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Forum giustizia e diritti di Roma
- Subject: Forum giustizia e diritti di Roma
- From: contatti <contatti at romasocialforum.org>
- Date: Mon, 11 Nov 2002 11:09:13 +0100
Tre contributi alla discussione del FSE del Forum giustizia e diritti di Roma. "Vecchio e nuovo lavoro. Subordinazione e parasubordinazione contro l'insicurezza post-fordista, per una nuova cittadinanza" di Pietro Alò "Il lavoro e la geometria dei suoi diritti dal fordismo al post" Riflessioni a cura di Alessandro Brunetti e Carlo Guglielmi "Contro le catene della precarietà, per l'emancipazione dal lavoro subordinato: formazione permanente per tutti e reddito sociale garantito" di Pietro Alò Se la vostra lista non può ricevere l'allegato e lo volete scrivete personalmente a questo indirizzo -------------------------------------------------------------- Roma SF - Gruppo Comunicazione -------------------------------------------------------------- ******** non vuoi piu' ricevere i nostri comunicati? rispondi a questo msg mettendo nel titolo la parola: CANCELLA ------------- Sito Roma Social Forum: http://www.romasocialforum.org scrivete a: contatti/redazione/supporto/rsf @ romasocialforum.org ___________________________________________________________ CONTRO LE CATENE DELLA PRECARIETA' PER L'EMANCIPAZIONE DAL LAVORO SUBORDINATO: FORMAZIONE PERMANENTE PER TUTTI E REDDITO SOCIALE GARANTITO. Pietro Alò Forum Diritti e Giustizia-Roma Nel corso degli anni '90 tutti i paesi europei sono stati interessati da una diffusa deregolamentazione dei rispettivi mercati del lavoro. Giunge a maturità la fase post-fordista, con nuove modalità produttive e nuove soluzioni organizzative, ma anche con la completa privatizzazione delle attività di incontro tra domanda e offerta di lavoro e la crescente diffusione delle nuove tipologie contrattuali, cosiddette atipiche. Si impongono forme vecchie e nuove di flessibilizzazione dei rapporti di lavoro: ciò avviene con un allentamento dei classici vincoli coercitivi della subordinazione (quando è richiesto il convinto coinvolgimento del dipendente nel processo lavorativo), ma anche con il ricorso al part-time, al tempo determinato, all'interinale, alle collaborazioni coordinate e continuative (quando sono ritenuti necessari una maggiore libertà dell'impresa, un contenimento del costo del lavoro, ecc.). Un processo, insomma, che si presta a diverse letture: è in atto una precarizzazione del lavoro dipendente, che comporta una insopportabile riduzione delle tutele e dei diritti dei lavoratori? O la destrutturazione del lavoro fordista prefigura uno storico e auspicabile superamento delle catene della "subordinazione"? L'elaborazione di una adeguata proposta politica contro il neo-liberismo impone opportune precisazioni in ordine ad alcuni concetti, quali, per esempio, flessibilità, lavoro atipico, ecc1;. Per avere conferma dell'importanza di una tale necessità è sufficiente il riferimento alla classificazione delle professioni dell'International Labour Office (prevede 6300 voci professionali), o alle implicazioni politico-sociali legate al concetto di disoccupazione, definito dallo stesso ILO. Implicazioni politico-sociali di particolare rilievo, se è vero che dei tre requisiti previsti per dichiarare disoccupato un individuo senza lavoro (1-essere alla ricerca di impiego; 2-essere disponibile al lavoro entro 2 settimane; 3-aver compiuto un'azione di ricerca entro il mese precedente), il terzo "modifica" sensibilmente l'indicatore dello stato di disoccupazione nelle situazioni più difficili, come nel Mezzogiorno. Gli individui, è dimostrato, sono maggiormente attivi nella ricerca del lavoro laddove è prevedibile un esito favorevole e, di contro, meno attivi dove è meno probabile trovare lavoro. A conferma di ciò, nel Mezzogiorno si è osservato che, considerando un periodo della ricerca di 5 mesi, l'indicatore del tasso della disoccupazione aumenta di ben 4 punti. Una adeguata definizione del concetto di lavoro atipico presuppone quello di flessibilità e, sia pur sommariamente, quello di post-fordismo. Post-fordismo: l'attuale fase dell'economia mondiale è frutto di grandi cambiamenti in ordine ai metodi produttivi, all'organizzazione di tali metodi, all'organizzazione del lavoro, alle relazioni industriali. L'impresa ha richiesto forza lavoro sempre più qualificata, ma anche più "flessibile" per qualità, quantità, modalità delle prestazioni, alimentando la crescita del cosiddetto lavoro atipico. Flessibilità: l'impresa realizza elevati livelli di libertà in ordine al mercato del lavoro con un processo di deregolamentazione generalizzata (flessibilità esterna); ma realizza anche elevati livelli di libertà nel rapporto di lavoro con il controllo degli orari, dei salari, del processo produttivo, ecc; (flessibilità interna). L'impresa, sempre grazie alla conquista di crescenti margini di flessibilità nel mercato e nel rapporto di lavoro, comprime il costo del lavoro e raggiunge alti livelli di produttività. Più in dettaglio, si può distinguere la flessibilità in: -contrattuale (è il caso delle nuove tipologie contrattuali: tempo determinato, cococo, interinale); -temporale (part-time, notturno); -salariale (contratti individuali); -spaziale (domicilio, telelavoro, cococo). Lavoro atipico: Il lavoro atipico, quello per intenderci che produce la flessibilità variamente intesa dall'impresa, è definito in rapporto al lavoro cosiddetto "tipico", subordinato, a tempo pieno e indeterminato, insomma, il lavoro standard, tipicamente "fordista". L'Istat classifica ben 31 tipologie di lavoro atipico, di cui 18 strettamente atipiche e 13 parzialmente atipiche. Per tale classifica sono stati utilizzati la durata del lavoro (orario pieno e ridotto), il carattere temporale della prestazione (permanente o temporanea), la copertura previdenziale (intera, ridotta, nulla). I rapporti di lavoro che coprono tutte le tipologie di lavoro atipico sono: Lavoro a domicilio, telelavoro, interinale, part-time, tempo determinato, contratto di formazione lavoro, contratto di solidarietà, stagionale, lavori socialmente utili, lavori di pubblica utilità, apprendistato, stage, piani di inserimento professionale, collaborazione occasionale, collaborazione coordinata e continuativa. Se è scontata la funzione "liberante" per l'impresa, che svolgono i lavori atipici della fase post-fordista, non del tutto scontata è la funzione che essi svolgono per i lavoratori. Nel movimento sono diverse le letture di un tale fenomeno, ma sono due le estreme vie d'uscita proposte: - il lavoro atipico è aumento della precarietà e dello sfruttamento, quindi, bisogna ripristinare i diritti che i lavoratori stanno perdendo a seguito della centralità assunta dall'impresa negli ultimi anni; - il lavoro atipico, e la flessibilità che l'impresa richiede, è indicativo della crisi del lavoro fordista, del tipico lavoro subordinato; questa crisi produce un nuovo soggetto sociale portatore di nuove istanze di liberazione, più che ripristinare i diritti del lavoro fordista bisogna rivendicare nuovi diritti e fondare, quindi, una nuova cittadinanza oltre quella lavorista sin qui conosciuta. Prima di tirare conclusioni è opportuno osservare la dimensione quantitativa e quella qualitativa del lavoro atipico. Sempre seguendo le definizioni tipologiche dell'Istat, il lavoro atipico è composto da poco meno di 2 milioni di lavoratori autonomi (collaboratori coordinati e continuativi) e da oltre 4 milioni di lavoratori dipendenti (part-time 1 milione e 800 mila, tempo determinato 1 milione e 500 mila, 400 mila apprendisti, 360 mila CFL, ecc;). Dalla semplice osservazione dei dati, risulta evidente il fatto che, rispetto ai dipendenti tipici, i lavoratori dipendenti atipici subiscono un grave peggioramento delle condizioni di lavoro. Ciò trova conferma, anche, in un'indagine svolta dalla Commissione Europea (EC, Employment in Europe 2001 - cit. nel Rapporto dell'Ires per il Nidil-Cgil del gennaio 2002). Dall'indagine è emerso che gli sbocchi, in particolare del lavoro temporaneo, sono molto eloquenti: un terzo di questi lavoratori trasforma l'impiego in permanente entro un anno ma, purtroppo, il 50% di essi permane nell'instabilità e il 20% ripiomba nella disoccupazione. Anche per altra via è possibile risalire alla sostanziale insoddisfazione per la propria condizione di lavoro vissuta dai lavoratori atipici. L'Istat ha rilevato che del milione e 400 mila lavoratori occupati in cerca di un altro impiego nel 2000, i lavoratori tipici sono il 36,5%, gli atipici il 48,1%, gli autonomi il 15,4%. I lavoratori atipici si dividono, poi, in un 18,9% che non desidera l'impiego a tempo pieno indeterminato; il 24,1% dei part-time a tempo indeterminato che vorrebbe il full-time; il 40,2% dei lavoratori a termine che vorrebbe il tempo indeterminato; il 16,8% dei part-time a termine che vorrebbe il lavoro full-time indeterminato. In conclusione, è ampiamente dimostrato che l'80% dei lavoratori atipici vive una condizione lavorativa non volontaria. Che una tale condizione sia contrassegnata da un alto indice di insicurezza è dimostrato anche da uno studio Ocse del 1997; significativamente è emerso che è minore il grado di insicurezza dei lavoratori laddove è forte la contrattazione collettiva e alto il grado di copertura del reddito in caso di disoccupazione. Ma, si potrebbe osservare, le analisi rispetto alla volontarietà del superamento del lavoro tipico subordinato, e le connesse proficue implicazioni di ordine analitico, sono da ricercare nel lavoro autonomo di seconda generazione, più che nel lavoro a tempo determinato o comunque connotato da esplicita precarietà. Al riguardo, un importante indice della probabile o meno libera scelta della propria condizione lavorativa, per i collaboratori coordinati e continuativi, è costituito dal reddito. Infatti, il reddito rappresenta uno dei più importanti indicatori dello stato di subordinazione socio-economica. Dal fondo speciale Inps (10-13%) del 1999 risulta che il 75% degli uomini e il 91% delle donne non supera i 40 milioni di lire annue; al di sotto dei 20 milioni di lire è collocato il 56% degli uomini e il 77,5% delle donne. Sono dati, come è evidente, che illuminano sulla diffusa condizione lavorativa involontaria, non desiderata, se non di tutti certamente di gran parte dei Cococo. Per concludere: come è possibile ridurre la condizione di insicurezza e di diffusa precarizzazione imposta a milioni di donne e uomini dal post-fordismo? C'è una terza ipotesi tra l'illusorio tentativo di ripristinare i diritti nel vecchio paradigma lavorista-fordista, oggi in crisi, e l'avveniristica rivendicazione di una cittadinanza connotata da diritti universali slegati sia dal fordismo ma anche da qualsiasi riferimento alla sfera economica? Una tale ipotesi c'è ed è l'unica perseguibile dal movimento, se esso intenderà praticare il terreno della articolata e diffusa battaglia politica nell'opposizione al neo-liberismo. Si tratta di contrapporre all'insicurezza prodotta dalla crisi del vecchio paradigma fordista (che nella sicurezza dell'impiego fondava i diritti e la sicurezza sociale) una nuova sicurezza, che sia fondata non già sul lavoro tipicamente subordinato, ma su un nuovo statuto del lavoro, fatto di diritti vecchi e nuovi, di diritti sociali, in quanto legati, ancora, alla condizione lavorativa, ma anche di diritti di cittadinanza perché propri del cittadino in quanto tale. In questa visione l'individuo-cittadino è titolare, in quanto cittadino, del diritto alla formazione permanente nel corso della vita (così come finora era titolare del diritto all'istruzione). E l'individuo-lavoratore, il soggetto della nuova condizione lavorativa (subordinata, autonoma, attiva, non attiva, in formazione) è titolare del diritto al reddito garantito. La lotta alla precarizzazione, in questa fase di crisi del lavoro fordista, non può che articolarsi, quindi, in lotta intransigente per la tutela dei vecchi diritti (allorquando essi sono violati: certezza del salario a fronte della prestazione, divieto di abuso nella rescissione del rapporto di lavoro, ecc;) e affermazione e sviluppo di nuovi diritti (contro l'insicurezza e la riduzione delle libertà individuali e collettive alimentate dal post-fordismo). Non è ovvio che il superamento del fordismo sia nel senso dell'emancipazione, la barbarie è possibile. La globalizzazione neo-liberista è aperta a diversi sbocchi, l'esito futuro dipenderà molto dal mondo del lavoro per come oggi è e, soprattutto, dal contributo che il movimento dei movimenti può fornire. Roma, novembre 2002 ___________________________________________________________ Riflessioni a cura di Alessandro Brunetti e Carlo Guglielmi del Forum diritti e giustizia di Roma (NB: pur di offrire un contributo alla discussione, gli autori hanno acconsentito all'utilizzo della presente bozza non corretta, che in qualche caso riporta parti di altri lavori prodotti sull'argomento.) Il lavoro e la geometria dei suoi diritti dal fordismo al post Come già efficacemente rilevato sono da distinguere tre fasi nel passaggio al cosiddetto "post-fordismo": nella prima - fine anni 70 - si assiste soprattutto ad una introduzione massiccia di tecnologia labour saving con la riduzione drastica degli organici: il lavoro diventa bene scarso, la pressione crescente degli outsiders sulla cittadella degli insiders indebolisce l'attitudine unificante del sistema della contrattazione collettiva. Nella seconda fase è lo stesso rapporto di lavoro che viene ad essere destrutturato: si generalizzano i contratti "atipici" e le forme di precariato legale". Il lavoro oltre che bene scarso diventa provvisorio ed instabile. Per contro muta la stessa forma dell'impresa che si fa riflessiva e "a rete". La produzione si decentra, si frammenta, si immerge nel sociale. È questa la fase del dibattito sulla "flessibilità" e sul diritto del lavoro dell'emergenza. Già qui tempo e spazio della prestazione cominciano a divenire parametri incerti e mutevoli così come si accentua la diversificazione all'interno della forza-lavoro che può cominciare ad essere distinta tra un cuore assunto con le regole standard e una "contingent workforce" di precari e "atipici". Tuttavia fautori della deregulation e difensori della "tradizione" discutono ancora su uno sfondo comune. I contratti "atipici" e la stessa forma dell'impresa "a rete" mantengono ancora, sia pure per relationem o per contrasto, un riferimento alle situazioni "standard": nei primi la misura rimane pur sempre il tempo della prestazione, la seconda rimane un'organizzazione, anche se particolarmente snella e duttile, con propri dipendenti. Le difficoltà si presentano ancora come interne al sistema, questioni di armonizzazione delle tutele, di raccordo tra flessibilità e stabilità, di dialettica tra autonomia individuale e collettiva. Nella terza fase della modernizzazione (grezzamente e pericolosamente sbozzata nelle leggi delega in discussione) è l'idea stessa di un tempo e di un luogo di lavoro ad essere messa in discussione, si attenta alla stessa misurabililità in termini di durata, dell'attività lavorativa così come alla sua localizzazione. La rappresentazione geometrica del quadro sociale si compone quindi di piani giustapposti con una frontiera militarmente vigilata al centro che separa la cittadella sempre più povera e oppressa del lavoro subordinato tradizionalmente inteso dal resto del mondo. Dall'altro lato del muro, nell'immediata prossimità, vi sono alcuni milioni di sans papier, talmente disperati da avere quale unico miraggio l'accesso alla città. Più oltre, nel medesimo piano al di quà della subordinazione, si aprono borghi suburbani delle più diverse nature: quelli omogenei e attentamente vigilati dei "gestori di simboli", il ghetto delle casalinghe e quello degli outsiders che neppure bussano più alle porte della cittadella, l'amplissimo sobborgo del lavoro professionale nella sua complessa stratificazione (che va dall'eccellenza dei campi da golf alla miserabilità delle favelas) ecc. ecc. A fronte di tale non idilliaco scenario un maestro del giuslavorismo contemporaneo, Alain Supiot, nella sua Critique du droit du travail, parla di un fallimento del diritto del lavoro, inteso come luogo di armonizzazione delle sue due facce: il lavoro come bene mercantile (o il lavoro astratto, risorsa di ricchezza esteriore e quantificabile) e il lavoro come espressione della persona ( o lavoro concreto, risorsa di ricchezza interiore non quantificabile). Il movimento delle garanzie ha fatto sempre prevalere il primo sul secondo; una concezione monolitica e totalizzante della subordinazione ha interdetto, per Supiot, ogni determinazione soggettiva, non necessariamente individuale, dentro il rapporto di lavoro. Verso una nuova urbanistica di sistema: dai piani affiancati ai cerchi concentrici. L'unica uscita pare quindi quella di ricostruire un'unica "città universale dei diritti" che comprenda al suo interno l'intera cittadinanza laboriosa. E, dato che la caratteristica principe del post fordismo consiste nell'esser divenuta l'intelletualità di massa l'asse produttivo dell'attuale forma di accumulazione del capitale nella misura in cui l'utile di impresa si ricava mettendo al lavoro risorse relazionali e comunicative che nel fordismo si ritenevano fuori dallo scambio retribuito, la cittadinanza laboriosa si identifica senza residui nella cittadinanza tout court. Per rimanere a Supiot, occorre quindi un rilancio della "libertà di lavoro", come diritto costituzionale essenziale, non ovviamente nella versione che sin qui ne è stata data, di libertà "negativa", di non aderire a uno sciopero o a un sindacato, ma come scelta, il più possibile non imposta, di tempi, carichi di lavoro e persino dello stesso schema contrattuale ( lavoro subordinato, associato, autonomo, volontario ecc.). Perché ci si avvicini a questa condizione è senz'altro necessario che si superi l'attuale aut-aut in cui versa il lavoratore che - se vuole conservare margini di autodeterminazione individuale ( in gran parte incompatibili con il regime della subordinazione - ius variandi, orario, trasferimento ecc.) - è costretto a rinunciare al possesso dei diritti fondamentali. Una indicazione sul "che fare" ci viene ancora dalla Costituzione, dal negletto art. 35 che vorrebbe la "tutela del lavoro in tutte le sue forme e applicazioni" che sembra imporre (numerose sentenze della Corte cost. lo hanno detto espressamente, anche se non si è avuto il coraggio di andare oltre le dichiarazioni di principio) l'estensione a tutte le forme di "lavoro", inteso su questo piano molto generale come "prestazione di attività in favore di terzi" (si veda il noto saggio di D'Antona su Arg. dir. lav.) di uno zoccolo unitario di diritti fondamentali individuali e collettivi. Una riforma del diritto del lavoro nel senso appena prospettato dovrà muovere seguendo una configurazione poliedrica la cui rappresentazione geometrica di riferimento può agevolmente essere mutuata dalla teoria degli insiemi. È utile dunque identificare tre centri concentrici ove il più piccolo contiene, oltre al proprio specifico portato, anche le previsioni del più grande e così per il seguente. Il mercato e il rapporto: IL PRIMO CERCHIO Da un lato è evidente l'osservazione del fatto che la fluidità dei rapporti di lavoro è in tendenza inarrestabile, dall'altro non possiamo che far nostra (contro ogni rigurgito di neortodossia) la tesi di quanti rilevano che - come Marx non ha mai negato la "preferibilità" del capitalismo rispetto alle strutture oppressive del feudalesimo patriarcale - noi non dobbiamo/possiamo rimpiangere la strada unica che dalla scuola portava alle caserme e poi o in galera o in fabbrica. Ciò detto non vanno contrapposte le tutele nel mercato alle tutele nel rapporto. E' infatti davvero impossibile non rilevare come concettualmente la contrapposizione tra tutela nel mercato e tutela del rapporto sia una falsa alternativa dato che il mercato è rapporto in quanto oggi si lavora e si produce anche nel mercato e si è forti nel mercato in base a quale bagaglio professionale le tutele nel rapporto hanno consentito di accumulare, con la ovvia conseguenze che garanzie e diritti vanno ripensati e rafforzati sia nel rapporto che nel mercato. Ciò non di meno va posta, per quanto attiene l'atteggiarsi delle concrete forme delle tutela, una prima distinzione tra il primo cerchio - che racchiude tutta "la cittadinanza laboriosa" - e i due ulteriori sottocerchi che invece proprio nel conflitto capitale/lavoro dello specifico rapporto trovano la loro ragione di promozione e tutela. Il primo cerchio, quindi, è quello della cittadinanza sociale con l'istituzione di nuovi diritti del cittadino "laborioso" che consentano ad ogni soggetto una scelta consapevole , senza ricatti e costrizioni, dei tempi e dei modi del proprio contributo alla cooperazione sociale. Il reddito di cittadinanza e il diritto alla formazione permanente e continua sono, su questo terreno, le prerogative fondamentali che rendono il " precario" un soggetto protetto dalle dinamiche di mercato e capace di mantenere un rapporto vivo e reattivo con la cultura, la conoscenza, gli scambi sociali. Al riguardo non si può negare come la "paralisi politica" che si è parzialmente prodotta sul punto attiene all'erronea contrapposizione tra reddito sociale e tutele nel rapporto mentre all'evidenza l'uno contiene e sostiene la "nuova" idea di rapporto che deve sottendere l'intero costrutto giuridico. Ed infatti le attuali politiche di workfare europee non sono sbagliate in quanto il lavoro avrebbe smesso di avere centralità nella definizione degli individui e delle classi sociali (anzi è vero l'opposto) ma perché continuano a muoversi su un paradigma vecchio ove la norma rimane l'occupazione e l'eccezione (da tutelare con varie gradazioni di risposta) è la disoccupazione. In realtà la norma è il "lavoro-non lavoro" e quindi l'unica politica di workfare attuale ed efficace è la generalizzazione (più o meno articolata) dell'accesso al reddito. E se è così viene meno ogni possibile conflitto ad affiancare, ad esempio, la battaglia per il reddito e per l'articolo 18 essendo entrambi due istituti con il fine complementare (anche) di rappresentare un baluardo contro la subordinazione (si veda sempre Supiot) che, per dirla tutta, è l'ambizione politico culturale che deve informare tutto il nostro lavoro. Dentro il grande cerchio Spingendosi più all'interno del grande cerchio della cittadinanza laboriosa si incontrano necessariamente le tutele nel rapporto (che, come detto, si affiancano e reciprocamente sostengono con quelle nel mercato). Per affrontarle efficacemente non si può non partire dalla dicotomia esistente tra lavoro autonomo e lavoro subordinato. Tale contrapposizione, fulcro dall'attuale diritto del lavoro, è divenuto il segno della crisi in cui da più di un ventennio versano i diritti sociali. Tale dicotomia, difatti, rappresenta lo stato di crisi nella misura in cui non è più in grado di cogliere i soggetti cui applicare le tutele svuotandole nei contenuti, rendendole progressivamente inesigibili. La progressiva sterilizzazione del reticolo di tutele diritti introdotti alla fine degli anni 60, la perdita di universalità di un sistema di regole che pur aspirava ad evadere dalla dimensione del "droit ovrier" per diventare "droit social" cioè, un diritto di tutti, la divaricazione crescente tra schemi giuridici e schemi produttivi in cui si perde la corrispondenza tra forme del diritto e suoi presupposti socio-economici che si rivelano sempre meno generali. Tuttavia la questione del regime giuridico del lavoro autonomo non è solo un "case study" tra i tanti della crisi di una disciplina, è molto di più. Il reclutamento da parte delle imprese di gruppi sempre più folti e spesso collocati in punti nevralgici del ciclo produttivo di mano d'opera "autonoma" - il Censis parla di oltre cinque milioni di autonomi, i diecipercentisti pare siano vicini al milione e mezzo (quasi tutti in regime di monocomittenza), si dice ancora che i contratti di collaborazione coordinata e continuativa siano la forma più diffusa di utilizzazione di giovani di scolarità medio-alta ecc.) - rappresenta in realtà un vero e proprio atto di sovversione di equilibri e paradigmi sino a poco tempo fa considerati acquisiti, una minaccia non solo per l'efficacia del diritto del lavoro, ma per lo stesso suo futuro. Il rischio non è solo quello di un ridimensionamento e della limatura delle garanzie connesse al rapporto di lavoro, ma di una drammatica messa tra parentesi dell'intero sistema, di un gigantesco by pass attorno ad esso (che risparmia ai cantori contemporanei della "flessibilità" rischiose battaglie ideologiche sui legittimi confini della tutela del lavoro). Ma anche i passati tentativi di contrapporsi a tale deriva destrutturante (sia nella sua versione "riformista", che "operaista" che infine "alternativa") hanno scontato sino ad oggi una paralisi connessa ad un lungo scontro tra i fautori del tertium genus e i suoi oppositori. In Italia (e in Europa) si ritiene - come detto - che il lavoro possa essere o subordinato o autonomo (salvo poi gradare lievemente quest'ultimo nei casi di "parasubordinazione", che rimane comunque lavoro autonomo a tutti gli effetti). La normazione di una figura tipica di lavoro "parasubordinato" (ovverosia un "tertium genus" tra subordinazione e autonomia), vagheggiata da molti ( e nei fatti preconizzata con la proposta di legge Amato Treu, ben più che non con la Smuraglia che anche a livello definitorio teneva saldi i lavori "atipici" nell'area autonoma) comporta l'evidente rischio di cristallizzare una categoria con tutele di "serie B" il cui posizionamento e possibilità di concreto utilizzo nell'impresa è talmente attiguo a quello della subordinazione da risucchiare al ribasso (in termini di tutele e diritti nel rapporto) il bacino dei dipendenti secondo il noto principio dei vasi comunicanti lasciando per altro immutata, sia pure in ben più felice condizione, la geometria dei piani affiancati e separati. Ma allo stesso tempo non è più possibile accettare la vetustà di quanti vedono la soluzione nella pura e semplice estensione dell'attuale normativa del lavoro subordinato a quello para-subordinato. L'insieme dei due sottocerchi Tutto ciò premesso la (possibile) uscita è nella teoria dei cerchi sopra descritta, partendo dalla rilevazione di come gli stessi abbiano quale proprio fulcro il peso e la capacità di ingerenza di un committente "centrale". Ciò detto nel primo cerchio (il più distante dal fulcro) vanno inseriti (con conseguente esclusione dall'insieme dei due sottocerchi) tutti coloro lontani da tale centralità e ingerenza del committente prevalente (avvocati, meccanici, ambulanti, questuanti, disoccupati, ecc.) che trovano regole e tutele proprio a partire dalle previsione del diritto alla formazione e nel basic incom sopra accennato. Il margine tra il primo cerchio grande e l'insieme dei due sottocerchi, per tanto, va tracciato in negativo ovverosia escludendo dai sotto-insiemi tutti quei lavoratori che o non abbiano alcun rapporto di durata con mono(prevalente)committente oppure che, pur avendocelo, abbiano nella propria attività una preponderante e reale capacità/facoltà di autonoma organizzazione del capitale materiale o immateriale rispetto al mero impiego del lavoro personale. In altre parole l'antica distinzione tra il lavoro subordinato (locatio operarum) e quelle autonomo (locatio operis) all'evidenza non risiede più nella "autonomia esecutiva" per il raggiungimento del risultato (l'opus: ad esempio nel caso del pony express che è autonomo nella scelta delle strade da compiere e del distributore ove rifornire il proprio scooter) ma nella reale "autonomia organizzativa" in ragione di un altrettanto reale possesso e controllo del capitale (materiale o immateriale) che risulti prevalente rispetto all'apporto della mera profusione di energie lavorative necessarie al perseguimento del risultato. Ovviamente a tale primaria distinzione andranno aggiunte osservazioni specifiche per determinate categorie border line di scarsa rilevanza numerica che pure presentano alcune caratteristiche eccezionali quale la straordinaria fiduciarietà dell'incarico degli amministratori ecc. Determinata la distinzione tra il cerchio più grande e i due sottocerchi occorre rilevare che tutti coloro che si dislocano all'interno di tali due ultimi insiemi sono quindi comunque tutti socioeconomicamente subordinati e di conseguenza, in linea di massima, portatori di uguali esigenze e tendenzialmente destinatari di uguali diritti che (richiamando di nuovo il rapporto Supiot) possiamo sintetizzare in 1) uguaglianza, non solo tra generi e nazionalità ma anche tra soggetti con uguale dislocazione nella filiera della produzione a prescindere da titolarità e del rapporto e dalla forma contrattuale imposta 2) tutela contro la dipendenza, a partire dalla adeguata risposta contro il licenziamento ingiusto e dalla sufficienza/proporzionalità del reddito 3) la sicurezza individuale a partire tutela dell'integrità psicofisica e dallo sviluppo dei potenziali individuali 4) i diritti collettivi a partire dallo spiegamento di rapporti di produzione di prossimità, più spesso territorializzati. IL SECONDO CERCHIO (ovverosia il primo sottocerchio) Cosi come sopra delimitato è quello che offre a tutti i lavoratori al suo interno tutti i diritti fondamentali del lavoro (ferie, scioglimento giustificato del rapporto con adeguate forme dissuasive-repressive dell'illegittimo recesso che - ove possibile - salvaguardino il diritto del lavoratore di optare tra il risarcimento economico e la prosecuzione del rapporto, la tutela della salute, la sufficienza dei compensi ecc. adattandoli alle specifiche forme contrattuali ad es. per il telelavoro, per coloro che operano sulla rete, per il settore no-profit ecc.). Qui la legge, recependo le linee di evoluzione della disciplina comunitaria, dovrebbe cercare di definire statuti ad hoc per le varie modalità di prestazione, coniugando tradizione ( i vecchi diritti adattati alla nuove modalità) e innovazione (inedite prerogative soggettive come quelle stilizzate nella netcharta per chi opera sulla Rete). E tale unificazione garantirebbe finalmente un'alleanza strategica tra tutti i lavoratori coinvolti nella filiera della produzione del valore (come avvenne con l'alleanza ottocentesca tra operai specializzati e manovali che ha aperto la grande stagione delle conquiste del movimento dei lavoratori) unificando la rappresentanza sindacale dei lavoratori "ex atipici" di cui al primo sottocerchio con quella dei lavoratori tradizionali del secondo sottocerchio, ponendo come irrinviabile una seria legge sulla rappresentanza reale, democratica e partecipata dei lavoratori. In quest'ottica da una parte i generi rimarrebbero due (evitando così i rischi e le debolezze concettuali del tertium genus) e dall'altro la disciplina del lavoro eterocondizionato si fa molteplice e "flessibile" (evitando di mettere le mutande alla storia e di umiliare il desiderio - reale - di crescita di spazi di libertà e autodeterminazione), rimanendo ovviamente aperti tutti i problemi (di impegnativa risoluzione) nel definire le categorie border line su chi entra in quale sottocerchio nonché di costruire una flessibilità il più possibile scelta con adeguati strumenti di repressione del possibile abuso datoriale. E tale abuso- attenzione - potrebbe non essere più quello di dislocare fittiziamente lavoratori dal cerchio più piccolo (lavoro tipico) al più grande (lavoro atipico), come sempre fino ad oggi è avvenuto, ma anzi la conquistata uguaglianza di diritti (e, quindi, di rigidità e costi) potrebbe spingere i datori a rifugiarsi nei vecchi cari orpelli della subordinazione tradizionale con il suo insopportabile portato di potere gerarchico/disciplinare e ius variandi al servizio del "prevalente interesse dell'impresa". In tale luce la stessa alternativa tra la scelta di definire "subordinata" l'attività di tutti i lavoratori all'interno dell'insieme dei due sottocerchi o, invero, riservare tale definizione solo a quelli del cerchio più piccolo (i subordinati tradizionalmente intesi) è problema a questo punto eminentemente pratico-tecnico da affrontare in chiave del tutto deideologizzata. Ed infatti - appurato che i diritti fondamentali di tutti i sottocerchi vengono affermati nel primo sottocerchio in quanto sgorganti dalle medesime condizioni, bisogni e aspettative - comunque si voglia definire il lavoro del primo sottocerchio non vi è dubbio che unico sia il genus con il lavoro subordinato tradizionalmente inteso e che le differenze attengano solo alle necessarie (e fors'anche auspicabili) varietà di species. IL TERZO CERCHIO (ovverosia il secondo sottocerchio). Riguarda il lavoro dipendente classico ovverosia la condizione di tutti coloro che non solo non abbiano autonomia e controllo nell'organizzazione del capitale (materiale o immateriale) necessario per l'esecuzione dell'opus richiesto dal committente centrale ma non abbiano alcun opus tout court venendo loro richiesta la mera messa a disposizione delle proprie energie psicofisiche guidate dalle costanti e mutevoli direttive del proprio superiore gerarchico. Ma il lavoratore subordinato classico - proprio perché il primo cerchio gli assicura la prima grande arma contro la subordinazione (ovverosia reddito e formazione) e il secondo cerchio gli offre la possibilità di misurarsi con forme crescenti di autonomia di risultato in una cornice di rafforzati diritti - non rimane nella propria immutata condizione attuale di soggezione ma inizia la propria mutazione genetica da oggetto dello svuotamento servile a soggetto di affermazione della propria persona. Paradossalmente la teoria dei tre cerchi - che pure sembra nascere (come quella dl tertium genus) dall'esigenza di far entrare nelle tutele che sino ad oggi né è rimasto fuori - può avere invece il suo effetto più radicale nella ridefinizone stessa del lavoro subordinato tradizionalmente inteso non già in chiave autoritaria-indivualizzante (come oggi si va definendo nelle aule dei parlamenti e nelle indicazioni dei figli di Bretton Woods) ma, al contrario, libertaria- socializzante. Dove Per concludere va precisato dove costruire questa nuova urbanistica sociale dei dritti individuali al reddito, alla formazione, alla sicurezza. La (prima) risposta è - dentro una nuova fase storica di rilancio delle tutele collettive; - dentro una cittadinanza europea da costituire; - dentro un rinnovato concetto di sicurezza sociale nel quadro di un rilancio e di un ampliamento del welfare e del superamento del diritto del lavoro fordista (che non può che avvenire in un quadro europeo). E se tale battaglia collettiva ha quale riferimento necessario il quadro europeo, la nuova platea sociale post-fordista impone di riconsiderare ruoli e funzioni delle istituzioni, con gli enti locali in primo piano. Si tratta di un processo i cui punti di attacco possono essere in alto - le proposte contenute nel rapporto della commissione Supiot -, e in basso - l'assegnazione di compiti agli enti territoriali, enti locali innanzitutto, nella risposta ai bisogni che sempre più sul territorio e nonpiù-nonsolo nella fabbrica esprime il lavoro di nuova generazione per la "sécurité active dans l'incertitude" tramite l'accesso gratuito ad una serie di servizi, sperimentando forme di autogestione degli stessi, realizzando una effettiva integrazione al reddito fruito individualmente ma gestito collettivamente e perciò socializzante attraverso la pratica generalizzata del bilancio partecipativo. Il territorio, se a tal fine e con certe modalità governato, può rappresentare per il cittadino-lavoratore occasione di sicurezza, di arricchimento professionale e di aggregazione sociale. Sul territorio possono essere riconosciuti effettivamente diritti come quello alla mobilità, alla formazione continua, all'informazione, all'incontro fisico e virtuale per lo scambio di esperienze, ma anche l'accesso a servizi di consulenza, al credito, assicurativi, ecc. In una parola, oltre al diritto del lavoro, è necessario ridisegnare il ruolo degli enti locali per costruire presidi di effettivo potere collettivo il cui esercizio potrà rendere concreta la risposta alla insicurezza prodotta dal mercato. Una nuova concezione della sicurezza sociale - che si estenda dal lavoro al non lavoro, dal dipendente all'autonomo, dalla fabbrica al territorio, sempre più diritto e sempre più universale -, può ridisegnare una nuova mappa dei diritti, un nuovo diritto del lavoro, una nuova statualità. Roma, novembre-2002
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