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rapporto annuale di Reporter Senza Frontiere



Reporter Senza Frontiere: introduzione del rapporto annuale
(3 maggio 2000) 

Durante il 1999, 36 giornalisti sono stati uccisi nel mondo, circa il
doppio rispetto al 1998. 

Intro
Obiettivi militari
La permanenza di minacce
L’ipocrisia delle leggi

Al 1° Gennaio 2000, 85 giornalisti sono  imprigionati nel mondo ora a causa
delle loro opinioni ora della loro professione, un po’ meno rispetto alla
medesima data dell’anno precedente. Sono centinaia gli arresti (446) le
aggressioni e le minacce (653). Circa 400 media vengono sottoposti a censura. 

Nel corso del 1999 sono dunque morti molti più giornalisti nell’esercizio
della loro professione, anche con un netto miglioramento rispetto alle
annate precedenti. 

Fortunatamente siamo ancora lontani  dalle cifre dell’oscuro decennio
1985-1995 in cui sono scomparsi 600 giornalisti (circa 60 all’anno), con la
terribile punta registrata nel corso del 1994 anno in cui il numero delle
vittime superò il centinaio, ( e di cui quasi cinquanta giornalisti vittime
 del genocidio ruandese). 

Il numero dei giornalisti morti, imprigionati aggrediti o torturati, il
numero dei giornali censurati, sospesi o interdetti restano legati alla
situazione politica di ogni paese. La libertà di stampa è inesistente in
più di 20 nazioni che contano più di 2 miliardi di esseri umani. 

In realtà essa esiste veramente solo in una trentina di altri paesi che
raggruppano meno di 1 miliardo di abitanti. Altrove, questa libertà è molto
aleatoria. 


Obiettivi militari 

L’aumento del numero di morti è legato in gran parte ai focolai di guerra
presenti in più parti del globo. Nella maggior parte dei casi, i
giornalisti sono stati deliberatamente presi come bersagli o, peggio
ancora, sono stati oggetto di una autentica operazione d’eliminazione: è il
caso dello Sierra Leone dove una decina di rappresentanti della stampa è
stata assassinata dai ribelli nel Gennaio 1999. 

All’immagine degli orrori commessi nell’insieme dei paesi, ai rapimenti e
ai crimini compiuti in circostanze atroci, vanno aggiunti gli atti di
tortura e gli assassini perpetrati ai danni dei familiari o dei parenti
prossimi dei giornalisti. 

In situazioni di conflitto come nel Kossovo in Cecenia e a Timor Est,
neppure gli inviati sono stati risparmiati. Si pensi a Gabriel Gruner e
Volker Kramer, inviati speciali del giornale tedesco Stern, uccisi nel
Kosovo,  alle minacce di morte che hanno pesato sull’insieme  dei reporter
a Timor Est,  e agli ostaggi della Cecenia, tra cui  il fotografo Brice
Fleutiaux, in mano a una banda di guerriglieri dal 1 ottobre 1999. 

In Colombia i conflitti tra l’esercito, i gruppi paramilitari e la
guerriglia si sono intensificati nel corso del 1999, il numero dei
giornalisti morti è salito a 6 raggiungendo un totale di cinquantasette dal
1989. 

Per la guerriglia i giornalisti sospettati di sostenere i paramilitari sono
diventati degli “obbiettivi militari” …una assimilazione che ha una
incresciosa tendenza ad espandersi nel mondo, quando, ricordiamocelo, la
Convenzione di Ginevra dice che “i giornalisti devono essere considerati
come delle persone non belligeranti e protette anche in tempo di guerra. 

 

La permanenza di minacce

Anche considerando che un minor numero di giornalisti è stato imprigionato
nel corso del 1999,  il triste palmares dei paesi più repressivi non cambia
molto. 

Alla fine dell’anno in testa alla classifica si trovano Birmania (13),
Siria (10), Cina (9) ed Etiopia (9). 

Queste cifre non rendono ancora conto dei numerosi arresti, dei soprusi,
delle torture né dell’assenza di cure offerte ai prigionieri talvolta molto
gravemente ammalati. 

Il siriano Nizar Nayyouf, che sconta una pena di dieci anni per aver
sostenuto un’associazione per la difesa dei diritti dell’uomo considerata
al pari di un’organizzazione terrorista, soffre i postumi delle torture. E’
colpito da un cancro che le autorità rifiutano di far curare. La birmana
San San Nweh, vincitrice nel 1999, del premio Reporter senza Frontiere –
Fondazione di Francia, è colpita da una malattia al fegato ed ha problemi
alla vista. 

I suoi parenti, che hanno cercato di soccorerla, vengono minacciati dagli
agenti dei servizi segreti. E’ detenuta dal 1994. 

Se esistono dei paesi in guerra aperta, ne esistono anche altri dove la
pace non è che una pura formalità. L’opinione internazionale sembra,
talvolta, accontentarsene. Ma i popoli vivono nella tensione,
nell’incertezza e l’angoscia mentre i giornalisti sono sotto una minaccia
quasi permanente soprattutto se lavorano d’inchiesta, se rivelano ciò che
si vuole nascondere. 

L’attentato commesso il 22 Ottobre a Banja Luka (Bosnia) contro Zeljko
Kopanja, direttore del giornale indipendente Nezavisne Novine (che ha perso
entrambe le gambe e ha riportato delle ferite all’addome) è stato di monito
per l’insieme dei giornalisti bosniaci. “ Ora, nessuno dei miei
confratelli, che sia a Sarajevo o a Banja Luka, è al riparo da tali azioni”
spiega Zlatko Dizdarevic, capo-redattore  del settimanale  Svijet di
Sarajevo. E aggiunge: “ Nell’assenza di uno Stato di Diritto , per mancanza
di un vero sistema di giustizia e di polizia, i giornalisti sono i soli a
fare un lavoro di inchiesta e di denuncia dei crimini commessi durante la
guerra…” Sottolinea infine “ Il clima che regna nelle due entità della
Bosnia: l’animosità del potere contro la stampa critica, l’assenza di
sicurezza per i giornalisti , l’impunità dei criminali di guerra e la loro
implicazione nella vita politica ed economica del paese…” 

All’impunità dei criminali di guerra si aggiunge quella di cui beneficiano,
nel mondo, gli assassini dei giornalisti. Rari sono gli arresti e ancora
più rari i processi che hanno un esito positivo. 

L’inchiesta sulla morte di Norbert Zongo, il 13 dicembre 1998, a Burkina
Faso è un caso significativo.  L’indignazione suscitata per questa morte ha
costretto il potere all’istituzione ad istituire un’apposita commissione
d’inchiesta. Quest’ultima, passati mesi di investigazioni, ha concluso:
“Occorre cercare il movente di questa morte a fianco delle inchieste
portate avanti dai giornalisti sulla morte dell’autista di François
Compaoré”, il fratello del presidente. La Commissione ha anche indicato una
rosa di sei “seri” indiziati, appartenenti tutti al Reggimento della
Sicurezza presidenziale; tuttavia al 1° Gennaio 2000, nessuno di costoro è
stato imputato nel quadro dell’inchiesta . 

Quanto a François Compaoré, non è stato ancora mai ascoltato dal giudice
istruttorio incaricato del dossier. 

Più in generale, si può compatire in più paesi africani l’attitudine dei
Capi di Stato a praticare degli attacchi verbali, che sono anche delle
minacce, perfino degli appelli contro la stampa. Nello Zimbabwe, il
presidente Robert Mugabe ha dichiarato che “i giornalisti offuscano il
nostro partito, il nostro paese, il nostro governo e la mia direzione del
paese” prima di minacciare di “fermare tutti i giornalisti bugiardi”: Nel
Centro Africa il Presidente Ange-Félix Patassé ha affermato che quanto a
lui  la stampa “ sprofondi in un magna di fango puzzolente” 

  

L’ipocrisia delle leggi
Se esistono dei regimi che non nascondono quasi mai il loro carattere
autoritario e la loro poca considerazione per i diritti dell’uomo, occorre
oggi, ancora di più rispetto agli anni passati, denunciare le misure
“legali” di cui si servono alcuni governi per mettere a tacere la stampa.
In un numero crescente di paesi, sono quelle stesse leggi che dovrebbero
garantire la libertà di stampa responsabili di fatto della repressione
della medesima, in più mantenendo all’apparenza un esercizio democratico
della giustizia.

Tra i reati, quali “la diffusione di notizie false”, “l’offesa al capo
dello Stato”  o più generalmente la “diffamazione” delle autorità,
consentono alle autorità di un certo numero di paesi di reprimere tutta la
critica di un governo in ordine. In un gran numero di paesi la
‘diffamazione’ continua a essere sanzionata con la detenzione, o ancora,
con multe esorbitanti, cosa che consente di soffocare economicamente i
media troppo impertinenti. 

Il relatore speciale delle Nazioni Unite per la libertà di espressione e
d’informazione, come  le numerose organizzazioni come il Consiglio di
Europa e l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, si
sono pronunciate per la soppressione di tutte le pene detentive contro i
reati di stampa, cosa che è in linea  con lo spirito dei patti
internazionali e con il principio di proporzionalità tra reato presunto e
pena emessa. La Bulgaria, preoccupata della sua integrazione europea, e la
Bosnia sotto l’impulso delle Nazioni Unite, hanno già da tempo seguito
questa raccomandazione.  Ma al di là di questo aspetto giuridico, occorre
interrogarsi globalmente sulll’atteggiamneto di un certo numero di
dirigenti occidentali che si mostrano, per delle ragioni evidentemente
economiche, ben timorosi nell’affermare l’universalità dei diritti umani,
adducendo come scusante il rispetto delle specificità culturali dei loro
interlocutori. 

 

La battaglia di Internet

Si è potuto dire a proposito del crollo dei regimi comunisti dell’Europa
centrale e orientale che la libertà era “in fondo alle onde ”.  Si potrà
ugualmente dire un giorno che la libertà era annidata nel fondo delle
maglie della rete? 

Paradossalmente, le reazioni di certi governi tenderebbero a provarlo. Non
meno di venti paesi possono essere qualificati “nemici di Internet”. 

Che si tratti della Cina, della Birmania, di Cuba, della Tunisia o del
Vietnam, i governi s’ingegnano a controllare, a filtrare, a impedire la
libera circolazione delle informazioni e a punire i dissidenti. Lin Hai o
Qi Yanchen sono dei ‘cyber-dissidenti’ cinesi condannati per "sovversione".
Questa repressione mostra bene il pericolo che costituiscono le nuove
tecnologie per i regimi autoritari. Un nuovo terreno di lotta dove si può
pensare che le misure repressive di oggi appariranno domani come una lotta
fuori moda. 

Si è visto in Malesia. Nella stessa Cina, il numero di internauti è
passato, nel corso del 1999, da quattro a dieci milioni. 

Ogni anno il bilancio  redatto da Reporter senza frontiere potrebbe indurre
ad assimilare la battaglia per la libertà di stampa alla dura condanna di
Sisyfo, se non ci fossero dei motivi di speranza. 

Le speranze dipendono dalle evoluzioni di natura diversa: la tregua delle
tensioni in Cambogia come le successioni sui troni marocchini e giordani,
o ancora l’alternanza politica in Croazia e in Slovacchia. Ma i segnali
positivi provengono anche e soprattutto dai giornalisti stessi, quando
sappiano utilizzare i nuovi spazi della libertà per conquistare a favore di
una maggiore indipendenza. 

A questo riguardo ci si può rallegrare della crescita di associazioni di
giornalisti in un paese come l’Indonesia, dolorosamente segnato dal dramma
di Timor Est, o ancora dello sviluppo degli ‘osservatori’ della libertà di
stampa in Africa, nonostante talune interrogazioni e incertezze sulla loro
efficacia. 

Un bilancio assomiglia sempre a un altro bilancio: con cifre di morti,
prigionieri, di soprusi, con dei punti neri, dei punti caldi, delle zone
d’ombra e della macchie di sangue. Ma malgrado i drammi e le incertezze,
Sisyfo, oggigiorno, ha dei buoni motivi per continuare a sperare ed ad
essere determinato. 
 

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Webmaster: Sergio Cecchini
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