[Date Prev][Date Next][Thread Prev][Thread Next][Date Index][Thread Index]

Iniziativa pro rifugiati.



Title: Iniziativa pro rifugiati.


Dal 1987, anno della sua fondazione,  il NAGA,  l'Associazione Volontaria che opera nel campo  dell'assistenza sociosanitaria e per i diritti di stranieri e nomadi, si occupa di una speciale categoria d'immigrati, i richiedenti asilo politico e i rifugiati, costituita da chi non ha abbandonato volontariamente il proprio paese ma é stato costretto a farlo.

E proprio raccogliendo le loro testimonianze, e piu' ancora costatando  segni evidenti di violenze fisiche e mentali, medici, psicologi, fisioterapisti, assistenti sociali che ogni giorno prestano la loro opera negli ambulatori del gruppo, sono venuti a contatto con una realtà drammatica: la tortura, sistematica violazione di alcuni tra i piu' fondamentali diritti umani.

Nel 1995, all'interno del Naga, é stato così costituito il Gruppo Rifugiati: un punto di riferimento, d'assistenza e d'incontro tra tutti coloro che si trovano nell'impossibilità di rientrare nel loro paese a causa di idee politiche, convinzioni religiose o appartenenza a determinati gruppi etnici e sociali.

Punto di riferimento altresì per denunciare la pratica della tortura, proibita a livello internazionale con la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'uomo del 1948 e in Italia dalla stessa Costituzione ma ancora praticata in modo sistematico in piu' di 70 paesi.

Tra gli obiettivi del Gruppo Rifugiati c'era anche quello di creare spazi dove le vittime di tortura, spesso distrutte moralmente e fisicamente, possano essere aiutate a riconquistare una vita normale, nella speranza di realizzare in Italia un centro di riabilitazione che sappia rispondere alle richieste di aiuto di chi ha bisogno di curare i danni fisici e psicologici delle violenze subite.

Dopo questi tre anni in cui il gruppo Rifugiati Politici ha lavorato principalmente in funzione di questo  progetto,  con l'aiuto della Fondazione Ravasi,  é nato
HAR -   Centro per l'accoglienza dei rifugiati politici vittime delle violazioni dei diritti umani - che il giorno 24 febbraio 2001 ha inaugurato la sua sede di Milano, in Via Grigna, 24.

Il termine HAR - che in India e Pakistan indica la collana di fiori che viene messa al collo di amici e festeggiati come  segno di ospitalità - nella lingua inglese origina la parola harbour (porto, luogo di approdo). In russo, infine, har significa soggetto a certificazione, il che nel caso dei profughi e dei richiedenti asilo politico, il cui stato deve essere certificato da un'apposita commissione, é particolarmente pertinente.

Un luogo di approdo, dunque, un porto sicuro in cui trovare rifugio dalle paure che ogni fuga obbligata comporta e dalle difficoltà di un arrivo  senza accoglienza: l'Italia,  paese che  occupa , per posizione e conformazione geografica, un posto privilegiato tra i paesi di primo arrivo, nel periodo (spesso anche di  12 mesi)  intercorrente tra larrivo e il riconoscimento dello status di rifugiato  lascia i richiedenti asilo (a parte un primo sostegno di 45 giorni da parte delle Prefetture) del tutto scoperti di una qualsiasi assistenza.


Il centro HAR occupa uno spazio di  circa 170 mq. utilizzati per una sala di soggiorno e incontro attrezzata con televisore, videoregistratore, cassette in lingua originale, un ambulatorio medico/fisioterapico, una stanza  per colloqui/consulenza, un locale attrezzato per postazioni computer, proiezione filmati, biblioteca fornita di giornali, riviste e libri in lingua originale, e  sarà inizialmente aperto dal martedÏ al venerdi (ore 14 - 18
02 3925466)
ad un numero variabile di circa 40 ospiti, che potrebbero accedere su appuntamento ai servizi di  consulenza ed usufruire liberamente dei locali e delle attivitý svolte.

Lo scopo di questo luogo é di

1) offrire un luogo che  consenta ai beneficiari di avere a disposizione personale qualificato (in collaborazione con il poliambulatorio NAGA) per la  consulenza medica, psicologica, psichiatrica e fisioterapica e di fruire di  interventi riabilitativi e terapeutici  al fine  di rielaborare, attraverso il dialogo e il supporto, la propria "storia" e  recuperare le risorse personali compromesse dagli  eventi tragici e traumatici subiti

2) garantire sia un'assistenza di tipo legale che consenta la conoscenza dei diritti riguardanti lo statuto di rifugiato politico, che un aiuto operativo ai richiedenti asilo nella prassi  richiesta per l'accoglimento della domanda, favorendo anche l'approfondimento dei temi legati alle pratiche di tortura, persecuzione e discriminazione,  e la  produzione di materiale utile per la denuncia  dei casi di violazione dei diritti umani

3) promuovere interventi di formazione  di tipo professionale, culturale e ricreativa attraverso i servizi e le attività proposte nei locali, quali l'apprendimento della lingua e della cultura italiana, lutilizzo di  unemeroteca e di una  biblioteca per svolgere studi e ricerche tematiche relative ai paesi di origine, laddestramento  all'utilizzo di strumenti informatici (computer, Internet.) al fine di favorire il progressivo inserimento sociale e culturale

4)raccogliere dati e informazioni riguardanti il problema dei rifugiati politici e, piu' in generale, quello delle violazioni dei diritti umani con l'obiettivo di promuovere una politica di sensibilizzazione e denuncia delle pratiche di tortura diffuse nei vari paesi del mondo, e di favorire la collaborazione, attraverso lo scambio delle informazioni e del know how elaborato, con gli organismi nazionali e internazionali con gli altri centri dedicati alle vittime della tortura,  mettendo in rete  iniziative e progetti

5) monitorare la situazione dei rifugiati politici  e i loro bisogni raccogliendo le schede compilate dal personale medico e  dai volontari che attestano le presenze (quantità di persone che hanno frequentato il centro, loro provenienza, tempo di permanenza a Milano, età, sesso, ecc.)e  i tipi di servizio di cui gli ospiti hanno usufruito, e  indagando  per mezzo di questionari e di interviste aperte agli ospiti le eventuali richieste in modo da introdurre le possibili modificazioni delle attività



HAR:  ancora due parole

Se la parola "asilo" vuol dire "senza violenza", se la parola "rifugiato" implica il concetto di "riparo", HAR deve essere un riparo, un luogo di non-violenza, ma nello stesso tempo deve anche essere un luogo della "voce" , e quindi dell'ascolto.
L'obiettivo della tortura é quello di soffocare la voce, quindi dando voce ai torturati  vogliamo dar loro la possibilità di legittimare la propria esistenza , di trovare la fiducia nei propri ricordi. Perché nulla venga dimenticato o sia stato inutile, perché la loro storia possa servire a destare l'attenzione e a  denunciare i popoli che a tutt'oggi usano la tortura come mezzo di potere.

Ciononostante vogliamo evitare il  rischio che chiunque, nel momento in cui venga riconosciuto rifugiato o che  gli si chieda di testimoniare la propria esperienza di torturato, rimanga chiuso all'interno di questa etichetta, di quest'identità magari temporaneamente  funzionale (dato che non  ne possiede un'altra, neanche giuridica) ma comunque parziale.
E' importante invece aiutarlo a recuperare e valorizzare le sue diverse identità, i fatti del suo passato, i suoi bisogni e le sue capacitý, le sue "parti sane": l'essere profughi é un evento della vita ma lidentità é qualcosa di estremamente piu' complesso che per essere ricomposto necessita di un tessuto piu' ampio.
E HAR vuole offrire un "contesto" in cui egli possa ricostruire insieme ad altre persone la propria identità, un ambiente in cui  trovare, in una condizione di autonomia,  i tempi e  i modi per riproporsi.
L'esperienza in generale degli immigrati é segnata dal bisogno di sfuggire a un profilo che li voglia identificare solo come emigranti senza appartenenza, esuli del  paese nativo alle prese con la nostalgia. E l'identità del rifugiato, del torturato ha una dimensione talmente grande nel suo carico di angoscia che rischia di schiacciare le altre identità e di rallentare l'evoluzione stessa della sua storia individuale.

Anche se tra noi ci sono molti medici, e noi offriremo anche un'assistenza clinica, HAR non vuole avere un carattere medicalizzante. Il rifugiato non sarà considerato un malato da curare: vogliamo sottrarci alla tentazione tecnicistica di considerare la malattia solo il fatto di una persona, il dolore un fatto individuale, e quindi di curare il paziente dal trauma passato  tagliando tutto il contesto presente di questa persona.
Dimenticando che nel presente ci sono tanti altri traumi che si accumulano e che distruggono una persona  anziché rafforzarne una possibile ricostruzione: tante cose anche piccole quando  sono scontate, ma umanamente insopportabili quando mancano. L'obbligo di dover lasciare un edificio alle 8 del mattino e rientrare solo alle 8 di sera, il fatto di non avere un luogo nel quale stare: cose di per sè disumane e per le quali non si puo' trovare alcun  senso.
E il senso di HAR vuole essere invece quello di uno spazio ad appannaggio, e per quanto possibile anche gestito,  dagli stessi soggetti, rifugiati e richiedenti asilo.    




Ordalia: pratica giudiziaria con valore probatorio
consistente in una prova umanamente impossibile da superare
tramite il fuoco, l'acqua o altri mezzi,
usata nel medioevo.
E tuttora da alcune società primitive.

Lordalia di Davide, una storia recente

Il 23 marzo 1999 si  presenta negli uffici del Naga un giovane di  23 anni, della Sierra Leone, che qui chiameremo Davide.
Su segnalazione degli agenti della Questura richiedeva assistenza per la presentazione della domanda di rifugiato politico. Era in Italia dai primi di marzo e aveva già avuto contatti con la Caritas di Milano, che gli aveva indicato un centro dove andare a dormire.

La prima visita medica generale ha permesso di riscontrare numerose cicatrici in tutto il corpo, alcune chiaramente dovute a bruciature, altre sugli arti superiori probabilmente dovute a sfregature prolungate, esercitate con notevole pressione, come da corde. Presenta inoltre un'ernia inguinale la cui origine potrebbe essere uno sforzo prolungato e reiterato nel tempo, collegato al sollevamento di carichi pesanti.
Il racconto di Davide é preciso, il suo linguaggio (parla inglese e francese) corretto.
Proviene da una famiglia di un certo livello culturale: sua madre era maestra elementare, il padre ufficiale dell'esercito. Ecco il racconto della cattura, avvenuta in un campo militare della Sierra Leone al cui interno la famiglia abitava, e della prigionia durata 5 mesi e 27 giorni.

"Nel settembre 1998 stavo dormendo quando sono stato svegliato nel sonno da un uomo mascherato che mi puntava contro un'arma. In casa c'era molta confusione. Sentivo mia madre e mia sorella gridare, credo che fossero in tutto sei uomini e tutti erano coperti da una maschera che lasciava intravedere solo gli occhi e la bocca. Io e mio padre siamo stati bendati e con le mani legate dietro la schiena, trascinati fuori e portati in carcere.

Da quel momento non ho piu' avuto notizie di mia madre e mia sorella e attualmente non so se siano vive o morte. Ho saputo che la mia casa Ë stata abbattuta e incendiata.
In prigione io e mio padre siamo stati separati. La cella era stretta e piccola, priva di finestre: allargando le braccia riuscivo a toccare le pareti; era molto buia e a stento potevo vedere gli uomini che erano come me. In media potevano essercene trenta o quaranta, il numero variava di giorno in giorno. Mi rendevo conto se era giorno o notte soltanto quando venivo portato fuori della cella.

All'interno c'era un'unica latrina, era in piena vista e non veniva mai pulita. Mangiavamo una sola volta al giorno: il pasto era costituito da una porzione piccolissima di patate... Nella cella c'era anche un secchio d'acqua che doveva bastare per tutti ma dal quale riuscivano a bere soltanto i prigionieri piu' forti.

Ogni giorno subivo violenze e torture: mi legavano mani e piedi e mi sollevavano con una corda per le ascelle. Poi mi colpivano per tutto il corpo con pugni e calci, mi conficcavano aghi nei genitali. Altre volte riempivano un sacco di sabbia, ghiaia e cemento, credo potesse pesare 40 chili circa, poi me lo facevano sollevare in alto e dovevo restare in equilibrio su una gamba mentre le guardie mi colpivano.
Altre volte mi frustavano la schiena con una corda di pelle che aveva dei nodi per tutta la sua lunghezza oppure mi spegnevano le sigarette sulle gambe. Quando mi portavano in cella se chiedevo dell'acqua mi rispondevano di bere le mie urine.

Un giorno, penso fossero passati circa due mesi, ho sentito mio padre urlare da una cella vicina e dei colpi di arma da fuoco. Poco dopo le guardie mi hanno trasferito in una cella priva di finestre, talmente piccola che potevo solo sedermi ma non stendermi. Poi mi hanno fatto vedere il corpo martoriato di mio padre e hanno minacciato di uccidermi se avessi mai raccontato quello che stavo subendo.

La notte mi prelevavano e mi portavano in un'altra stanza. Qui mi legavano con delle corde mani e piedi ai quattro estremi di uno strumento dotato di ruote che le guardie facevano girare in senso orario cosÏ da "tirare" il mio corpo. Ogni cinque giorni ero costretto ad assistere a tre o quattro esecuzioni, quindi mi veniva ordinato di pulire il sangue delle vittime.Infine qualcuno ha pagato le guardie perché mi affidassero il compito di seppellire quattro uomini appena giustiziati.
          Ho approfittato di quell'occasione per fuggire: era il 22 febbraio del 1999; ero rimasto in carcere 5 mesi e 27
       giorni."