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Amnistia, indulto, piano marshall conferenza stampa a Roma



Con invito a partecipare, diffondere e darne notizia.
In allegato, documentazione sul tema e sull'iniziativa.
grazie per l'attenzione
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Comunicato Stampa
Se non ora, quando?
Un indulto, vero e pieno, precondizione per un percorso di riforme:
è l'appello di volontari, associazioni, cappellani, agenti di polizia
penitenziaria

Conferenza Stampa a Roma
Davanti al carcere di Regina Coeli, via della Lungara 28
Mercoledì 15 gennaio, ore 12


Il 14 novembre il Papa ha pronunciato davanti a tutti i parlamentari
riuniti alla Camera dei Deputati parole nette e inequivoche: necessità del
recupero e del reinserimento dei detenuti e di una riduzione delle pene. La
risposta dei parlamentari è stato un forte, prolungato e corale applauso.
Quelle parole e quell'applauso hanno riacceso concrete speranze nella
popolazione detenuta e negli operatori sociali e penitenziari. Speranze che
non sarebbe giusto né saggio deludere nuovamente e neppure eludere con
risposte parziali o insufficienti, come il cosiddetto "indultino".
Il sistema penitenziario è in una situazione di pre-collasso.
Ci sentiamo titolati a dirlo, come associazioni, volontari, cappellani,
operatori e agenti di polizia penitenziaria poiché conosciamo da vicino,
dall'interno e quotidianamente, la drammaticità di tale situazione. Di più:
ci sembra doveroso dirlo alla pubblica opinione e alle forze politiche e ai
parlamentari, proprio alla vigilia dell'inizio del dibattito su queste
materie nell'Aula della Camera.
Per questo ci sentiamo di avanzare una richiesta di attenzione e di
concretezza a chi ha il potere, il dovere ma anche la necessità di dare
risposte legislative a tutto il sistema penitenziario.
Occorrono misure concrete per contenere e sanare questa situazione, per far
fronte al disagio che riguarda sia i detenuti, sia tutti gli operatori e in
modo particolare la polizia penitenziaria.
L'indulto è una precondizione necessaria, va considerato l'inizio, e non la
fine, di un percorso per avviare quelle misure strutturali che andranno
prese per garantire riconoscimento, formazione e dignità professionale agli
operatori tutti, nonché vivibilità nelle carceri, anche quale elemento
fondante per il recupero e premessa per il reinserimento sociale delle
persone detenute. Reinserimento che va sostenuto con un vero e proprio
"piccolo piano Mashall", che deve accompagnarsi all'indulto ed
eventualmente all'amnistia. Solo il sostegno sul territorio, solo concreti
percorsi di inserimento sono reale garanzia e prevenzione per rompere la
spirale della recidiva e, dunque, per garantire maggiore sicurezza ai
cittadini.
Il nostro forte e determinato appello, alla vigilia del dibattito alla
Camera, è che si ponga fine a giochi politici, conflittualità sterili e
dilazioni. È un invito a ogni singolo parlamentare, in libertà di
coscienza, di tradurre l'applauso del 14 novembre in un voto a favore
dell'indulto.
Un indulto come precondizione di un percorso di riforme.
Un indulto pieno e vero.
Un indulto senza diminutivi e senza ulteriori ritardi.

Conferenza Stampa
Davanti al carcere di Regina Coeli, Roma
Mercoledì 15 gennaio, ore 12

Promuovono e partecipano:

Associazione Antigone (Patrizio Gonnella)
Associazione Liberi (Sergio Cusani)
Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia (Carmen Bertolazzi)
Gruppo Abele (Sergio Segio)
L'Altro diritto- Centro di documentazione su carcere, marginalità e
devianza (prof. Emilio Santoro)
VIC/«Volontari In Carcere» - Caritas Diocesana di Roma
don Luigi Ciotti (presidente di Libera e del Gruppo Abele)
Don Sandro Spriano (cappellano carcere di Rebibbia, Caritas)
Padre Vittorio Trani (cappellano carcere di Regina Coeli)


CGIL-FP (Fabrizio Rossetti)
CISL-FPS-Polizia (Paola Saraceni)
UIL-PA-Penitenziari (Massimo Tesei)
SAPPe (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria - Donato Capece, Roberto
Martinelli, G.B. Durante




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ANTIGONEONLUS
per i diritti e le garanzie nel sistema penale



	L'analisi di dettaglio delle proposte di legge in discussione su
indulto e sospensione condizionata della pena ci ha indotto a individuarne
limiti e potenzialità da segnalare in vista del loro prossimo esame
parlamentare.

La sospensione condizionata della pena
A nostro avviso l'attuale impianto del cosiddetto "indultino" è
insoddisfacente, perché pieno di limiti ed esclusioni che ne condizionano
fortemente gli esiti deflativi finali, ma anche perché si sottrae alla
logica della universalità tipica di un provvedimento di clemenza.  Inoltre
la misura delineata presenta passi indietro rispetto all'attuale sistema
delle misure alternative. Infatti durante la fase della sospensione della
esecuzione della pena la magistratura di sorveglianza è previsto che possa
imporre una serie di prescrizioni, alcune delle quali più rigide di quelle
ordinariamente previsti per gli affidati o i semiliberi. Inoltre vi è una
ampia ed esagerata possibilità di revoca della sospensione della pena,
finanche se si riporta una condanna a pena detentiva non inferiore a sei
mesi per delitto non colposo. In questo caso la pena andrebbe a
ricominciare daccapo e l'effetto deflativo verrebbe del tutto compromesso.
La pdl prevede che la sospensione della pena per gli ultimi 3 anni possa
avvenire se il detenuto ne abbia scontata almeno un quarto. Ad esempio una
persona condannata a 3 anni e mezzo e che ha già trascorso 6 mesi in
carcere comunque non uscirebbe dalla prigione avendo da scontare almeno
altri 4 mesi. E così via. Molte sono le esclusioni soggettive e oggettive,
più estese rispetto a quanto previsto nel testo sull'indulto. Sono esclusi
coloro che sono sottoposti al provvedimento di sorveglianza particolare di
cui all'articolo 14 dell'ordinamento penitenziario, ma soprattutto la pdl
in discussione non prevede l'applicazione ai delinquenti abituali o
professionali. Le esclusioni oggettive della sospensione condizionata sono
più ampie rispetto a quelle previste dal testo base sull'indulto. Vanno a
ricomprendere oltre alla devastazione, al sequestro a scopo di estorsione,
alla strage, al saccheggio, al l'associazione a delinquere di stampo
mafioso e al traffico di sostanze stupefacenti anche il terrorismo, la
prostituzione minorile, la pornografia minorile, la violenza sessuale, la
rapina aggravata e l'estorsione aggravata. Pertanto quel 25% di esclusioni
oggettive per l'indulto andrebbe a salire sino ad almeno il 40-45%. Il
numero dei potenziali immediati beneficiari della sospensione della pena
sarebbe quindi certamente inferiore di alcune migliaia di unità rispetto a
quelle che potrebbero godere dell'indulto. Per le pene più lunghe rispetto
ai tre anni non vi sarebbe l'effetto dell'accorciamento della carcerazione.
Inoltre il provvedimento non è automatico, pertanto la magistratura di
sorveglianza si troverebbe di fronte ad una infinità di pratiche da
evadere. Infine per i migranti irregolari la sospensione della pena
comporterebbe l'obbligo di abbandonare il territorio dello Stato entro un
mese, e se questo non dovesse avvenire riprenderebbe a decorrere la pena
dal momento della sospensione.

L'indulto
Il punto di partenza dovrebbe essere il seguente: la riduzione di parte
della pena deve valere per tutti, a prescindere dalla durata della
carcerazione. Non si può temere la riduzione di tre anni per una persona
condannata a venti o ventiquattro. Clemenza è tale se è per tutti.
L'indulto, affinché abbia ampia portata deflativa, non dovrebbe avere
preclusioni soggettive e oggettive. La cronica e crescente condizione di
sovraffollamento degli istituti di pena italiani  impone la discussione di
misure urgenti e clemenziali per i detenuti ristretti nelle 205 carceri
italiane dove, al 31 ottobre scorso, risultavano detenute 56.733 persone
contro una capienza regolamentare di 41.730. Ben 15 mila persone in più
rispetto ai posti letto a disposizione. Il 31 dicembre del 2001 erano
detenute nelle carceri italiane 55.275 persone. Nel 2000, anno in cui è
partita la prima campagna giubilare per l'amnistia e l'indulto, i detenuti
erano fra i 53 e i 54 mila, mentre all'inizio del 1999 49 mila. La crescita
è stata in soli tre anni di 7 mila unità.
Nel testo unificato sull'indulto la concessione della misura è pari a tre
anni. Circa 18 mila detenuti, ossia il 61% di coloro che sono stati
condannati in via definitiva, hanno un residuo pena inferiore ai 3 anni e
potrebbero quindi essere immediatamente rimessi in libertà. Sono
ingiustificatamente previste una serie di esclusioni oggettive e soggettive
che ne limitano fortemente la portata. Per quanto concerne le esclusioni
soggettive la pdl in discussione non prevede l'applicazione ai recidivi nei
casi di reati commessi durante l'esecuzione della pena o durante
l'evasione, ai delinquenti abituali, professionali o per tendenza.
L'applicazione di tale "etichetta criminale" non è infrequente nelle aule
giudiziarie, soprattutto per coloro che commettono reati contro il
patrimonio o legati alla violazione della normativa sulle sostanze
stupefacenti. Infatti in carcere ci si va per una decina di tipologie di
crimini, sempre gli stessi, commessi in violazione dei cosiddetti dieci
comandamenti laici a cui si affida la nostra giustizia. L'amministrazione
penitenziaria non dispone di dati certi su tali tipologie di detenuti. In
ogni caso almeno qualche migliaio di persone ne sarebbero soggettivamente
escluse.
Andrebbero altresì eliminate tutte le esclusioni oggettive. L'esclusione
oggettiva dalla pdl sull'indulto riguarda infatti una decina di fattispecie
di reato che complessivamente interessano circa il 25% della popolazione
detenuta. Da quei 18.000 potenzialmente ammissibili vanno tolte quindi
alcune migliaia di persone pluri-recidive più 4 mila circa escluse in base
al tipo di reato commesso. Un indulto fino a tre anni senza preclusioni
oggettive si potrebbe applicare indistintamente a coloro che sono
attualmente in misura alternativa i quali potrebbero beneficiare
dell'indulto e finire anticipatamente il periodo di semilibertà,
affidamento al servizio sociale o detenzione domiciliare. Si consideri che
il totale degli ammessi a misure alternative è pari a 35 mila unità, di cui
la gran parte con un residuo pena inferiore ai 3 anni. Mentre sono ben 70
mila coloro che sono già in sospensione della pena in applicazione della
legge Simeone-Saraceni e che in tal modo eviterebbero il giudizio di
sorveglianza.

E l'amnistia?
Amnistia e indulto sono fra loro intimamente correlate. L'indulto funziona
se c'è  contestualmente un provvedimento di amnistia. Oggi in via
straordinaria bisogna intervenire sia sul sovraffollamento carcerario sia
sul sovraffollamento giudiziario. Da un lato bisogna intervenire sulle
pene, dall'altro sui reati. In tal modo va evitato il rischio che alla
riduzione di pena non si accompagni la contestuale estinzione dei reati,
almeno fino ad una soglia di tre anni di massimo edittale o di pena
comminata in concreto. Una persona condannata a meno di tre anni di carcere
per un fatto compiuto prima del 30 giugno 2001, il cui processo non si è
ancora concluso alla data di entrata in vigore della legge, non sconterà la
pena detentiva ma subirà comunque un inutile processo che si svolgerà
altrettanto inutilmente in quanto la pena andrà estinta. Con l'amnistia
decine di migliaia di cause pendenti per piccoli reati potrebbero
estinguersi consentendo alle procure e ai tribunali di concentrarsi su
questioni di maggiore spessore criminale.






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Dall'indulto all'insulto

La discussione di questi giorni sul problema del sovraffollamento
carcerario e del provvedimento di clemenza, che sembra l'unica via per
risolverlo, si colloca a metà strada tra la commedia degli equivoci e il
teatro dell'assurdo (tralasciando la malafede). Il problema riguarda il
provvedimento che i giornali hanno definito "indultino" e che,
tecnicamente, porta il nome di "Sospensione dell'esecuzione della pena
detentiva nel limite massimo di tre anni".
Credo che sia urgente fare chiarezza su questo provvedimento che rischia di
distruggere il delicato equilibrio dei percorsi di reinserimento sociale
creato dal legislatore con l'ordinamento penitenziario del 1975 e
soprattutto con la legge Gozzini nel 1986.
Il termine "indultino" fa pensare ad una misura di clemenza di impatto
minore dell'indulto. Si afferma che questa misura sarebbe in ogni caso una
risposta alla richiesta di clemenza sostenuta da autorevoli voci (da quella
del Papa a quella del Presidente della Repubblica). Queste voci hanno fatto
seguito alle forme di protesta pacifica attuate dai detenuti nell'autunno
scorso, al prezzo di sacrifici spesso immensi date le loro condizioni, per
sollevare il problema del sovraffollamento carcerario. In alcuni casi, la
situazione è così grave da costringere alcuni reclusi a dormire su delle
brande che devono essere spostate durante il giorno per avere la
possibilità di muoversi in cella. Quello approvato prima di Natale in
Commissione Giustizia alla Camera non è però un provvedimento di clemenza,
ma un provvedimento antirecidiva per di più tutto impostato sulla linea
della repressione penale senza dare alcun rilievo al piano della
prevenzione sociale.
L'indulto è un provvedimento con il quale il Parlamento condona o commuta
parte della pena per i reati commessi prima del momento in cui esso è
approvato. La Costituzione richiede che l'indulto sia approvato con una
maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera. Dato che
questa maggioranza potrebbe non essere raggiunta, si è pensato di ripiegare
su un provvedimento adottabile con legge ordinaria e quindi a maggioranza
semplice: quello che appunto viene chiamato "indultino". Dalla Commissione
Giustizia della Camera è però uscito un provvedimento di clemenza, ma un
provvedimento che accentua la repressione penale sui detenuti.
I capisaldi del provvedimento sono i seguenti:
1) si sospende l'esecuzione della pena per tutti condannati che, non avendo
commesso reati particolarmente gravi come strage, terrorismo, mafia,
eccetera, abbiano scontato almeno un quarto della pena e che abbiano un
residuo pena non superiore a tre anni (articoli 1 e 2);
2) la sospensione della pena viene revocata se, nel corso dei successivi 5
anni, il condannato commette un nuovo reato (punito con più di sei mesi di
reclusione) oppure se viola le prescrizioni che gli vengono imposte al
momento della sospensione (articoli 5 e 9). In caso di revoca la pena
riprende a decorrere dal momento in cui è stata sospesa;
3) per i migranti irregolari la sospensione della pena comporta l'obbligo
di abbandonare il territorio dello Stato entro un mese, se questo non
avviene, anche in questo caso riprende a decorrere la pena dal momento
della sospensione (articolo 7);
4) per tutto il periodo della sospensione i cittadini italiani, ai quali
viene concessa la sospensione della pena, non possono allontanarsi dal
territorio dello Stato, devono recarsi tutti i giorni alla polizia, hanno
l'obbligo di non allontanarsi dal territorio di uno specifico comune,
devono rientrare nel luogo in cui dimorano entro le 21 e non possono
riuscirvi prima delle 7 del mattino. La polizia giudiziaria deve vigilare
sul rispetto di questi obblighi (articoli 6 e 8);
5) passati 5 anni dalla concessione della sospensione, se tutte le
prescrizioni sono state costantemente osservate e non sono stati commessi
nuovi reati si estingue la pena.
Per capire se queste misure rappresentino un atto di clemenza si devono
confrontare con la situazione attuale dei detenuti. Il confronto mostra in
modo lampante che siamo di fronte ad un barbaro atto che rende il
reinserimento sociale dei detenuti ancora più impervio di quanto già non
sia.
Oggi il detenuto che ha una pena residua di tre anni (quattro se è
tossicodipendente ed intende disintossicarsi) può chiedere di andare in
affidamento. Quindi l'indultino non estende assolutamente il numero delle
persone che possono uscire dal carcere (anzi per richiedere l'affidamento
non è necessario aver scontato un quarto della pena). E' vero che
l'affidamento, seppure largamente utilizzato, lascia in carcere molte
persone perché richiede come requisiti per la sua concessione un luogo dove
soggiornare e un lavoro (anche se nella pratica talvolta la magistratura di
sorveglianza lo concede anche in presenza di un programma di attività di
volontariato sociale e di qualcuno che garantisca il sostentamento del
detenuto). Il problema è che il primo di questi requisiti, che è spesso
quello che preclude l'affidamento, è richiesto implicitamente anche
dall'indultino: quando si prevede l'obbligo di risiedere nella propria
dimora dalle 21 alle 7 è evidente che una dimora in cui si possa risiedere
deve esistere per la concessione della sospensione della pena. Per cui
questa misura non permetterebbe di uscire dal carcere a quei soggetti,
tossicodipendenti, sofferenti psichici e migranti irregolari (ma questi si
espellono ed il problema non si pone più!), che sono talmente deboli e
privi di aiuto da non riuscire ad usufruire dell'affidamento.
Il punto centrale non è però la scarsa incidenza dell'indultino ma la sua
logica perversa e repressiva. Chi va in affidamento oggi si vede dare delle
prescrizioni di solito meno afflittive di quelle previste per la
sospensione condizionale della pena, il controllo sulla loro osservanza è
affidato al Centro servizi sociali e non alla polizia, e la loro violazione
è valutata nel complessivo percorso di reinserimento del detenuto così che
normalmente una singola violazione non comporta la revoca della misura. Ci
sono due dati ancora più eclatanti. In primo luogo, in presenza di una
revoca della misura, dato che la libertà del soggetto è stata limitata
durante il periodo da questo trascorso in affidamento, il Tribunale di
sorveglianza valuta quale parte di questo periodo debba essere considerato
come pena scontata. Inoltre, una volta arrivato a fine pena, il detenuto
riacquista la sua piena libertà, la pena si estingue, la sua libertà non è
più sottoposta ad alcun vincolo e nessuna spada di Damocle di carcerazione
residua da scontare pende sulla sua testa se commette un nuovo reato.
Mentre secondo il fantomatico provvedimento di clemenza nel caso che venga
commesso un reato o semplicemente sia violata una prescrizione (per esempio
la polizia non abbia trovato il detenuto in casa alle 21 e 15) tutto il
periodo trascorso in  sospensione pena, e quindi assoggettato a durissime
limitazione della libertà personale, non ha alcun rilievo: la pena
ricomincia a decorrere dal momento in cui è stata sospesa. Ma non basta: se
il detenuto osserva le prescrizioni impostigli, la severissima limitazione
della libertà personale si protrae anche dopo che la pena è formalmente
scaduta. Si potrebbe verificare il caso assurdo di una persona che si vede
sospesa una pena di un anno di reclusione per essere assoggettato per 5
anni al controllo della polizia e a severe limitazioni della sua libertà.
Casomai dopo 4 anni e nove mesi, rientra in ritardo in casa, la polizia
casualmente è passata quel giorno a fare il controllo e quindi al detenuto,
che sarebbe una persona libera da 3 anni e nove mesi, viene imposto di fare
l'anno di carcere che era stato sospeso.
C'è un altro paradosso: dato che l'affidamento è una modalità alternativa
di esecuzione della pena, esso presuppone che la pena sia in esecuzione e
non sospesa. Per cui l'indultino, per quanto preveda un regime peggiore di
quello dell'affidamento, prevale su questo. Potremmo arrivare al caso
assurdo di un tossicodipendente da un anno in affidamento (potendogli
questo essere concesso a 4 anni dalla conclusione della pena) che si vede
sospendere la pena e revocare l'affidamento, venendo così sottoposto ad un
regime di limitazione della libertà molto peggiore.
Una parola sui migranti irregolari. Come è detto si prevede che entro un
mese dalla concessione della sospensione della pena questi debbano lasciare
il territorio dello Stato. E' facile immaginare che al momento della
concessione della sospensione i migranti irregolari saranno portati nei
cosiddetti Centri di permanenza temporanea, in realtà Centri di detenzione
secondo la classificazione ufficiale del Consiglio di Europa. Se in un mese
la loro espulsione non verrà effettuata saranno riportati in carcere dove
riprenderanno a scontare la loro pena, con l'unico risultato di essersi
fatti un mese in più di detenzione. Merita di essere sottolineato che la
tanto vituperata legge Bossi-Fini prevede l'espulsione, da effettuarsi su
iniziativa del magistrato di sorveglianza, dei migranti irregolari detenuti
(e quindi, è bene sottolinearlo, non di quelli con pena sospesa e neppure
di quelli in affidamento) a due anni dalla esecuzione della pena. Sembra
che il legislatore si sia reso conto che questa misura comporterà
l'espulsione di pochi migranti e cerchi un metodo più efficace per
allontanarli. Come spesso accade le vittime del sovraffollamento saranno i
soggetti più deboli: quei migranti che sono tanto disperati che
preferiscono restare in carcere in Italia, pur con la consapevolezza che
probabilmente a fine pena saranno espulsi, invece che ritornare subito al
loro paese.
L'unico aspetto clemenziale dell'indultino è che il detenuto può rinunciare
ad usufruirne!

Prof. Emilio Santoro
direttore de "L'altro diritto.
Centro di documentazione su carcere, marginalità e devianza"




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Roma, 4 dicembre 2002

Comunicato unitario firmato in presenza del Sottosegretario alla Giustizia
onorevole Michele Vietti

È passato quasi un mese dalle parole che il Papa ha pronunciato davanti a
tutti i parlamentari riuniti alla Camera dei Deputati. Parole nette e
inequivoche.
Il Pontefice ha parlato della necessità del recupero e del reinserimento
dei detenuti e di una riduzione delle pene.
Quelle parole sono state accolte da un forte, prolungato e corale applauso
dei parlamentari.
Quelle parole e quell'applauso hanno riacceso concrete speranze nella
popolazione detenuta. Speranze che non sarebbe giusto né saggio deludere
nuovamente.
Il sistema penitenziario, infatti, è in una situazione che non è esagerato
definire di pre-collasso. Noi conosciamo da vicino, dall'interno e
quotidianamente la drammaticità di tale situazione.
Per questo ci sentiamo di avanzare una richiesta di attenzione e di
concretezza a chi ha il potere, il dovere ma anche la necessità di dare
risposte legislative, a tutto il sistema penitenziario.
Occorrono misure concrete per contenere e sanare questa situazione, per far
fronte al disagio che riguarda sia i detenuti sia tutti gli operatori e in
modo particolare la polizia penitenziaria.
L'indulto è una precondizione necessaria, per avviare quelle misure
strutturali che andranno prese per garantire riconoscimento, formazione e
dignità professionale agli operatori tutti, nonché vivibilità nelle
carceri, anche quale condizione per il recupero e premessa per il
reinserimento sociale delle persone detenute.
Il nostro appello è che si facciano presto questi passi necessari, trovando
la coesione politica necessaria, e si apra così un percorso nuovo, dando
risposta alle legittime attese di chi vive e lavora nelle carceri e alle
parole del Papa, così come a quelle del Presidente della Repubblica Ciampi
sulla dignità delle persone recluse.

CISL-FPS-Giustizia (Paola Saraceni, Marco Mammuccari);
GGIL-FP (Fabrizio Rossetti);
UILPA-Penitenziari (Massimo Tesei);
SAPPe (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria - Donato Capece, Roberto
Martinelli, G.B. Durante);
Sergio Cusani
Sergio Segio




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A gennaio saranno discusse le proposte di legge sull'indulto
L'elemosina dell''"indultino"
Ai tempi del Giubileo ci fu un vivace dibattito a partire da progetti di
larga decarcerazione ma tutto finì nel nulla. Oggi è anche peggio, perché
si è iniziato con ipotesi minimaliste
di Sergio Segio
(da Fuoriluogo - supplemento mensile del quotidiano il manifesto, dicembre
2002)

"Carceri chiuse per Natale, i detenuti non usciranno". È il titolo di un
quotidiano, ma non si riferisce a queste feste. La notizia risale a 12 anni
fa. Correva il 1990. Un anno strano, a rileggerne le cronache politiche e
carcerarie.
Al governo c'era il solito pentapartito (Dc, Psi, Pri, Psdi, Pli) retto da
Giulio Andreotti, con Giuliano Vassalli al ministero della Giustizia.
L'anno si era aperto con una dichiarazione a favore della pena di morte di
Arnaldo Forlani, il segretario della Dc che sarebbe poi stato travolto da
Tangentopoli. Pochi mesi dopo il parlamento varava l'ultimo provvedimento
di amnistia e di indulto del secolo (DPR n. 75 del 12 aprile 1990,
concessione di amnistia e DPR n. 394 del 22 dicembre 1990, concessione di
indulto).
Ciò nonostante, quell'anno le vacanze di Natale andarono male per quasi
tutti i detenuti la cui possibilità di uscire in permesso, ovvero di fruire
della legge cosiddetta Gozzini, fu bloccata da un decreto
"anticriminalità", per giunta con effetto retroattivo, varato dal governo
il 13 novembre. Un caso evidente di schizofrenia del legislatore.
All'inizio di ottobre 1990, infatti, la Camera aveva approvato (149 voti a
favore e 27 voti contrari di missini, repubblicani e liberali) un indulto
di due anni, fatta eccezione per alcuni reati più gravi; per la prima
volta, grazie anche a un emendamento del Pci, ne beneficiarono anche i
condannati per la lotta armata, esclusi dai precedenti provvedimenti.
L'amnistia era già stata approvata definitivamente in aprile (135 voti a
favore, 12 astensioni di missini e radicali) e riguardava i reati con pene
sino a 4 anni. Il voto definitivo per l'indulto arrivò in Senato il 20
dicembre: 173 voti a favore, 8 contrari (Msi e Pri).
Contestualmente, il Senato iniziava la discussione per modificare
l'articolo 79 della Costituzione, ovvero il quorum necessario per
l'approvazione delle leggi di amnistia e indulto, al fine dichiarato di
rendere in futuro impraticabili nuove concessioni. Nel febbraio 1992 il
presidente del Consiglio Andreotti, dichiarava: "Basta con il garantismo
che protegge i delinquenti, basta con le amnistie". Infatti, di lì a poco,
il parlamento italiano avrebbe terminato l'iter e approvato la legge
costituzionale 6 marzo 1992, n. 1, che ha impedito nell'ultimo decennio
l'approvazione di nuovi provvedimenti deflativi. Il meccanismo introdotto
prevede infatti per le leggi di amnistia e indulto una maggioranza dei due
terzi per ogni singolo articolo e per il voto finale. Insomma, un quoziente
altissimo, inesistente per qualsiasi altra materia, comprese le stesse
modifiche costituzionali. La previsione di maggioranze talmente qualificate
ha sostanzialmente vanificato la norma prevista dalla Costituzione
all'articolo 79, pur mantenendola formalmente in vita in una sorta di
"ipocrisia costituzionale". Così infatti la definisce la relazione che
accompagna la proposta di legge n. 2750, presentata alla Camera
nell'attuale legislatura da Marco Boato e sottoscritta trasversalmente da
singoli deputati di varie forze politiche, della maggioranza e delle
opposizioni.
La proposta si compone di un unico e semplicissimo articolo che recita: "Il
primo comma dell'articolo 79 della Costituzione è sostituito dal seguente:
"L'amnistia e l'indulto sono concessi con legge deliberata a maggioranza
assoluta dei componenti di ciascuna Camera"".
Si tratta di una via maestra, onesta e trasparente, per rendere di nuovo
possibile e praticabile l'approvazione di provvedimenti deflativi.
Probabilmente per questa caratteristica - decisamente anomala per la vita
politico-parlamentare che predilige bizantinismi, scorciatoie se non
sotterfugi - ha avuto vita accidentata. La Lega, in modo particolare, ha
sbarrato ogni porta alla proposta di legge, che però è stata infine
licenziata positivamente dalla Commissione Giustizia e ora è all'esame
dell'Aula. Ma l'iter rimane decisamente difficile, oltre che
particolarmente lungo, trattandosi di modifica costituzionale.
Da quella improvvida legge ci separa ora un decennio. E gli effetti si
vedono tutti, scritti nelle statistiche carcerarie e incisi nella pelle dei
detenuti, ammassati uno sull'altro, con un esubero di 15.000 unità sui
posti disponibili nelle celle. Molti politici di allora si sono
probabilmente pentiti, sia di aver varato la legge costituzionale 1/92, sia
dei tanti decreti "anticriminalità" emanati e delle tante campagne
securitarie demagogicamente alimentate e risoltesi unicamente nel fatto di
riempire sempre di più le carceri di poveri e di esclusi.
Nell'anno del Giubileo ci fu un grande dibattito che partì dall'amnistia e
indulto, transitò dall'"indultino" e terminò, manco a dirlo, con un nulla
di fatto parlamentare. Questo giro pare partito peggio, direttamente dai
diminutivi. Quella che doveva essere l'ipotesi subordinata è stata da
subito posta sul tavolo come la soluzione preferibile, poiché in grado di
ovviare alla maggioranza dei 2/3. Si tratta della proposta di legge n. 3323
presentata alla Camera, cosiddetta Pisapia-Buemi, di nuovo impropriamente
definita indultino, poi affiancata dalla proposta n. 3386, d'iniziativa del
responsabile giustizia della Margherita, Giuseppe Fanfani, ancor più
limitativa poiché prevede una serie infinita di esclusioni.
I giochi sono ancora parzialmente aperti, ma è purtroppo facile essere
pessimisti e arrischiarsi a fare una previsione sulla ripresa dei lavori
parlamentari a gennaio. Alla linearità delle vie maestre, di un indulto
senza "se" e senza "ma" saranno preferite le scorciatoie, le mediazioni al
ribasso e magari qualche scambio. Speriamo, per una volta, di essere
smentiti dai fatti.





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La storia di Alì, padre detenuto a cui non serve un diminutivo

di Sergio Cusani e Sergio Segio

(da "La Repubblica" (Pagine di Milano) del 20 dicembre 2002)

Nessun massimalismo, ma un deciso invito alla chiarezza. Ne hanno diritto i
detenuti, le loro famiglie, gli operatori penitenziari e gli agenti, la
stessa opinione pubblica. A distanza di un mese dai lunghi applausi con cui
tutti i parlamentari hanno accolto la richiesta del Papa di "una riduzione
della pena", non c'è ancora una coerente conseguenza da parte delle forze
politiche. Qualcuno dice che non ci sono i numeri per approvare l'indulto.
I numeri, però, si contano e si misurano nelle Commissioni e nelle Aule
parlamentari. Non si misurano in base a estemporanee dichiarazioni. Noi non
sappiamo se ci siano i consensi sufficienti in parlamento per varare
l'indulto. Sappiamo però che non si può continuare a illudere i detenuti.
Nemmeno si può far torto alla loro intelligenza, spacciando per "indultino"
una misura di sospensione della pena, qual è quella in discussione alla
Commissione Giustizia della Camera. Una misura che si profila (specie se
verrà ulteriormente peggiorata dagli emendamenti annunciati) addirittura
più limitata delle norme già esistenti, delle misure alternative già
possibili. Norme e misure che non vengono applicate per vari e annosi
motivi: carenza di organici, rigidità interpretative dei tribunali,
sovraccarichi di lavoro. Allora il problema è applicare queste norme e
misure, ma senza confondere questa necessità con l'indulto.
Anche l'indulto è necessità urgente per ridare dignità e diritti a chi vive
nelle celle, e a chi lavora nelle carceri. Ma l'indulto è anche
precondizione per affrontare problemi e riforme più strutturali del sistema
penitenziario e di quello penale, che non possono essere affrontate se non
si riportano i numeri delle persone recluse (oltre 56.000 detenuti per
42.000 posti) a un livello decente e sopportabile dalle strutture.
L'indulto è la via maestra che ci pare doveroso verificare. Per davvero e
sino in fondo. Le forze politiche e i singoli parlamentari nella loro
libertà di coscienza si assumano la responsabilità di dire sì oppure no.
Con nettezza. In tempi brevi. Se sarà no, solo allora si pensino e si
verifichino soluzioni diverse.
Rovesciare questa metodologia, come è stato fatto in Commissione Giustizia
della Camera, non ci sembra né sensato né coerente con le necessità
dichiarate, che sono quelle di consentire un'uscita anticipata di un certo
numero di detenuti. Detenuti che non sono pericolosi criminali ma persone
che spesso hanno già scontato gran parte della pena o che sono in carcere
per reati di scarsa pericolosità. Come tante. Come Alì, tunisino recluso a
San Vittore per una condanna a 8 mesi. Ne ha già scontati 4. Alì è sposato
con una cittadina italiana, hanno una bambina di 8 anni, ora ricoverata per
leucemia mieloide acuta. Alì ha chiesto di uscire, per starle vicino,
eventualmente per donarle il midollo. Sinora gli hanno concesso solo un
permesso di 3 ore sotto scorta.
Un permessino. Le parole del Papa, i richiami di Ciampi, la dignità dei
reclusi avrebbero bisogno di risposte vere e piene. Non di diminutivi.

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Post Scriptum:

Alì Hichrì è uscito in permesso il 14/12/02, solo per 3 ore e sotto scorta.
Ma la bambina, come certifica una dichiarazione del medico curante
dell'ospedale, ha bisogno di un'assistenza continua da parte dei genitori,
e la madre è stata costretta, per questo, a lasciare il lavoro. Al 10
gennaio 2003 Alì aspettava ancora una risposta e la possibilità di uscire.
Il suo fine pena è sempre più vicino. Una giustizia dal volto umano,
invece, si allontana sempre di più.