rassegna stampa: IKEA, QUANDO L'ABITO NON FA IL MONACO.



a cura di AltrAgricoltura Nord Est
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tratto da "Green Planet" - 19/01/07
IKEA, QUANDO L'ABITO NON FA IL MONACO.
Dietro l'immagine di un'azienda "etica" si nasconde ben altro.
 Dopo aver installato negozi in Russia e in Cina - mercati promettenti - il
gigante svedese Ikea ha comunicato, in ottobre, che non intende aprirne in
India «per via della legislazione eccessivamente vincolante per le imprese
straniere». Il gruppo si accontenta di fabbricarvi i prodotti, senza
vincoli - soprattutto sindacali - pagando ogni lavoratore 1,60 euro al
giorno...

Quattrocentodieci milioni di clienti in tutto il mondo, centosessanta
milioni di cataloghi distribuiti (superata la diffusione della Bibbia):
Ikea, la multinazionale del prêt-à-habiter, gode di buona salute.

E il suo fatturato prosegue lungo l'impressionante spirale positiva: 3,3
miliardi di euro nel 1994, 14,8 milioni di euro nel 2005. Ovvero, un aumento
di oltre il 400%. Difficile fare di meglio. Oggi, la società punta a
conquistare due territori che finora le hanno resistito: la Russia e la
Cina. Come scrive il periodico interno Read Me: «L'obiettivo è migliorare la
vita quotidiana del più gran numero di persone possibile.

Per riuscirci, i negozi devono vendere sempre di più a sempre più persone
(1)»....Per Ikea, la felicità del popolo passa per l'acquisto.

Ikea riesce a schivare gli attacchi delle associazioni dei consumatori,
degli altermondialisti e degli ambientalisti: singolare, per una
multinazionale che rappresenta a tal punto l'omologazione planetaria e il
mercantilismo. Un risultato non da poco. Occorre ammettere che l'azienda è
riuscita a creare un legame speciale con i suoi clienti, grazie a prezzi
imbattibili, alla realizzazione nei negozi di spazi per i bambini, e a un
mondo progettato per trovare tutto subito (e preferibilmente ciò di cui non
abbia bisogno).

Non mancano gli aneddoti per illustrare l'unione tra clienti e impresa.
Non si udì forse un consigliere municipale di Stockport (Gran Bretagna)
esclamare nel 2004: «Un'Ikea nel territorio del nostro comune, questa è la
gloria (2)!» A fare eco a tanto entusiasmo, gli abitanti di Mougins, una
cittadina francese, hanno lanciato una petizione: «Se anche voi non ne
potete più di passare due ore in macchina e di fare più di duecento
chilometri (andata e ritorno) per fare spese in un negozio Ikea, prendete al
volo l'occasione che vi offriamo perché finalmente venga aperto un negozio
Ikea nelle Alpes-Maritimes (3)!».

Tutto ciò non suscita ammirazione? Persone che lanciano una petizione (oltre
duemila firme nell'agosto del 2006!), che affermano i propri valori, che si
mobilitano... perché non c'è una succursale della multinazionale del mobile
entro un raggio di duecento chilometri.

Un simile successo può avere conseguenze più drammatiche. All'apertura di un
negozio in Arabia saudita, l'1 settembre 2004, l'azienda regalava un assegno
di 150 euro ai primi cinquanta clienti e una folla vi si precipitò: due
morti, sedici feriti, venti malori.

Come spiegare l'infatuazione mondiale per Ikea? Oltre ai bassi prezzi, una
chiave del successo risiede nell'immagine di sostenibilità ambientale e
sociale che la multinazionale ha costruito.

Dopo il primo subappalto straniero (la Polonia, nel 1961), Ikea delocalizza
una parte delle sue produzioni, alla ricerca di manodopera economica e
sfruttabile. Perciò la percentuale della produzione realizzata in Asia è in
continuo aumento. Attualmente, la Cina (celebre per il rispetto dei diritti
dei lavoratori...) supera la Polonia, tanto da rappresentare il maggior
fornitore della società, con il 18% dei prodotti del gruppo. In totale, il
30% del «made in quality of Sweden» proviene dal continente asiatico (4).
Secondo The Observer, la percentuale della produzione realizzata nei paesi
in via di sviluppo è cresciuta dal 32% al 48% tra il 1997 e il 2001 (5).

Sin dalle origini, il gruppo svedese puntò a proporre prodotti a «prezzi
estremamente bassi». Nel 1976, nel suo «Testamento di un commerciante di
mobili», il fondatore Ingvar Kamprad lo ha dichiarato: «Non dovrà essere
lesinato alcuno sforzo pur di mantenere le tariffe ai livelli più bassi
(...), questi prezzi bassi, ancora oggi giustificati, impongono dunque
vincoli formidabili a tutti i nostri collaboratori (...). Senza una rigida
limitazione delle spese, non riusciremmo a compiere la nostra missione (6)».

Sindacati? Inconcepibile! Però, contrariamente a quanto afferma Ikea, i
bassi prezzi hanno avuto - e hanno tuttora - un costo sociale notevole. Tra
il 1994 e il 1997, tre reportage delle televisioni tedesche e svedesi (7)
hanno accusato l'azienda di impiegare bambini in condizioni degradanti in
Pakistan, India, Vietnam e Filippine.
L'Asia non ha il monopolio dello sfruttamento «ikeano»: nel 1998, dopo la
denuncia delle penose condizioni di lavoro in Romania, il sindacato dei
lavoratori del legno e dell'edilizia, l'International Federation of Building
and Wood Workers (Ifbww), ha minacciato il boicottaggio della
multinazionale, raggiungendo alla fine la firma di un accordo tra i
sindacati e il gruppo (si legga l'articolo nella pagina accanto).

L'Iway - così si chiama il codice di condotta di Ikea in materia ambientale
e di condizioni di lavoro - vieta ad ogni fornitore l'utilizzo di lavoro
forzato e infantile. Il punto 7 («Salute e sicurezza degli operai»)
specifica le condizioni di lavoro dei dipendenti, che devono indossare le
necessarie protezioni per la produzione. Esso tutela anche la facoltà dei
dipendenti di organizzarsi in sindacato o in altro tipo di associazione, a
cui il sub-fornitori non devono opporsi.

Inoltre: non è tollerata alcuna discriminazione sulla base di genere,
provenienza geografica, status ecc. A livello retributivo, infine, nessuno
deve essere pagato meno del minimo salariale fissato a livello nazionale. Il
carico orario di lavoro settimanale non può oltrepassare il limite legale.

Redigere un codice di condotta per annunciare semplicemente che si segue la
legge può apparire bizzarro. Come se qualcuno dichiarasse solennemente di
essere pronto a guidare a sinistra in Gran Bretagna.
Tuttavia, l'impatto dell'Iway è stato positivo sulle condizioni di lavoro
dei dipendenti delle imprese di subappalto?

Per quanto riguarda il lavoro dei bambini (argomento sensibile per le
coscienze occidentali), Ikea ha sicuramente sradicato tale pratica nei
«suoi» stabilimenti, anche se l'Iway preferisce basarsi sulle leggi locali e
precisa che «le legislazioni nazionali possono consentire l'impiego di
persone tra i 13 ai 15 anni o dai 12 ai 14 anni per lavori leggeri (8)».
Per l'organizzazione degli operai in collettivi o in sindacati, o per il
pagamento degli straordinari, è un altro discorso. Così, nel corso di un
viaggio, nel maggio 2006, in un villaggio vicino a Karur, un centro tessile
indiano del Tamil Nadu, nel sud-est del paese, abbiamo tentato di incontrare
i dipendenti di un'azienda subappaltatrice.

Shiva (9), sulla trentina circa, vorrebbe rispondere alle poche domande del
visitatore occidentale ma la madre, un'anziana indiana dai capelli bianchi,
è preoccupata. E se Shiva perdesse il lavoro? Il suo salario rappresenta
l'unica risorsa della famiglia, composta, oltre che dalle due donne, dal
figlio dell'operaia, un adolescente di 15 anni.

Non c'è nulla di cui aver paura, tuttavia. La giovane donna in realtà non
critica il suo datore di lavoro. Racconta di pause-tè, di protezioni per gli
occhi e per le mani. Evoca un ambiente sano. E ciò è vero.
«Ikea offre condizioni migliori, non c'è dubbio», afferma Maniemegalai
Vijayabaskar, professore assistente al Madras Institute of Development
Studies. Lo studioso, che ha collaborato a una ricerca (10) commissionata da
Oxfam-Magasin du monde sui fornitori della multinazionale del mobile,
aggiunge comunque: «Si creano un volto umano per evitare critiche e
controversie. Ma non fanno molti sforzi per migliorare le condizioni di
lavoro».
Le condizioni di lavoro? A prima vista, sono buone. I locali sono puliti e
areati. Ci sono le pause-tè e materiale di qualità. Infine, l'Iway è affisso
sulle pareti dell'azienda. Ma... nel 2003, il sindacato olandese Fnv ha
commissionato all'organizzazione non governativa olandese Somo,
specializzata in valutazione sociale delle multinazionali, un'inchiesta sui
fornitori di Ikea in tre Paesi: l'India, la Bulgaria e il Vietnam. Per
ciascun caso, i ricercatori hanno incontrato gli operai di tre o quattro
imprese e hanno realizzato interviste al di fuori del luogo di lavoro. Hanno
visitato gli stabilimenti e parlato con i quadri delle aziende.

Le conclusioni si riferiscono a dieci fornitori, che contano circa duemila
dipendenti. Somo constata: «Si evidenziano ancora numerose violazioni del
codice di condotta Ikea in tutti e tre i paesi e in tutte le imprese
studiate». Le infrazioni più frequenti riguardano la libertà di
associazione, il diritto alla contrattazione collettiva, i salari e gli
straordinari. Nella situazione peggiore: nessun sindacato, sette giorni di
lavoro su sette, salario minimo non rispettato. E ovviamente nessuno conosce
i propri diritti e gli impegni della multinazionale del mobile.

Storia antica? Da quanto abbiamo potuto constatare in India nel 2006, presso
i fornitori in subappalto di Ikea non esiste alcun sindacato.
Ufficialmente, la presenza sindacale è tollerata ma, ad ascoltare Shiva, non
sarebbe necessaria: «Quando c'è un problema, ci riuniamo e ne discutiamo. Di
solito per ricevere istruzioni sulla pulizia dei bagni, per esempio. E se ho
un'esigenza, posso comunicarla al responsabile». Forse per la giovane età di
Xana, un'altra operaia, e l'assenza di bambini da sfamare, la risposta suona
diversa: «Un sindacato? No, non accetterebbero. E se ci sono controlli nella
fabbrica, i padroni ci ripetono le bugie da ripetere...».

La situazione non è anormale in questa regione. Ogni iniziativa sindacale è
soffocata alla nascita. È proprio questa la situazione che cercava Ikea,
come ogni multinazionale che si stabilisce in India. Essa consente salari
particolarmente bassi. Shiva dice di guadagnare 2.300 rupie al mese (40,20
euro). Paga 500 rupie (8,70 euro) al mese per recarsi in autobus al lavoro.
Alla fine, questa retribuzione è sufficiente per vivere? Shiva sorride
pudicamente. Quando la madre cucina davanti alla casa, la ricetta è sempre
la stessa: «Si mangia in modo semplice, zuppa o soprattutto riso col sugo».
E la carne? «Sì, una volta a settimana, la domenica. Ma non questa domenica
perché è la fine del mese». L'incontro si è svolto il 20 maggio 2006.

ll codice di condotta Ikea non dà da mangiare ai dipendenti. Non fornisce
nemmeno l'arredamento. Non vediamo scaffali Billy o letti Malm...
l'abitazione di Shiva è spartana: due camere, qualche calendario sul muro,
foto in bianco e nero, due materassi, due piccoli bauli come guardaroba. Un
orologio, qualche rappresentazione religiosa.

Quando le ho chiesto cosa farebbe con 1.000 rupie in più al mese, Shiva ci
ha descritto il suo modesto sogno di benessere: «Prenderemmo una cucina con
una bombola di gas. Cucinare sul fuoco è difficile, con tutto questo fumo
negli occhi. Nella stagione delle piogge, è difficile trovare legna secca. E
raccogliere la legna è un lavoro duro». La povertà di Shiva non è
un'eccezione nell'universo dei fornitori di Ikea. Piuttosto, è la regola.

Un'altra operaia, Manjula, sposa recente, ci dice che guadagna 2.360 rupie
(41,40 euro) al mese. Ma, come esempio, ci mostra le buste paga di ottobre
2005, e questa somma rappresenta l'importo lordo (in tutte e due le
accezioni di questa parola) da cui detrarre due assicurazioni previdenziali
e un'assicurazione sulla vita. Dopo qualche calcolo, le 2.360 rupie iniziali
sono scomparse. Perciò, Manjula ha lavorato ventiquattro giorni in ottobre e
ha intascato 1.818 rupie (31,80 euro). Nonostante lavori sei giorni alla
settimana, sfiora la soglia di povertà estrema. E tutto nel rispetto del
codice di condotta «ikeano»...

Per sbarcare il lunario, gli operai aumentano le ore di straordinario.
«Lavorano dodici ore al giorno. Senza considerare la durata del tragitto per
recarsi al lavoro - precisa Vijayabaskar. Durante i picchi di produzione,
possono arrivare a lavorare anche quindici ore al giorno».
Ikea cerca di ridurre le ore di straordinario, ma la pressione che deriva
sia dalle scadenze degli ordini che dal bisogno di denaro rendono
inevitabile questo sovraccarico di lavoro. Le otto ore al giorno di lavoro
vanno dalle 9.30 alle 13.30 e dalle 14.30 alle 18.30.
Ma, nel cuore di un quartiere popolare di Karur, Kalaya deve precisare: «Se
fai delle ore di straordinario dalle 19 alle 20 o alle 21, non ti vengono
pagate. Se lavori fino alle 22.30, ti danno 50 rupie in più (0.87 euro). Di
solito, il lavoro straordinario si fa due volte alla settimana».

Assam che lavora nello stesso posto ci garantisce che non ci sono
straordinari nella sua impresa. La sera stessa, le macchine lavorano di
notte e, appostati all'ingresso, vedremo le squadre entrare in fabbrica fino
alle 20. A dimostrazione del fatto che i discorsi vengono edulcorati dalle
scadenze e dalla paura di perdere il lavoro. Deenosha dice di avere un
reddito supplementare. Non fa in tempo a rivolgerci la parola all'uscita
dalla fabbrica, che già si scusa. Ha un altro lavoro dalle 20 all'una del
mattino. Guadagna 80 rupie (1,40 euro) più il vitto.
In effetti, per Ikea Shiva, Kalaya, Deenosha sono «costi da limitare in
maniera rigida». Tanto che, per consegnare gli ordini in tempo, i
subfornitori subappaltano a loro volta. Inapplicato dai fornitori diretti di
Ikea, l'Iway diventa a quel punto una totale astrazione.
Nessun controllo, nessun requisito, nessun limite se non la scadenza della
consegna.

Ma anche tra i fornitori ufficiali il controllo del rispetto del codice di
condotta rimane estremamente lacunoso. Chi svolge i controlli?
La maggior parte (il 93%) è realizzata dai quarantasei uffici acquisti di
Ikea disseminati in trentadue paesi. La formazione di questi uffici è
garantita dal Compliance and Monitoring Group (Gruppo di controllo e di
conformità), una struttura della multinazionale svedese dedicata alla
verifica dell'applicazione del codice. Anche il Compliance and Monitoring
Group, composto da cinque persone (erano tre nel 2004) che assistono i
controllori degli uffici acquisti di Ikea, effettua dei controlli.
Cinquantatré, nel 2005 (11). Gli esaminatori esterni, come Kpmg,
PricewaterhouseCoopers e Intertek Testing Services, hanno effettuato solo
sette controlli nel 2004. La multinazionale del mobile riconobbe che il
numero era esiguo ma assicurò che «il 2005 sarà diverso, con un elevato
numero di controlli svolti da terzi (12)».
Il numero «elevato» è ora noto: arriva a ventisei controlli esterni sui
1.012 realizzati.

La linea rossa del lavoro dei bambini Inoltre, i pochi controlli
indipendenti si basano in parte sul sistema di controllo interno introdotto
da Ikea. Gli esaminatori non possono pubblicare i loro studi, di cui rendono
conto direttamente ed esclusivamente alla direzione del gruppo. Tutte le
verifiche, che si svolgono ogni due anni (ogni sei mesi o un anno per
l'Asia), richiedono uno o due giorni. I novanta criteri dell'Iway vengono
passati al setaccio.

Per otto ore al giorno, ciò corrisponde a un criterio ogni dieci minuti e
quaranta secondi. Come verificare che non c'è pressione contro la formazione
di un sindacato in dieci minuti? E le ore di straordinario? E il regolare
pagamento dei salari? E il rispetto delle pause? E il lavoro forzato? Il
lavoro dei bambini? Semplice.
Si chiede al padrone. Si consultano i registri dell'impresa. O peggio, si
chiede all'operaio all'interno della fabbrica.

Le persone che realizzano queste ispezioni sono forse sincere e volonterose,
ma le condizioni in cui vengono poste non permettono un controllo serio. Il
metodo, dunque, è per lo meno «leggero» e sfavorevole alla libera
espressione degli operai sulle loro condizioni di lavoro, tanto più che
questo «controllo» si svolge contemporaneamente al controllo di qualità dei
prodotti. Toneesh, ispettore qualità, ha visto due volte gli esaminatori di
Ikea l'anno scorso: «Fanno qualche domanda, soprattutto sulla qualità dei
prodotti, per verificare la produzione. Sono indiani, di Delhi o di Madras.
Ma ci sono anche europei, che però si rivolgono solo ai dirigenti di livello
superiore.

A causa della lingua, i lavoratori non possono parlare direttamente con
loro».
L'operaio Kalaya conferma: «Ieri, è venuto un uomo di Ikea. Ci ha mostrato
un video sulla preparazione del prodotto di qualità. E ha posto alcune
domande, ma solo sul prodotto». Probabilmente non è questo il tipo di
domande che eviterà a Kalaya le ore di straordinario non pagate...

Di conseguenza, la politica di Ikea si limita a introdurre qualche
addolcimento nello sfruttamento presso i suoi sub-fornitori. Certo, i
dipendenti hanno acqua filtrata a disposizione, guanti, bagni separati e, a
volte, persino le pause-tè. Ma bere il tè non aiuta il lavoratore ad
arrivare alla fine del mese e appena emergono le vere questioni sociali -
come i salari, la presenza dei sindacati, le ore di straordinario - il tono,
come abbiamo visto, muta rapidamente.

A trarre il massimo profitto dalla responsabilità sociale rappresentata dal
codice di condotta non è... l'impresa stessa? Da un lato, come ricorda
Vijayabaskar, «Ikea ha scaricato i costi della sua politica sociale sui suoi
fornitori». Dall'altro, essa può rivalutare la sua immagine attraverso
questo impegno a costo zero, mantenendosi con una precisione da metronomo
appena sopra la soglia di tolleranza per l'Occidente: il lavoro dei bambini.

Questi progressi sono acquisiti a buon mercato tanto più facilmente in
quanto gli impegni dell'Iway non appaiono affatto vincolanti.

La presunta responsabilità sociale di Ikea non riesce nemmeno a sottrarre
alla miseria totale alcuni suoi dipendenti. Per proclamarsi davvero «etica»,
la multinazionale dovrebbe consentire una vita decente ai lavoratori. E non
parliamo di lusso, di televisione o di telefono cellulare. Ma di mangiare
carne più spesso, di non dover ritirare dalla scuola i propri figli per
mancanza di denaro, facendogli perdere un anno scolastico, di non dover
mettere insieme due lavori, di godere di un vero giorno di riposo senza
dover recuperare tutti i lavori di casa di una settimana. Per non dire di
consentire che Shiva si offra un piccolo lusso tra gli scaffali di
Ikea...note:
* Rispettivamente giornalista, ricercatore e segretario generale
dell'Oxfam-Magasin du monde (Belgio), autori di Ikea, un modèle à demonter,
Luc Pire, Bruxelles, 2006, 108 pagine, 15 euro.

Note:

(1) Read Me, rivista internazionale interna di Ikea, n. 1 marzo 2006.

(2) «Un Ikea o niente!», dossier «Ikea: la secte mondiale du kit», Courrier
International, n. 722, Parigi, 2-8 settembre 2004.

(3) www.ipetitions.com/campaigns/ POUR_ IKEA_MOUGINS
(4) Ikea, «Social & environmental responsibility report 2005».

(5) «Trying to assemble a perfect reputation», The Observer, Londra, 25
novembre 2001.

(6) Frasi tratte dal «Testamento di un commerciante di mobili», citato in
estenso nella biografia autorizzata di Ingvar Kamprad: Bertil Torekull, Un
design, un destin. La saga Ikea, Michel Lafon, Parigi, 2000.

(7) Il documentario tedesco Mattan è citato da Manuel Balza e Davor
Radojicic, «Corporate social responsibility and nongovernmental
organizations», Avdelmng, Linköping, 30 gennaio 2004. I reportage svedesi
sono stati citati da Susa Christopherson e Nathan Lillie, «Neither global
nor standard: Corporate strategies in the era of new labor standard»,
University of Oxford, novembre 2003, e Lowry Miller, Piore Adam e Theil
Stefan, «The Teflon shield: Trench war», Newsweek International, 12 marzo
2001. Cfr. anche «Ikea accused of exploiting child workers», BBC, Londra, 23
dicembre 1997.

(8) Iway Standard, point 15.

(9) Poiché diverse persone intervistate hanno manifestato il timore di
perdre il lavoro se fossero state riconosciute, tutti i nomi dei lavoratori
sono stati cambiati.

(10) Disponibile su www.madeindignity.be.

(11) Ikea, «Social & Environmental responsibility report 2005».

(12) Ibid.

(Traduzione di A. D'A.)

(Fonte: Le Monde Diplomatique, 17 gennaio 2007)
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