Dopo Genova: movimenti e rappresentanza



Contributo a una riflessione su movimenti e rappresentanza
 
  Tra le esternazioni meno contestabili di Luca Casarini ce n’è una, a commento dell’imprevisto successo della manifestazione di Genova, sfuggita ai media e ai più: «Le emozioni coinvolgono più delle mozioni». Un’evidenza che pezzi dei Social Forum sembrano sottovalutare. Da che mondo e mondo, da che movimento e movimento, del resto, la rivolta nasce dall’indignazione prima che dall’analisi politica. Anzi: molto spesso la rivolta rifugge l’analisi e non tollera gli apparati di partito (o di movimento). Beninteso: rivolta non è sinonimo di barricate, le quali sono solo una delle possibili forme in cui essa storicamente e consuetamente si esprime. Poiché la cifra emotiva della rivolta non è solo quella dell’indignazione (la quale a sua volta e per fortuna non necessariamente degenera in rabbia o odio), ma anche quelle della gioia, del riconoscimento e della comunità. Vale a dire esattamente quei sentimenti e quelle tonalità emotive che, assieme al ricordo di Carlo e all’affetto per i suoi genitori, hanno caratterizzato la giornata di sabato 20 luglio.
I due terzi delle persone che hanno manifestato a Genova quest’anno, e forse una percentuale ancora maggiore nel 2001, sono propriamente una moltitudine che si è mobilitata spontaneamente sulla base della propria indignata individualità e delle proprie emozioni, con determinazione e leggerezza. Quei due terzi costituiscono la luna, ma scioccamente continuiamo tutti (e non solo i media) a guardare e discutere del dito.
L’incredibile scarto tra le previsioni della vigilia (20-30.000 persone) e i numeri effettivi dei partecipanti (cinque volte tanto) certifica il carattere appunto spontaneo di questo movimento. Assieme testimonia, più che di una semplice miopia, della sensibile distonia tra quella moltitudine, che per comodità continuiamo a chiamare movimento o movimento dei movimenti, e la sua pretesa rappresentanza, ovvero le singole componenti organizzate e i loro leader o i portavoce, spesso autonominatisi tali o così accreditati dai giornalisti, nel consueto e pigro gioco di specchi tra media e politica. Rappresentanza che, onestamente riconosce Agnoletto (cfr. “il manifesto”, 25 luglio 2002), ha rischiato di costituire «una specie di direttorio delle strutture nazionali».
Un rischio, per la verità, che appare ancora più consistente ora, dopo la manifestazione genovese e nelle tappe di avvicinamento al Forum sociale europeo del prossimo novembre.
Il dopo-Genova 2002, infatti, dovrebbe mettere al centro della riflessione e delle valutazioni proprio l’inadeguatezza non solo e non tanto della “leadership”, nel senso delle persone fisiche, quanto delle preesistenti componenti organizzate a rappresentare qualcosa di più e di diverso delle componenti stesse. Le quali, ovviamente, hanno rilevanza e incidenza politica e sociale. Ma in quanto tali. La cui somma, tuttavia, non costituisce “il movimento”. Non solo per questione numerica e per le proporzioni suddette. Quanto perché quella moltitudine, quelle centinaia di migliaia di persone in tutta evidenza non rispondono agli appelli né si riconoscono nella direzione politica dell’una o l’altra delle componenti o del complessivo “direttorio”, per usare la pertinente definizione di Agnoletto.
Al riguardo, altrettanto plateale dello scarto tra le previsioni di qualche “portavoce” alla vigilia e le effettive presenze, è stata la decisione delle reti Lilliput di non aderire alla manifestazione del 20. Il fatto che molte persone impegnate in Lilliput siano invece state presenti sabato a Genova non testimonia di scollature o contraddizioni interne a quella realtà, quanto e di nuovo del fatto che il “movimento” non è ingabbiabile entro forme organizzate, formule di alleanze tra componenti, conflitti o contraddizioni tra ipotesi progettuali e/o organizzative. Giacché ha vita, luoghi, linguaggi, scadenze e soggettività proprie. E, probabilmente, ha la coscienza che per combattere una globalizzazione senz’anima e senza giustizia, che produce un’umanità mercificata e senza diritti, quel che sicuramente non serve è dare vita a nomenclature e coltivare l’autoreferenzialità.
La vera ricchezza di questa fase e la forte sollecitazione sembra piuttosto essere quella di pensare a forme nuove della politica e del conflitto, a una diversa centralità della questione dei diritti, a una più matura definizione di sinistra sociale. Ma dalle vicende italiane di quest’ultimo anno e dalla giornata del 20 luglio deriva forse anche una sollecitazione critica verso il concetto stesso della leadership personalizzata, eredità e specchio deformante delle forme vecchie e istituzionalizzate della politica.
Con tale riflessione dovranno prima o poi confrontarsi quanti, diversamente, continuano a presumere di rappresentare la moltitudine o persistono nel tentativo di ridurre a una le singolarità, di costringere a forme di organizzazione comune (“leggere” o “pesanti” non fa differenza) o di delega a portavoce (uno o tanti non fa differenza) le poliedriche ricchezze e le infinite sfumature di quella che è, e – così stando le cose – è meglio che rimanga, qualcosa di più e qualcosa di meno. Ovvero una comunità: di emozioni, di sentimenti, di intenti, di aspirazioni, ma anche di critica pratica all’esistente. Ma che non è né può forzatamente tradursi in identità, progetto, organizzazione, partito, sigla o bandiera. Una comunità, vivaddio, indisciplinata, più che disobbediente.
Sergio Segio
 
(26 luglio 2002)