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Schiavi africani del XXI secolo, in terra d'islam



Schiavi africani del XXI secolo, in terra d'islam
Dal Niger al Sudan, la schiavitù continua a essere praticata e giustificata
in nome del Corano. A rilanciare l'allarme sono i vescovi dell'Africa nera,
un reporter italiano e una baronessa inglese della House of Lords
di Sandro Magister




ROMA - Iosephina Bakhita, la prima santa del Sudan, canonizzata da Giovanni
Paolo II nel 2000, era stata da giovane una schiava, venduta e rivenduta sui
mercati di El Obeid e Khartoum. Ebbe la fortuna di finire in Italia. Quando
fu liberata e si fece battezzare correva l'anno 1890.

Ma oggi, a più di un secolo di distanza, tra il Sahara e il Nilo di schiavi
ve ne sono ancora. Ed è uno schiavismo soprattutto di matrice islamica,
erede della tratta che per secoli trasferì a forza dall'Africa sub-sahariana
verso le terre arabe e musulmane da 11 a 14 milioni di africani.

Di questa tratta poco si è studiato e poco si dice, a differenza di quella
che si diresse verso le Americhe. L'ultima assemblea generale delle
conferenze episcopali cattoliche dell'Africa, tenuta a Dakar nell'ottobre
del 2003, vi ha dedicato una sessione, introdotta da affermazioni come
questa:

"A lungo le analisi su questo tema sono state poste all'indice. Una causa
della paralisi di questa coscienza storica è stato l'atteggiamento di molti
intellettuali e governanti musulmani riguardo alla tratta trans-sahariana.
Per ragioni di sensibilità religiosa non vogliono riconoscere adeguatamente
la responsabilità araba e islamica in questo dramma, i cui effetti nefasti
continuano tutt'ora. Oggi nel mondo arabo il termine nero significa
semplicemente schiavo. Le tracce del commercio trans-sahariano formano
strade geografiche che portano nel Maghreb e nel Medio Oriente".

Ieri come oggi. Su una di queste strade - attualmente percorsa da africani
che da Senegal, Mali, Guinea, Costa d'Avorio, Ghana, Benin, Togo, Nigeria,
Camerun convergono sul Niger e da lì, da Agadez (nella foto la moschea),
affrontano il deserto fino alle coste della Libia per poi raggiungere l'
Italia e l'Europa - l'inviato del "Corriere della Sera" Fabrizio Gatti s'è
imbattuto in casi di schiavitù da XXI secolo, e ne ha dato conto in un
reportage pubblicato in cinque puntate tra il 24 dicembre 2003 e il 2
gennaio 2004 sul maggior quotidiano italiano.

Sull'attuale rotta trans-sahariana degli emigranti, l'epicentro della
schiavitù è l'oasi di Dirkou, nel Niger, appena passato il deserto di
Téneré. I clandestini vi arrivano senza più un soldo, derubati di tutto dai
militari del Niger nei frequenti posti di blocco. E allora, scrive Fabrizio
Gatti:

"Per non morire di fame lavorano gratis, nelle case dei commercianti o nei
palmeti. Lavano pentole, curano orti e giardini, raccolgono datteri,
impastano mattoni. In cambio di una scodella di miglio, un piatto di pasta,
il caffè, qualche sigaretta. Volevano arrivare in Italia, sono diventati
schiavi. Solo dopo mesi di fatica il padrone li lascia andare, pagando
finalmente il biglietto per la Libia: 25 mila franchi, 38 euro e 50. Ma la
paura è di finire come quelli che sono prigionieri da più di un anno. Sono
diventati pazzi e vivono nella boscaglia".

E la filosofia di questa nuova tratta degli schiavi? Un caporale di
fanteria, "faccia e cognome arabi", la spiega così all'inviato del
 "Corriere", additando i neri in ginocchio nella sabbia:

"Noi già pregavamo Allah che quelli ancora suonavano i tamburi e si
mangiavano tra loro come animali. Quelli là non sono come noi. Se possono
pagarsi il viaggio fino in Italia, vuol dire che sono ricchi. È giusto che
lascino qualcosa in Niger, a noi che non abbiamo i soldi per andarcene".

Il reporter commenta:

"È una vecchia storia. Arabi libici e neri hausa del Niger considerano gli
abitanti della costa africana semplicemente inferiori. Un tempo
attraversavano il Ténéré e il Sahara sulla stessa rotta, per comprarli e
rivenderli come schiavi. Adesso li ammassano sui camion peggio delle bestie.
Cammelli e capre fanno viaggi di prima classe, a loro confronto. Hanno
spazio per sdraiarsi, fieno e acqua. Dei clandestini a nessuno importa se
muoiono nel deserto".

A est del Niger c'è il Ciad. E poi il Sudan, traversato dal Nilo e segnato
da una lunga guerra civile tra il nord arabo e musulmano, detentore del
potere, e il sud nero e non islamizzato. Nel Sudan, da parte dei dominanti
arabi, la schiavitù continua a essere non solo praticata, ma anche
teorizzata in nome del Corano.

Un libro pubblicato a Londra nel giugno 2003 dall'istituto britannico
Civitas documenta che in Sudan, in aree a popolazione nera come Bahr
El-Ghazal, i monti Nuba, il Sud Kordofan e il Darfur, sono ricorrenti le
incursioni di gruppi arabi armati, finalizzate a "uccidere gli uomini e
trarre in schiavitù le donne e i bambini".

Il libro riporta le testimonianze di donne e ragazzi sfuggiti alla schiavitù
e mostra come negli anni Novanta la prassi sia stata incoraggiata dal
National Islamic Front, il partito egemone a Khartoum, diretto da un leader
di spicco dell'islamismo mondiale, Hassan Al-Turabi:

"Capi del NIF mobilitavano le tribù arabe, le incoraggiavano a partecipare
alla jihad, promettevano loro gli schiavi come bottino di guerra,
assicuravano che la schiavitù era giustificata dal Corano come mezzo per
convertire all'islam, e fornivano l'appoggio logistico ai raid, con cavalli,
armi e truppe".

Uno degli autori del libro è la baronessa Caroline Cox, membro ed ex
vicepresidente della House of Lords, la camera alta britannica. Nel suo
primo viaggio in Sudan, la baronessa Cox arrivò in un villaggio, Nyamlell
nella regione di Bahr El-Ghazal, dove poco prima 80 uomini e 2 donne erano
stati uccisi e 282 donne e bambini erano stati portati via come schiavi. In
seguito fece un'altra ventina di viaggi in Sudan, spesso in aree proibite,
raccogliendo una documentazione sempre più vasta.

Il libro riferisce anche colloqui con mercanti arabi di schiavi. Sostengono
che la shari'a, la legge islamica, li autorizza a ridurre in schiavitù i
figli e i famigliari degli uomini contro i quali sono in guerra. E affermano
di vendere schiavi ad arabi di altri paesi.

Una ex schiava originaria di Karko sui monti Nuba, Mende Nazer, ha
raccontato la sua storia in un libro uscito l'anno scorso in tedesco e ora
anche in inglese. Catturata nel 1992, fu prima schiava di una ricca famiglia
di Khartoum e poi, dal 2000, di un diplomatico sudanese a Londra, dal quale
scappò chiedendo asilo politico.