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La Russia sprofonda nella palude cecena



La Russia sprofonda nella palude cecena
Da Le Monde

Le forze russe continueranno le operazioni in Cecenia «fino alla vittoria
totale contro il terrorismo, che impedisce il ritorno alla normalità nella
Repubblica», ha assicurato il 20 febbraio scorso il generale Vladimir
Moltenskoi, comandante in capo delle forze federali. Ma queste dichiarazioni
solenni non basteranno a tirare fuori Mosca dalla palude cecena: gli orrori
compiuti dalle truppe russe non hanno piegato la resistenza e al contempo
impediscono qualunque forma di collaborazione. In questa situazione di
stallo, non rimane che un'unica opzione: tornare al tavolo dei negoziati.

di Vicken Cheterian*
Un giorno come un altro in Cecenia. Una pattuglia militare russa si imbatte
in una mina. Diventa il bersaglio di raffiche di mitragliatrice e di
missili. Alcuni soldati cadono. I loro camion e i loro blindati sono in
fiamme. I combattenti ceceni si ritirano. Poche ore dopo i rinforzi russi
lanciano un'operazione di rastrellamento nei villaggi vicini. Arrestano
uomini e donne. Tra gli abitanti arrestati alcuni «scompaiono»; altri, per i
quali le famiglie pagano un riscatto, vengono liberati dopo essere stati
torturati.
Lanciata durante l'estate del 1999, l'operazione «antiterrorismo», che
secondo il governo russo sarebbe dovuta terminare nel marzo dell'anno
successivo, continua. Questa guerra di logoramento ha provocato la morte di
decine di migliaia di civili, distruzioni su vasta scala e ha spopolato la
repubblica caucasica. Secondo alcune fonti ufficiose, la popolazione sarebbe
passata da 1,2 milioni a 400.000 persone dall'epoca sovietica a oggi (1). Da
parte russa, le perdite hanno raggiunto un livello insostenibile (2). Il 17
settembre 2001 la distruzione di due elicotteri è costata la vita a due
generali e a otto colonnelli, mentre l'abbattimento di un altro elicottero
il 27 gennaio scorso ha provocato la morte di un viceministro degli Interni
russo, il generale Mikhail Rudchenko, e di tredici ufficiali di grado
elevato.
La Russia è presa in una trappola da cui i suoi dirigenti non sanno come
uscire.
Eppure, trattandosi di una guerra di logoramento, era abbastanza prevedibile
che si sarebbe arrivati ad una situazione senza vie di uscita. Nel 1999, il
nord del Caucaso rappresentava un concreto problema di sicurezza e la Russia
doveva necessariamente «fare qualcosa» in Cecenia. Indipendentemente dai
vari attentati contro abitazioni civili a Mosca e in altre città, che
peraltro alcuni attribuiscono ai servizi segreti russi, l'invasione del
Daghestan da parte di centinaia di ribelli, per lo più ceceni, richiedeva
una reazione. Ma cercare di risolvere il problema scartando tutti i mezzi
non militari e dichiarando una guerra totale ha rappresentato una vera e
propria assurdità.
E ha dimostrato ancora una volta che i dirigenti russi non conoscono la loro
storia - non hanno letto Lermontov o Tolstoj (3) - e non hanno quindi saputo
trarre insegnamento dal primo conflitto in Cecenia, tra il 1994 e il 1996.
Il «secondo» conflitto, si sente spesso dire, si inserirebbe nella lunga
serie di ostilità russo-cecene che risalirebbero a più di duecento anni fa.
Ma questa analisi è al tempo stesso sbagliata e pericolosa, perché introduce
una visione deterministica della storia che vorrebbe i russi e i ceceni in
guerra permanente tra loro. Nell'Ottocento la Russia non combatteva il
gruppo etnico dei ceceni: si opponeva a un fronte di resistenza dei popoli
caucasici, la cui figura emblematica era rappresentata dall'imam Shamil, un
ávaro originario del Daghestan.
Gli ávari hanno mantenuto lo stesso spirito combattivo dei ceceni, ma
all'inizio degli anni '90 non si sono ribellati a Mosca come questi ultimi.
Lo stesso discorso vale per gli altri popoli musulmani del Caucaso, i
cabardini, i circassi, gli ingusci e i lesghi. Anche la Cecenia avrebbe
potuto trovare una soluzione di compromesso con il nuovo potere a Mosca.
Anche la tesi russa secondo la quale la perdita della Cecenia provocherebbe
la dissoluzione della Federazione russa, sul modello dell'Unione Sovietica,
sembra ingiustificata. Dopo gli accordi conclusi tra le autorità federali e
il Tatarstan nel febbraio 1994, la Cecenia è ormai l'unico «soggetto» della
Federazione a rivendicare una piena sovranità (4). In realtà, ciò che mina
l'autorità della Russia nel Caucaso sono soprattutto le violazioni su vasta
scala dei diritti umani compiute da Mosca, insieme alla sua impotenza
militare e politica.
Un conflitto strumentalizzato In altre parole, un conflitto che si
cronicizza nel Caucaso non fa di certo gli interessi della Russia. Tuttavia,
per due volte in dieci anni, i dirigenti russi hanno cercato di
strumentalizzare la situazione esplosiva nel Caucaso settentrionale per
risolvere i problemi politici del Cremlino. L'invasione del dicembre 1994
era stata decisa per aumentare le possibilità di vittoria di Boris Eltsin
alle elezioni del 1996. Allo stesso modo, nel 1999 il conflitto ha
contribuito a fornire una base popolare a un politico sconosciuto, Vladimir
Putin.
L'invasione del Daghestan da parte delle forze cecene - sotto il comando del
celebre capo Shamil Basaev e del suo alleato, il giordano di tendenza
wahhabita Habib Abd Ar-Rahman Khattab - rappresentava indubbiamente una
seria minaccia. Tuttavia, rispondendo con una guerra totale, la Russia ha
scelto di fatto di non affrontare i problemi del Caucaso settentrionale.
In questo modo i generali russi hanno ignorato del tutto l'esperienza della
loro sconfitta del 1996, pensando di nuovo di poter sconfiggere la
resistenza cecena aumentando il numero di mezzi militari nel paese: dai
35.000 soldati inviati in Cecenia nel 1994 sono passati ai 90.000 del 1999,
l'equivalente del corpo di spedizione sovietico in Afghanistan.
Le autorità si sono anche impegnate a mettere a tacere le critiche dei
media. Dopo «la presa di controllo» della rete indipendente Ntv, che aveva
descritto il conflitto precedente in modo critico, e l'acquisto da parte del
gigante del gas Gazprom del settimanale Itogui, un nuovo scandalo ha colpito
la libertà di stampa a Mosca: un tribunale ha ordinato la chiusura di Tv6,
l'ultima rete televisiva nazionale a sfuggire al controllo del Cremlino (5).
I generali russi si sono mostrati arroganti anche nei confronti delle
divisioni tra ceceni. È vero che la Cecenia conosceva una situazione di
guerra civile nel 1999; ma come dimenticare che, nell'autunno 1994, la
repubblica caucasica si trovava nella stessa situazione - l'autorità del
presidente Jokhar Dudaiev non andava oltre il perimetro del palazzo
presidenziale - e che ciò non aveva comunque impedito ai ceceni, memori
delle deportazioni di massa del 1944, di ignorare le loro divisioni per fare
fronte comune contro l'invasore? La campagna «antiterrorismo» non è riuscita
neppure a neutralizzare i principali capi della resistenza cecena. Bassaev e
Khattab continuano a condurre operazioni militari contro le truppe russe. E
se i russi sono riusciti ad ottenere l'appoggio dell'ex muftì della Cecenia
Ahmad Kadyrov, il loro tentativo di organizzare un'amministrazione locale ha
poche possibilità di riuscita. Un «governo» guidato da quest'ultimo,
contrario all'islam «wahhabita» e sostenitore della tradizione tariqat sufi,
non sopravviverebbe a un ritiro militare russo. L'ex muftì è stato del resto
al centro di diversi attentati e il suo braccio destro, Adam Deniev, è morto
in seguito a un attentato dinamitardo degli indipendentisti nell'aprile
2001.
Per i ceceni gli orrori compiuti dall'esercito russo sono sufficienti a
ritenere illegittima qualunque collaborazione con Mosca. Non siamo più nel
1999, quando l'opinione pubblica cecena, stanca degli anni di caos e di
conflitti, oltre che del dominio dei signori della guerra, avrebbe
favorevolmente accolto qualunque tentativo di stabilizzazione, anche di
origine russa. A quanto pare, però, l'opinione pubblica cecena non rientra
nei calcoli dei responsabili russi. Ci si chiede infatti come la Russia
possa pretendere che i ceceni siano cittadini della Federazione quando il
suo esercito sul posto si comporta da forza occupante...
Se il rumore delle armi ha inizialmente favorito il ricambio alla testa
dello stato russo, la continuazione del conflitto assume un aspetto
angosciante e ricorda in permanenza la debolezza della Russia.
Mosca avrebbe quindi tutto l'interesse a porvi fine. Un primo incontro fra
Ahmed Zakaev, rappresentante del presidente ceceno Aslan Maskhadov (6), e
Viktor Kazantsev, rappresentante del presidente russo Vladimir Putin,
all'aeroporto di Mosca il 18 dicembre 2001, si è concluso con un nulla di
fatto; e nonostante i rigori dell'inverno le operazioni militari si sono
intensificate. I negoziati dovranno necessariamente affrontare le delicate
questioni della rappresentanza politica, del controllo militare nella
repubblica caucasica, in particolare il disarmo delle truppe ribelli o la
loro incorporazione nelle forze di polizia locale e del ritiro dell'esercito
russo. La spinosa questione dello status politico della Cecenia, anche se
nel corso di un accordo iniziale potrà essere messa da parte, dovrà in
futuro necessariamente essere oggetto di un'intesa di principio.
La storia si ripete Secondo alcune fonti russe il presidente Putin ha posto
due condizioni preliminari ai negoziati con il collega ceceno Maskhadov: «il
disarmo e una trattativa per il ritorno alla pace» (7). Da parte sua
Maskhadov ha dichiarato di essere pronto a negoziare con Mosca e si è
separato dai capi ceceni sostenitori di una linea più dura - «attaccando il
Daghestan, Basaev ha provocato la guerra con la Russia»Ê - ha affermato alla
radio tedesca Deutsche Welle. Lo spirito guerriero dei ceceni ha permesso
loro di ottenere importanti vittorie su una potenza molto superiore, ma ha
provocato al tempo stesso gravi tragedie per il loro popolo. La resistenza
del 1994-1996 non ha mai portato alla creazione di un comando integrato e
unificato. Per questo motivo diversi signori della guerra hanno potuto
imporre la loro legge, provocando un'instabilità permanente che ha portato
la Cecenia nel caos: dal ritiro russo del 1996 al 1999 la repubblica - di
fatto indipendente - ha rappresentato uno stato in piena crisi (8). Le sole
attività economiche del paese erano illecite se non criminali: industria del
rapimento a scopo di estorsione, traffico di armi o contrabbando del
petrolio trasportato dall'oleodotto Baku-Novorossisk.
Desideroso di evitare una guerra civile e incurante delle intenzioni dei
russi, il presidente Maskhadov non ha neanche cercato di tenere testa ai
vari gruppi armati rivoluzionari wahhabiti e alle altre bande criminali (9).
Dopo tanti anni di sommosse e di guerre i ceceni speravano soprattutto in
una normalizzazione, ma questa indipendenza con un presidente senza poteri e
con dei signori della guerra che dettano legge li ha profondamente delusi.
Se nel 1994-1996 la resistenza cecena si batteva per l'indipendenza
nazionale, oggi è più un rifiuto dell'invasione russa che una lotta per un
obiettivo politico.
La guerra «contro il terrorismo» condotta dagli Stati uniti mette la Russia
in una posizione ancora più difficile. Certo, il presidente Putin si sforza
di mettere sullo stesso piano la guerra in Cecenia e l'offensiva americana,
insistendo sui legami tra al Qaeda e la fazione islamica della resistenza
cecena. Tuttavia, il Cremlino sa bene che, una volta conclusa la campagna in
Afghanistan, un nuovo rapporto di forze geopolitico nascerà nel «ventre
molle» dell'Asia centrale. Tutto ciò ha provocato una situazione
particolarmente delicata nel Caucaso (10). Nonostante il silenzio
presidenziale, alcuni uomini politici russi sono apertamente contrari a una
presenza stabile di forze americane in Asia centrale, mentre i media parlano
di una possibile rinascita della rivalità russo-americana in Transcaucasia.
Come ha affermato un esperto, la luna di miele tra le due grandi potenze è
ormai terminata (11).
Aumentano quindi le pressioni per spingere Mosca a mettere fine alla guerra.
Non solo il conflitto provoca perdite enormi, ma ha paralizzato la riforma
militare promessa dal capo dello stato russo. Inoltre assorbe tutte le
risorse militari della Russia. L'unica soluzione per Mosca consiste
nell'effettuare un nuovo ritiro militare. Ma questa politica è un arma a
doppio taglio: lasciata nel caos e nell'incertezza, la Cecenia del
dopoguerra rischia infatti di ritrovarsi nella stessa situazione che aveva
preceduto il conflitto, per non parlare dell'umiliazione che subirebbe un
presidente russo che aveva fatto della vittoria militare il cavallo di
battaglia della sua campagna elettorale. Nell'ultimo decennio, nonostante i
limiti evidenti della loro scelta militare, i dirigenti russi non sono mai
stati in grado di elaborare alcuna politica alternativa per la Cecenia. Un
ritiro militare sembra l'unica soluzione per fermare il bagno di sangue: tra
strategie imperiali russe e spirito guerriero ceceno, nel Caucaso la storia
continua a ripetersi.



note:

* Giornalista, Erevan.

(1) Secondo Human Rights Watch, in Cecenia 260.000 persone sono state
sfollate e 170.000 si sono rifugiate in Inguscezia. Si veda
http://www.hrw.org/campaigns/russia/chechnya/

(2) Secondo alcune fonti russe citate dalla Neue Zürcher Zeitung del 3-4
novembre 2001, l'intervento militare russo del 1999 in Cecenia ha fatto
15.000 vittime tra i combattenti, cioè 3.438 soldati russi e 11.000 ribelli
ceceni. Queste fonti non parlano delle perdite civili.

(3) Cfr. Un eroe del nostro tempo di Mikhail Lermontov, (Garzanti, 1992) e I
cosacchi, di Leon Tolstoj (Garzanti, 1996) che riflettono la resistenza dei
ceceni, dei circassi e di altri popoli del Caucaso all'espansione russa.

(4) Per un confronto tra il Tatarstan e la Cecenia si legga «La voie étroite
du Tatarstan» Le Monde diplomatique, settembre 1995.

(5) Ntv e Itogui appartenevano all'oligarca Vladimir Gusinski, Tv6 a Boris
Berezovski.

(6) Eletto nel 1997 sotto la supervisione dell'Organizzazione per la
sicurezza e la cooperazione in Europa.

(7) Nezavisimaya Gazeta, Mosca, 17 gennaio 2001
(8) Si legga Isabelle Astigarraga, «Cecenia, cronaca di tre anni caotici»,
Le Monde diplomatique/il manifesto, marzo 2000.

(9) Si legga l'intervista al presidente Aslan Maskhadov in Chienne de
guerre, di Anne Nivat, Parigi, Fayard, 2000.
(10) Si legga Gilbert Achcar, «Gioco triangolare tra Washington, Mosca e
Pechino», in Le Monde diplomatique/il manifesto, dicembre 2001.

(11) Pavel Felgenhauer, «U.S. is a Demanding Spouse», in Moscow Times, 24
gennaio 2002.
(Traduzione di A. D. R.)