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Materiali per la campagna libertà per Leyla Zana



In continuità con l'iniziativa di sabato 20 gennaio 2001, tenutasi a
Milano, per la libertà di Leyla Zana e del popolo Kurdo, vi inviamo in
allegato l'introduzione molto chiara di Silana Barbieri (che inquadra la
vicenda) e il bellissimo intervento di Silvia Vegetti Finzi (che purtroppo
non è potuta essere presente all'iniziativa).


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ASSOCIAZIONE CULTURALE PUNTO ROSSO
LIBERA UNIVERSITA' POPOLARE
FORUM MONDIALE DELLE ALTERNATIVE
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20123 MILANO
TEL. 02-874324/72006264/72016641 FAX 02-875045
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http://www.puntorosso.it



PER LEYLA ZANA

INTRODUZIONE DI SILVANA BARBIERI

La storia di Leyla Zana è probabilmente nota a tutti in questa sala. E'
una storia che si può sintetizzare in poche parole. Leyla è una donna
curda, nata in una cittadina nel Kurdistan turco occupato militarmente
dai generali di Ankara, che nel corso degli anni ha preso coscienza
della terribile condizione sua e del suo popolo. E che ha iniziato a
studiare e a far politica fino ad essere eletta al parlamento turco,
prima donna curda ad avere questa carica.

Ma la sua esperienza all'Assemblea nazionale è durata ben poco, il tempo
di giurare fedeltà alla repubblica anche nella sua lingua materna, il
curdo appunto, e di essere arrestata. Come tutti voi immagino sappiate,
Leyla è in carcere da quel giorno, l'8 dicembre del 1994. Oggi, ormai
quarantenne, madre di due figli che vivono in esilio al di fuori della
Turchia, Leyla è divenuta un simbolo per le migliaia, anzi i milioni di
curdi oppressi in Turchia e negli Stati vicini, molti dei quali soffrono
in carcere, o in carcere sono già morti. Ma è anche diventata un simbolo
per tutti quelli che, nel mondo, credono e lottano per la libertà, la
pace e il rispetto dei diritti umani.

L'idea di organizzare qui a Milano questa giornata  dedicata a Leyla
Zana e al suo  popolo ha iniziato a prender forma lo scorso febbraio, in
occasione di un incontro internazionale di solidarietà organizzato da
un'associazione di donne curde e turche di Istanbul, che si chiama
Digle, ovvero fiume Tigri.

Le donne di Digle avevano invitato alcune compagne del Punto Rosso,
la nostra associazione, impegnata da sempre in iniziative di solidarietà
con le popolazioni oppresse, così come altre rappresentanti di
associazioni europee ad un'iniziativa per una pace democratica in
Turchia.

Arrivate ad Istanbul, tutte noi abbiamo saputo che la riunione, che
doveva tenersi pubblicamente all'Università, non era stata autorizzata
dalle autorità turche, un fatto che non ha sorpreso nessuno. Ma
l'incontro con le donne di Dicle e di altre associazioni c'è stato
comunque, in forma più riservata e per due giorni abbiamo ascoltato le
loro testimonianze.

Queste donne ci hanno parlato della estrema brutalità della
repressione di stato nel Kurdistan turco, di come e quanto essa colpisca
soprattutto i bambini e le stesse donne, attraverso lo stupro
sistematico da parte dei repubblichini locali, le cosiddette Guardie del
Villaggio, e da parte delle forze di repressione, esercito e polizia turca.
Ci hanno raccontato come in seguito al terrore che impera nelle zone
curde, in seguito alle deportazioni, alla fame, alla distruzione di
oltre seimila villaggi, la maggior parte dei curdi abbia dovuto lasciare
la propria terra per scappare verso le periferie delle grandi città.


Rimanemmo, io e le altre compagne europee, molto colpite dal coraggio,
dalla lucidità e dall'efficienza delle donne di Digle. Personalmente sono
rimasta molto colpita dalla figura di una ragazza di 19 anni. le ho chiesto
esplicitamente perché lavorasse per il partito dello Adep. Lei serenamente
mi ha risposto che la polizia a Istanbul sistematicamente compie delle
retate nei quartieri con popolazione curda. In una di queste retate, e
aveva 15 anni, è stata arrestata, trattenuta in carcere una settimana
durante la quale è stata violentata. Quando è uscita questa ragazza pensava
di avere solo due alternative: o suicidarsi o prendere il fucile e andare
in montagna. Fuori dal carcere però ha trovato le psicologhe dello Adep che
l'hanno aiutata a superare questo terribile trauma. Così lei è diventata
una militante. Una vittima che aiuta altre vittime a ritrovare una ragione
per vivere con dignità.
Tutte queste donne svolgono un grandissimo lavoro di massa.
Alcune di loro si occupano della prima accoglienza dei profughi dal
Kurdistan, che arrivano spesso senza documenti ne' denaro, ignari della
legislazione e
del tutto indifesi rispetto alle brutalità della polizia.

Un altro gruppo si occupa dell'alfabetizzazione delle donne e insegna ai più
piccoli il curdo, perché assieme alla lingua non vadano perse la storia
e la cultura di questo popolo.

Altre, soprattutto giuriste, aiutano le famiglie che hanno guai con
l'apparato repressivo turco. Si calcola che in Turchia ci siano
quarantamila prigionieri politici, in gran parte curdi, assieme a molti
democratici turchi.

Un altro gruppo di psicologhe svolge un lavoro di sostegno alle donne che
hanno subito violenza, torture, stupri. Per queste donne (si stima che
almeno in tremila siano state stuprate) Dicle vorrebbe anche aprire una
casa di accoglienza ma gliene mancano i mezzi. E quindi, faccio presente,
chi volesse sottoscrivere per questa casa, può farlo ai banchi qui fuori.

A Istanbul abbiamo poi incontrato le Madri del Sabato, un'associazione di
madri di persone scomparse che prima dell'arresto del Presidente del PKK
Ocalan, manifestavano ogni sabato nella piazza Galatasaray, nonostante
venissero regolarmente picchiate dalla polizia o dai Lupi Grigi,  e
fossero spesso arrestate. Dopo l'arresto di Ocalan le è proibito di
manifestare.

Ma al di là delle organizzazioni, ogni donna e ragazza curda in Turchia
ha una storia di violenza fisica e psicologica alle spalle, e lo stesso
vale per molte compagne turche che appoggiano le rivendicazioni dei
curdi o lottano pacificamente per il rispetto della democrazia e dei
diritti umani nel loro paese. Tutte queste donne, quelle che abbiamo
incontrato almeno, parlano della loro situazione senza vittimismi ma con
molta determinazione, dignità e voglia di vivere. E tutte loro, potremmo dire,
sono altrettante Leyle Zana, migliaia di Leyle Zana, che riconoscono
infatti in questa donna il simbolo della loro lotta, non violenta e
democratica, la rappresentazione della loro sofferenza e del loro
coraggio.

Ma Leyla Zana dev'essere un simbolo e un  riferimento anche al di fuori
della Turchia, anche in paesi dove la democrazia e l'eguaglianza non
sono ignorate, non del tutto almeno.

In particolare, questo vale per noi europei, perché la Turchia -
dobbiamo averlo ben presente - è un paese europeo e tra i paesi europei è
l'ultimo ad avere ancora oggi un governo autoritario e fascista. E
allora vi chiedo: come possiamo pensare di combattere seriamente ed
efficacemente il rigurgito fascista e razzista oggi in Europa, le
campagne che quotidianamente indicano negli albanesi o nei marocchini la
minaccia alla nostra tranquillità di vita, senza affrontare a viso
aperto il problema della Turchia? Senza fare il possibile per arrivare
all'affermazione reale della democrazia in Turchia?
Questa civilissima Europa si è subito allarmata per il pericolo Haider, e
giustamente. Ma Haider finora non ha ammazzato o violentato nessuno.
Abbiamo in Europa chi uccide e violenta sistematicamente. Tutti abbiamo
visto cosa sono le carceri in Turchia. E' la barbarie legalizzata e coperta
dal silenzio dei governi e dei media europei. Non occorre molto per
affermare che la Turchia gode di una specie d'impunità.

Pertanto c'è da cancellare la vergogna e l'infamia delle complicità delle
istituzioni
europee con il potere turco, la vergogna delle forniture d'armi ai
generali di Ankara, dei lauti affari compiuti dalle varie confindustrie
europee in quella che è una delle maggiori tangentopoli dei nostri
giorni, poiché non c'è affare europeo in Turchia che non richieda fior
di tangenti a politici e a militari. C'è soprattutto da vigilare
perché il processo di adesione all'Unione Europea da parte di Ankara
avvenga solo quando la democrazia e il rispetto dei più elementari diritti
umani
diventeranno una realtà in questo paese.

Leyla Zana così scriveva al Parlamento Europeo quand'esso le conferì -
nel '96 - il Premio Zakharov: "Spero di non dover perdere mai la
fiducia. Nel fatto che il Parlamento Europeo non valuterà l'ingresso
della Turchia solo in base alla sua posizione geografica e strategica ed
al suo mercato di sessantacinque milioni di abitanti".

Una speranza che abbiamo anche noi, ma che sappiamo bene come debba
essere accompagnata da iniziative concrete perché non resti solo un
sogno. Così, quando siamo tornate da Istanbul abbiamo sentito che
dovevamo fare il possibile perché in Italia e in Europa si rompessero le
cortine della disinformazione e del silenzio sulla repressione in
Turchia del popolo curdo. Così è nata l'idea di un appello di donne per
la libertà di Leyla Zana e così è nata questa nostra iniziativa.

Vorremmo inoltre dare un seguito a quest'assemblea, premendo sulle
smemorate e svagate istituzioni italiane ed europee, perché prendano
finalmente iniziative nei confronti del governo turco. Sarebbe
importante, poi, costituire una delegazione di firmatarie dell'appello
che si rechi in Turchia e tenti di incontrare in carcere Leyla Zana.

Leyla Zana, come figura concreta e come simbolo, ci ricorda una cosa
semplice. Non ci è dato di ridare dignità alla politica, a riconoscerci
come donne e uomini democratici, di sinistra ecc. se non conciliamo etica,
politica e una pratica di solidarietà tra gli esseri umani. Leyla Zana
potrebbe essere oggi fuori dal carcere se rinunciasse alla sua
determinazione a essere solidale con le migliaia di altri prigionieri
politici curdi e turchi, accettando le condizioni postele dal governo turco
di Ecevit. Vale a dire trasformare la sua condizione di carcerata politica
in una questione personale.

Agiamo sino alla libertà di questa meravigliosa donna, di questa
nostra compagna. E sino a quando il popolo curdo non abbia conquistato
la sua libertà e l'insieme dei popoli della Turchia la democrazia.



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PER LEYLA ZANA
di Silvia Vegetti Finzi


E' con "voce di donna" che vorrei intervenire  a favore di Leyla Zana.
Leyla è per me il nome di un fiore, una fragile camelia coltivata in
Riviera, e un cognome che suona come italiano: Zana.
Ma è soprattutto un corpo, un corpo di donna giovane e bella: lo sguardo
dolce e amaro, il volto fiero di chi ha da poco alzato la testa e sa quanto
costi dire di no.
Dietro di lei si estende una schiera di donne piegate dal sessismo
patriarcale ma non domate, non vinte.
E' anche per loro che Leyla parla, rompendo la plurisecolare ingiunzione al
silenzio:  per la madre che ha sempre taciuto, per la figlia che deve poter
liberamente parlare come un uomo, pur restando fedele al suo sesso.
Di Leyla mi ha sempre incantato la capacità di lottare per l'emancipazione,
per l'eguaglianza con i diritti maschili, e al tempo stesso di tener fede
ai valori della liberazione femminile.
Il suo insegnamento di vita e di pensiero non è mai neutro: proviene da una
donna ed è diretto primariamente, anche se non esclusivamente, alle donne
come detentrici di potenzialità forti e inespresse.
Ancora prima della condivisione politica , mi unisce a Leyla il comune
possesso di un corpo femminile:  un corpo fragile, dalle membra sottili, la
pelle sensibile, un corpo destinato alla maternità, fatto per essere amato
e per amare. Un corpo regolato dai ritmi della natura, dove i cicli
mestruali seguono le fasi lunari, i ritmi delle maree, il gioco delle
emozioni, la logica dei sentimenti. Un corpo finalizzato, come sostiene Lou
Andrea Salomé, ad  essere felice.
Il suo invece è stato violato dalle minacce, dalle percosse, dalle
perquisizioni, dalla carcerazione, dalla tortura.
Eppure non si è mai piegata ai compromessi, neppure a quelli che, con
sottile opportunismo, definiamo necessari.
Mi chiedo con angoscia, facendo appello alla mia esperienza, che cosa
significhi essere detenuta nelle carceri turche durante la prima
gravidanza, quando si ha più che mai bisogno di sentersi accolte e protette
per poter accogliere e proteggere.
Con Leyla è l'integrità di tutte le donne kurde ad essere infranta ed è il
diritto dei loro figli ad essere contenuti, partoriti, allevati ed educati
da una madre libera ad essere negato.
Di Leyla ammiro la capacità, tanto difficile per il nostro individualismo
piccolo borghese, di pensare in termini di "noi": noi donne sottoposte al
dominio patriarcale, noi donne appartenenti a un popolo, quello kurdo,
frammentato e disperso, noi donne che siamo la terra-madre della nostra
gente, noi donne, semplicemente.
Sento che il suo pensiero mi abbraccia e mi comprende, anche se non ci
siamo  conosciute e forse non ci incontreremo mai.
Quando Leyla scrive: "Io non sono che una madre tra le tante del mio popolo
che lottano per la pace e la libertà" dà voce a un soggetto collettivo
nuovo, lo stesso che lotta in Argentina per la verità e la giustizia,
contro le tentazioni della negazione e dell'oblio; lo stesso che,
rifiutando la necessità della guerra, fa del nero un segno di condanna e di
lutto.
Chi, se non  una donna dal fondo del carcere in cui è da anni segregata,
può abbracciare, nella stessa pietà, il popolo kurdo e quello turco,
scorgere, al di là della contrapposizione tra persecutori e perseguitati,
la medesima oppressione? E chiedere che si lotti insieme perché, anche se
la terra è divisa:  "è lo stesso sole che riscalda tutte le donne del
mondo".
L'internazionalismo femminile, a differenza di quello maschile, inscritto
in un progetto politico di lunga durata, ha l'evidenza e l'immediatezza
della comune identità sessuale, di un destino condiviso, di un rapporto con
i corpi, gli alimenti, gli elementi che non ha bisogno di mediazioni per
riconoscersi simile.
Quando Leyla, eletta in Parlamento, è costretta a giurare fedeltà alla
Costituzione che nega i diritti kurdi, dichiara solennemente:
"Sono stata obbligata ad adempiere la formalità richiesta. Io lotto per la
fraterna convivenza dei due popoli in un quadro democratico".
Una frase che lei, con creatività d'artista, sottoscrive visivamente,
intrecciando tra i capelli tre nastri con i colori della bandiera kurda:
giallo, rosso, verde.
Un gesto femminile che rinvia all'identità di un corpo che si fa simbolo
per rappresentare tutto ciò che le parole possono lasciar cadere.
Il suo discorso infatti fu liquidato nella trascrizione parlamentare come
"incomprensibile". Ma l'immagine  fu così forte da suscitare un dibattito
politico  sull'opportunità di cambiare i colori dei semafori per non
ribadire ad ogni crocicchio l'identità nazionale rivendicata da Leyla con
tanta efficacia.
Un'identità che, contratta nel tempo, si espande nello spazio.
Significativo che il giornale cui Leyla collaborava negli anni '8O si
chiamasse "Terra nuova", una metafora plurisecolare congiunge infatti la
Terra con la Madre. Ma il termine "nuova" ne contraddice la staticità per
aprire al futuro, alla speranza, al desiderio. "Quanto alle relazioni tra i
sessi, scrive Leyla, la soluzione dei problemi della donna non può essere
avulsa dalle problematiche sociali in generale. Voglio dire che noi
cerchiamo di cambiare la società, proprio per poter risolvere in avanti i
problemi delle donne".
In questo senso ci avvolge la medesima stoffa di un sogno di pace, di
libertà, di uguaglianza, di un pluralismo capace di accogliere e
valorizzare le differenze.
Leyla ci aiuta, per usare parole che Ersilia Salvato pronunciò 1O anni fa,
nel 1991: "a dar senso, voce, parole a un'ansia, a un desiderio di libertà,
al bisogno di pratiche e teorie di quell'inedita grammatica societaria che
vogliamo affermare".
Condannata per "alto tradimento", Leyla Zana testimonia, anche per noi, la
necessità di costituire un unico corpo, un soggetto sociale femminile
capace di affermare che nessuna donna sarà libera finché una sola sia
schiava. Mentre condividiamo, per lo meno simbolicamente, la sua cattività,
facciamo nostra la sua lotta e la sua speranza in un mondo migliore.

Come scrive dall'esilio il poeta comunista turco Nazim Hikmet, nella sua
ultima lettera al figlio lontano:
"la nostra terra, la Turchia è un bel paese/
tra gli altri paesi/
e i suoi uomini/
quelli di buona lega/
sono lavoratori/
pensosi e coraggiosi/
e atrocemente miserabili
si è sofferto e si soffre ancora
ma la conclusione sarà splendida.