[Diritti] Ali Enterprises: dopo 3 anni KIK ancora non paga i risarcimenti alle vittime | Abiti Puliti





Ali Enterprises: dopo 3 anni KIK ancora non paga i risarcimenti alle vittime

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L’11 settembre 2012 alla Ali Enterprises morirono arse vive 254 persone mentre 55 rimasero gravemente ferite. L’incendio divampò alle 6 del pomeriggio e gli operai rimasero intrappolati come topi dietro a finestre sbarrate e uscite bloccate. Un inferno che ancora oggi vive nella memoria dei sopravvissuti che conducono vite miserabili in attesa di giustizia. Solo tre settimane prima, è bene ricordarlo, la Ali Enterprises aveva ottenuto la certificazione SA8000 dal RINA, società di ispezione italiana. Una azienda sicura, secondo gli ispettori accreditati dalla SAI.

Nel terzo anniversario del peggior disastro industriale del Pakistan, i sindacati globali IndustriALL e UNI, insieme con la Clean Clothes Campaign richiamano il grande distributore tedesco KIK  alle sue dirette responsabilità e in particolare al dovere di onorare la promessa di garantire il risarcimento alle vittime.

All’indomani del disastro il gigante tedesco KiK, con 3.200 punti vendita in tutta la Germania, l’Austria e l’Europa orientale, ha firmato un Memorandum vincolante con l’impegno di effettuare un pagamento iniziale di US $ 1 milione per le vittime e le loro famiglie per le cure immediate.
KiK ha versato $ 1 milione nel fondo provvisorio ma si è sottratta agli altri obblighi previsti dall’accordo di impegnarsi nel negoziato per determinare il risarcimento di lungo periodo per le vittime. A cui si affianca l’obbligo di versare  250.000 dollari per rinforzare il lavoro di monitoraggio degli standard sociali, anche questo mai onorato.

Dalla firma dell’accordo il 21 dicembre 2012, KiK ha giocato a prendere tempo e ha messo in campo tatticismi solo volti ad evitare le sue responsabilità. La necessità di ricevere un giusto risarcimento che includa la perdita di reddito, le spese mediche e i danni psicologici, per quanto scritta in un accordo firmato dalle parti, conta poco o nulla.

Ma le vittime non demordono e neanche le organizzazioni che da tre anni difendono i loro diritti. Come quelli di Rifit Bibi, rimasta vedova con quattro bambini piccoli da mantenere, che dichiara “Ricevo 5.000 PKR (47 dollari ) al mese di pensione, non sufficienti per comprare il cibo per i miei figli. La vita è miserabile, da quando mio marito è morto”. O quelli di Shahida Parveen, vedova di 37 anni e dei suoi tre figli che ha paura di finire a lavorare in una fabbrica della morte e vorrebbe lavorare negli uffici, per i quali necessita di una buona istruzione, ma non ha abbastanza soldi per permettersela.

KiK vanta un record di approvvigionamento da alcune delle fabbriche più pericolose al mondo e quello di unica azienda collegata ai tre più gravi disastri che hanno colpito l’industria dell’abbigliamento in tempi recenti: l’incendio alla Ali Enterprises in Pakistan; l’incendio alla Tazreen Bangladesh (2012); e il crollo del Rana Plaza, sempre in Bangladesh (2013). Tre tragedie in cui sono morti 1.500 lavoratori.

Secondo gli attivisti della Clean Clothes Campaign e i sindacati globali IndustriALL e UNI, si tratta di una situazione inaccettabile, di un insulto per le vittime che non possono attendere ancora. Per questo è stata avviata una campagna di pressione internazionale per obbligare la KiK a rispettare gli accordi. E una petizione, lanciata da Shahida, una delle donne rimaste vedove quel maledetto 11 settembre  http://bitly.com/makekikpay

https://secure.avaaz.org/en/petition/Hienz_Speet_KiK_Chairman_KiK_Pay_Compensation_to_the_Ali_Enterprises_Factory_Fire_Victims/?tKWvdab