Iran: la gioventù si ribella contro le istituzioni



Iran: la gioventù si ribella contro le istituzioni

Dopo quasi venti anni dalla Rivoluzione Islamica del 1979, i figli dei protagonisti si trovano di fronte allo stesso bivio in cui allora si trovarono i loro genitori e i loro connazionali durante la crisi studentesche del 1999: rispettare le istituzioni o resistere contro l’oppressione. Le istituzioni iraniane si trovano a commettere il medesimo errore, ossia quello di reprimere duramente e di censurare le manifestazioni di una gioventù, sicuramente molto pia acculturata grazie alle nuove tecnologie, come internet, e assetati di un sistema democratico e libero, all’interno di una cornice che si fonda sul profondo nazionalismo e sul sentimento mussulmano.

Fabrizia B. Maggi

Equilibri.net (24 ottobre 2006)

Le nuove rivolte studentesche

Per una popolazione giovanile che ammonta a circa il 60% della popolazione iraniana, di cui 2,4 milioni sono universitari, la possibilità di riunirsi e di esprimere il proprio disappunto contro le politiche del governo è un’arma a doppio taglio: da una parte potrebbe essere un elemento per comprendere il malessere della popolazione più giovane e, quindi, uno spunto per l’orientamento delle riforme del governo; dall’altra, però, le manifestazioni degli studenti costituiscono la minaccia più grave alla stabilità del governo. Infatti, essi costituiscono il gruppo sociale più influente in un sistema oppressivo, giacché, più acculturati rispetto alle masse di lavoratori, essi sono coloro che hanno avuto una formazione più aperta, più capaci di ricercare il confronto e, dunque, molto più critica. Se aggiungiamo che a differenza della generazione che fu protagonista della Rivoluzione del 1979, la nuova gioventù ha oggi a disposizione degli strumenti prima inesistenti, come l’uso di internet ma anche maggiori possibilità di istruzione presso atenei stranieri e, dunque, di paragonare la propria situazione con quella di altre realtà.

Negli scorsi mesi, il governo di Teheran ha dato prova in vari modi della sua volontà di reprimere con fermezza ogni tipo di manifestazione studentesca di opposizione alle sue politiche. Innanzi tutto, la morte di Akbar Mohammadi, uno dei leader studenteschi della protesta del 1999, morto dopo uno sciopero della fame nel carcere dei Teheran (dove si trovava imprigionato dopo una sentenza di morte commutata in 15 anni di prigione), è risultata sospetta ai dissidenti, a Washington e, persino, all’UE, che accusano il governo di non aver fornito l’assistenza adeguata per queste situazioni. A partire dallo scorso marzo, a seguito di manifestazioni di protesta, sono stati arrestati i leader della principale organizzazione di studenti, Daftar-i Tahkim-i Vahdat (DTV), che riunisce i membri delle associazioni islamiche rappresentanti di ciascuna delle circa 60 Università iraniane. I motivi delle proteste, che dall’Università di Teheran si sono estese anche all’Università Amir Kabir, si basavano sulle interferenze del governo negli affari universitari, la manipolazione delle elezioni universitarie, le dimissioni ed il prepensionamento forzato di alcuni professori che insegnavano le proprie materie con una metodologia troppo “critica ed aperta”, l’attribuzione di cariche universitarie ad individui poco qualificati. Secondo alcuni testimoni, gli alunni arrestati sarebbero i principali leader delle associazioni studentesche ma anche alcuni studenti che avevano solamente aperto un proprio blog, luogo di incontro di opinioni e commenti forse troppo scomodi alle istituzioni del governo. Un dato ancora più allarmante è che essi sarebbero stati incarcerati senza una previa accusa e senza un giusto processo.

Il contrasto Università-Governo, sembra essersi aggravato a seguito delle affermazioni del Presidente Ahmadinejad che ha dichiarato che gli atenei devono essere liberati da opinioni troppo libere e secolari, inaugurando, secondo alcuni, la fase di una nuova rivoluzione culturale che mira all’eliminazione dei critici che si sono stabiliti all’interno delle Università. Infatti, in seguito ad esse, sono state chiuse 8 associazioni studentesche e sono stati presi provvedimenti in base ai quali a circa 100 studenti è stata preclusa la possibilità di proseguire la propria formazione accademica con l’accusa di aver avuto relazioni con associazioni illegali. Secondo alcuni testimoni, il Ministero dell’Intelligence, avrebbe mandato ai vertici delle Università una lista di nomi di soggetti (considerati attivisti perché hanno organizzato le manifestazioni di protesta, ma anche coloro che hanno partecipato ad attività culturali, editoriali e politiche) ai quali è stato impedito il proseguimento degli studi, anche se avevano precedentemente superato con successo gli esami necessari e possedevano i requisiti richiesti per l’accesso ai programmi formativi. A questi eventi sono seguite proteste che sono state, nuovamente, duramente represse.

Se da una parte è pur vero che tali informazioni siano state riportate quasi esclusivamente da studenti (principalmente esponenti delle organizzazioni coinvolte) e riprese nelle condanne di attivisti per i diritti umani come l’avvocato e vincitrice del premio Nobel per la pace, Shirin Ebadi, dall’altra parte, i fatti parlano da sé. Innanzi tutto, non è poco rilevante un semplice dato: i leader del DTV che sono stati arrestati corrispondono tutti alla fazione pro-democratica di maggioranza (che rappresenta tra 50 e 60 associazioni), Neshast-Allameh, mentre non risulta che tra i fermi della polizia iraniana ci siano esponenti della minoranza (che rappresenta tra 5 e 10 associazioni), Neshast-i-Shiraz, composta da giovani molto più conservatori, anti statunitense e che mirano al mantenimento della Repubblica Islamica, secondo l’idea originale del suo creatore, l’Ayatollah Ruhollah Khomeini.

Inoltre, resta il fatto che esiste un importante numero di studenti ai quali è stato improvvisamente impedito il proseguimento dei loro studi e di questa situazione ne ha fatto eco persino lo Human Rights Watch, l’osservatore internazionale per il rispetto dei diritti umani, che ha fortemente criticato gli avvenimenti. Infine, confermerebbe la tendenza repressiva del governo iraniano, la recente pubblicazione della notizia diffusa da un giornale semi-ufficiale in cui il capo della polizia della capitale avrebbe resa nota la prossima formazione di una polizia giovanile all’interno delle scuole con lo scopo di reprimere i principali crimini tra i più giovani. Non sembra azzardato prevedere, quindi, che se tale progetto verrà realizzato all’interno delle scuole e avrà successo, sarà possibile ammettere l’idea di una polizia anche all’interno delle università, magari segretamente nascosta tra il resto degli studenti che, invece di sorvegliare sui crimini, possa filtrare i nomi di coloro che la pensano diversamente dal governo iraniano.

Le proteste delle donne

Non meno rilevanti sono le recenti manifestazioni portate avanti da donne, tra cui molte giovani studentesse che rappresentano il 63% degli iscritti universitari, e dai principali attivisti per i diritti umani. Il ruolo delle donne, specialmente di quelle più giovani, è essenziale per il futuro del Paese. A partire dalla nascita del movimento riformista dei primi anni ’90, il movimento per i diritti delle donne in Iran ha avuto un notevole successo e sta ottenendo un peso sempre più rilevante nella società iraniana nei limiti della libertà che una teocrazia ogni giorno più repressiva può permettere (oggigiorno, però, solo l’11% delle donne laureate fa parte dell’apparato statale). E sono stati prova di questo gli avvenimenti dello scorso 12 giugno, in cui essa ha mostrato il suo lato più oppressivo. Più di duemila persone si sono riunite in un sit-in pacifico che è stato subito duramente represso dalla polizia. I manifestanti, tra cui molte donne e molti attivisti per il rispetto dei diritti umani, chiedevano, tra l’altro, l’abolizione della poligamia, il diritto alla richiesta del divorzio delle donne, la custodia condivisa dei figli per genitori divorziati, pari diritti nel diritto di famiglia, l’aumento dell’età minima legale per le femmine da 15 a 18 anni e pari diritti per le donne che si prestano come testimoni nelle corti iraniane. Inoltre essi chiedevano il rilascio di alcuni noti leader attivisti che sono stati incarcerati per le loro attività di protesta.

Uno degli scogli contro il quale Teheran si trova a combattere si chiama “attivismo internazionale”. Infatti, non è da tralasciare un elemento essenziale: tra i manifestanti delle proteste dello scorso giugno erano presenti importanti attivisti per i diritti umani, come la già citata Shirin Ebadi, ma anche importanti organizzazioni che si muovono a livello internazionale, come per esempio Human Rights First e Amnesty International. Questo dato è indicatore della ormai troppo stretta interazione tra le politiche interne e la loro potenziale rilevanza a livello internazionale.

Conclusioni

In un clima rovente come quello in cui si trova l’Iran a causa del tema del nucleare, le politiche iraniane sono sottoposte ad una stretta osservazione della Comunità Internazionale. Se è pur vero che nessuna guerra è stata mai intrapresa per difendere la libertà dei giovani e delle donne, la stessa Comunità Internazionale potrebbe prendere atto e diffondere, presso l’opinione pubblica, l’idea che anche nei paesi di ispirazione e diritto islamico sia necessaria una reale salvaguardia dei diritti dei più deboli anche attraverso la promozione di proteste sempre più organizzate contro la repressione e per la libertà di espressione. Sono testimoni di questa necessità il numero di associazioni e di blog creati da iraniani che si trovano all’estero, specialmente negli Stati Uniti e nel nord Europa. Inoltre, i vertici dell’Amministrazione iraniana non dovrebbero dimenticarsi dell’ormai inarrestabile scambio di informazioni, notizie e opinioni che girano nelle reti di internet, facilmente controllabile ma difficilmente arginabile. Se si manterrà la volontà di reprimere le opposizioni della popolazione, il prossimo passo del governo iraniano potrebbe essere quello della restrizione dell’uso delle reti digitali attraverso la censura, andando ben oltre la mera chiusura delle pagine web di tutte le associazioni dissidenti. Altrimenti, i vertici dovranno necessariamente accondiscendere ad una trattativa concreta con alcune richieste dei più giovani che gridano per un Iran pur sempre islamico ma più libero e democratico.