici che
si rivelano sempre meno generali.
Tuttavia la questione del regime giuridico del lavoro autonomo non è solo
un "case study" tra i tanti della crisi di una disciplina, è molto di più.
Il reclutamento da parte delle imprese di gruppi sempre più folti e spesso
collocati in punti nevralgici del ciclo produttivo di mano d'opera
"autonoma" - il Censis parla di oltre cinque milioni di autonomi, i
diecipercentisti pare siano vicini al milione e mezzo (quasi tutti in
regime di monocomittenza), si dice ancora che i contratti di collaborazione
coordinata e continuativa siano la forma più diffusa di utilizzazione di
giovani di scolarità medio-alta ecc.) - rappresenta in realtà un vero e
proprio atto di sovversione di equilibri e paradigmi sino a poco tempo fa
considerati acquisiti, una minaccia non solo per l'efficacia del diritto
del lavoro, ma per lo stesso suo futuro. Il rischio non è solo quello di un
ridimensionamento e della limatura delle garanzie connesse al rapporto di
lavoro, ma di una drammatica messa tra parentesi dell'intero sistema, di un
gigantesco by pass attorno ad esso (che risparmia ai cantori contemporanei
della "flessibilità" rischiose battaglie ideologiche sui legittimi confini
della tutela del lavoro).
Ma anche i passati tentativi di contrapporsi a tale deriva destrutturante
(sia nella sua versione "riformista", che "operaista" che infine
"alternativa") hanno scontato sino ad oggi una paralisi connessa ad un
lungo scontro tra i fautori del tertium genus e i suoi oppositori.  In
Italia (e in Europa) si ritiene - come detto - che il lavoro possa essere o
subordinato o autonomo (salvo poi gradare lievemente quest'ultimo nei casi
di "parasubordinazione", che rimane comunque lavoro autonomo a tutti gli
effetti). La normazione di una figura tipica di lavoro "parasubordinato"
(ovverosia un "tertium genus" tra subordinazione e autonomia), vagheggiata
da molti ( e nei fatti preconizzata con la proposta di legge Amato Treu,
ben più che non con la Smuraglia che anche a livello definitorio teneva
saldi i lavori "atipici" nell'area autonoma) comporta l'evidente rischio di
cristallizzare una categoria con tutele di "serie B" il cui  posizionamento
e possibilità di concreto utilizzo nell'impresa è talmente attiguo a quello
della subordinazione da risucchiare al ribasso (in termini di tutele e
diritti nel rapporto) il bacino dei dipendenti secondo il noto principio
dei vasi comunicanti lasciando per altro immutata, sia pure in ben più
felice condizione, la geometria dei piani affiancati e separati. Ma allo
stesso tempo non è più possibile accettare la vetustà di quanti  vedono la
soluzione nella pura e semplice estensione dell'attuale normativa del
lavoro subordinato a quello para-subordinato.

L'insieme dei due sottocerchi
Tutto ciò premesso la (possibile) uscita è nella teoria dei cerchi sopra
descritta, partendo dalla rilevazione di come gli stessi abbiano quale
proprio fulcro il peso e la capacità di ingerenza di un committente
"centrale". Ciò detto nel primo cerchio (il più distante dal fulcro) vanno
inseriti (con conseguente esclusione dall'insieme dei due sottocerchi)
tutti coloro lontani da tale centralità e ingerenza del committente
prevalente (avvocati, meccanici, ambulanti, questuanti, disoccupati, ecc.)
che trovano regole e tutele proprio a partire dalle previsione del diritto
alla formazione e nel basic incom sopra accennato. Il margine tra il primo
cerchio grande e l'insieme dei due sottocerchi, per tanto,  va tracciato in
negativo ovverosia escludendo dai sotto-insiemi tutti quei lavoratori che o
non abbiano alcun rapporto di durata con mono(prevalente)committente oppure
che, pur avendocelo,  abbiano nella propria attività una preponderante e
reale capacità/facoltà  di autonoma organizzazione del  capitale materiale
o immateriale rispetto al mero impiego del lavoro personale. In altre
parole l'antica distinzione tra il lavoro subordinato (locatio operarum) e
quelle autonomo (locatio operis) all'evidenza  non risiede più nella
"autonomia esecutiva" per il raggiungimento del risultato (l'opus: ad
esempio nel caso del pony express che è autonomo nella scelta delle strade
da compiere e del distributore ove rifornire il proprio scooter) ma nella
reale "autonomia organizzativa" in ragione di un altrettanto reale possesso
e controllo del capitale (materiale o immateriale) che risulti prevalente
rispetto all'apporto della mera profusione di energie lavorative necessarie
al perseguimento del risultato. Ovviamente  a tale primaria distinzione
andranno aggiunte osservazioni specifiche  per determinate categorie border
line di scarsa rilevanza numerica che pure presentano alcune
caratteristiche eccezionali quale la straordinaria fiduciarietà
dell'incarico degli amministratori ecc.
 Determinata la distinzione tra il cerchio più grande e i due sottocerchi
occorre rilevare che tutti coloro che si dislocano all'interno di tali due
ultimi insiemi sono quindi comunque tutti socioeconomicamente subordinati e
di conseguenza, in linea di massima, portatori di uguali esigenze e
tendenzialmente destinatari di uguali diritti che (richiamando di nuovo il
rapporto Supiot) possiamo sintetizzare in 1) uguaglianza, non solo tra
generi e nazionalità ma anche tra soggetti con uguale dislocazione nella
filiera della produzione a prescindere da titolarità e del rapporto e dalla
forma contrattuale  imposta 2) tutela contro la dipendenza, a partire dalla
adeguata risposta contro il licenziamento ingiusto  e dalla
sufficienza/proporzionalità  del reddito 3) la sicurezza individuale a
partire tutela dell'integrità psicofisica  e dallo sviluppo dei potenziali
individuali   4) i diritti collettivi a partire dallo spiegamento di
rapporti di produzione di prossimità, più spesso territorializzati.

IL SECONDO CERCHIO (ovverosia il primo sottocerchio)
 Cosi come sopra delimitato è quello che offre a tutti i lavoratori al suo
interno tutti i diritti fondamentali del lavoro (ferie, scioglimento
giustificato del rapporto con adeguate forme dissuasive-repressive
dell'illegittimo recesso che - ove possibile - salvaguardino il diritto del
lavoratore di optare tra il risarcimento economico e la prosecuzione del
rapporto, la tutela della salute, la sufficienza dei compensi ecc.
adattandoli alle specifiche forme contrattuali ad es. per il telelavoro,
per coloro che operano sulla rete, per il settore no-profit ecc.).
Qui la legge, recependo le linee di evoluzione della disciplina
comunitaria, dovrebbe cercare di definire statuti ad hoc per le varie
modalità di prestazione, coniugando  tradizione ( i vecchi diritti adattati
alla nuove modalità) e innovazione (inedite prerogative soggettive come
quelle stilizzate nella netcharta per chi opera sulla Rete). E tale
unificazione garantirebbe finalmente un'alleanza strategica tra tutti i
lavoratori coinvolti nella filiera della produzione del valore (come
avvenne con l'alleanza ottocentesca tra operai specializzati e manovali che
ha aperto la grande stagione delle conquiste del movimento dei lavoratori)
unificando la rappresentanza sindacale dei lavoratori "ex atipici" di cui
al primo sottocerchio con quella dei lavoratori tradizionali del secondo
sottocerchio, ponendo come irrinviabile una seria legge sulla
rappresentanza reale, democratica e partecipata dei lavoratori.
In quest'ottica da una parte i generi rimarrebbero due (evitando così i
rischi e le debolezze concettuali del tertium genus) e dall'altro la
disciplina del lavoro eterocondizionato si fa molteplice e "flessibile"
(evitando di mettere le mutande alla storia e di umiliare il desiderio -
reale - di crescita di spazi di libertà e autodeterminazione), rimanendo
ovviamente aperti tutti i problemi (di impegnativa risoluzione) nel
definire le categorie border line su chi entra in quale sottocerchio nonché
di costruire una flessibilità il più possibile scelta con adeguati
strumenti di repressione del possibile abuso datoriale. E tale abuso-
attenzione -  potrebbe non essere più quello di dislocare fittiziamente
lavoratori dal cerchio più piccolo (lavoro tipico) al più grande (lavoro
atipico), come sempre fino ad oggi è avvenuto, ma anzi la conquistata
uguaglianza di diritti (e, quindi,  di rigidità e costi) potrebbe spingere
i datori a rifugiarsi nei vecchi cari orpelli della subordinazione
tradizionale con il suo insopportabile portato di potere
gerarchico/disciplinare e ius variandi al servizio del "prevalente
interesse dell'impresa".   In tale luce la stessa alternativa tra la scelta
di definire "subordinata" l'attività di tutti i lavoratori all'interno
dell'insieme dei due sottocerchi o, invero, riservare tale definizione solo
a quelli del cerchio più piccolo (i subordinati tradizionalmente intesi) è
problema a questo punto eminentemente pratico-tecnico da affrontare in
chiave del tutto deideologizzata. Ed infatti - appurato che i diritti
fondamentali di tutti i sottocerchi vengono affermati nel primo
sottocerchio in quanto sgorganti dalle medesime condizioni, bisogni e
aspettative - comunque si voglia definire il lavoro del primo sottocerchio
non vi è dubbio che unico sia il genus con il lavoro subordinato
tradizionalmente inteso e che le differenze attengano solo alle necessarie
(e fors'anche  auspicabili) varietà di species.

IL TERZO CERCHIO (ovverosia il secondo sottocerchio).
Riguarda il lavoro dipendente  classico ovverosia la condizione di tutti
coloro che non solo non abbiano autonomia e controllo nell'organizzazione
del capitale (materiale o immateriale) necessario per l'esecuzione
dell'opus richiesto dal committente centrale ma non abbiano alcun opus tout
court venendo loro richiesta la mera messa a  disposizione delle proprie
energie psicofisiche guidate dalle costanti e mutevoli direttive del
proprio superiore gerarchico.
Ma il lavoratore subordinato classico - proprio perché il primo cerchio gli
assicura la prima grande arma contro la subordinazione (ovverosia reddito e
formazione) e il secondo cerchio gli offre la possibilità di misurarsi con
forme crescenti di autonomia di risultato in una cornice di rafforzati
diritti - non rimane nella propria immutata condizione attuale di
soggezione ma inizia la propria mutazione genetica da oggetto dello
svuotamento servile a soggetto di affermazione della propria persona.
Paradossalmente la teoria dei tre cerchi - che pure sembra nascere (come
quella dl tertium genus) dall'esigenza di far entrare nelle tutele che sino
ad oggi né è rimasto fuori - può avere invece il suo effetto più radicale
nella ridefinizone stessa del lavoro subordinato tradizionalmente inteso
non già in chiave autoritaria-indivualizzante  (come oggi si va definendo
nelle aule dei parlamenti e nelle indicazioni dei figli di Bretton Woods)
ma, al contrario,  libertaria- socializzante.

Dove
Per concludere va precisato dove costruire questa nuova urbanistica sociale
dei dritti individuali al reddito, alla formazione, alla sicurezza.   La
(prima) risposta è
- dentro una nuova fase storica di rilancio delle tutele collettive;
- dentro una cittadinanza europea da costituire;
- dentro un rinnovato  concetto di sicurezza sociale nel quadro di un
rilancio e di un  ampliamento del welfare e del superamento del diritto del
lavoro fordista (che non può che avvenire in un quadro europeo).
E se tale battaglia collettiva ha quale riferimento necessario il  quadro
europeo, la nuova platea sociale post-fordista impone  di riconsiderare
ruoli e funzioni delle istituzioni, con gli enti locali in primo piano.
Si tratta di un processo i cui punti di attacco possono essere in alto - le
proposte contenute nel rapporto della commissione Supiot -, e in basso -
l'assegnazione di compiti agli enti territoriali, enti locali innanzitutto,
nella risposta ai bisogni che sempre più sul territorio e nonpiù-nonsolo
nella fabbrica esprime il lavoro di nuova generazione per  la "sécurité
active dans l'incertitude" tramite l'accesso gratuito ad una serie di
servizi, sperimentando forme di autogestione degli stessi, realizzando una
effettiva integrazione al reddito fruito individualmente ma gestito
collettivamente e perciò socializzante attraverso la pratica generalizzata
del bilancio partecipativo.
Il territorio, se a tal fine e con certe modalità governato, può
rappresentare per il cittadino-lavoratore occasione di sicurezza, di
arricchimento professionale e di aggregazione sociale.
Sul territorio possono essere riconosciuti effettivamente diritti come
quello alla mobilità, alla formazione continua, all'informazione,
all'incontro fisico e virtuale per lo scambio di esperienze, ma anche
l'accesso a servizi di consulenza, al credito, assicurativi, ecc.
In una parola, oltre al diritto del lavoro, è necessario ridisegnare il
ruolo degli enti locali per costruire presidi di effettivo potere
collettivo il cui esercizio potrà rendere concreta la risposta alla
insicurezza prodotta dal mercato.
Una nuova concezione della sicurezza sociale - che si estenda dal lavoro al
non lavoro, dal dipendente all'autonomo, dalla fabbrica al territorio,
sempre più diritto e sempre più universale -, può ridisegnare una nuova
mappa dei diritti, un nuovo diritto del lavoro, una nuova statualità.

Roma, novembre-2002