"La Stampa" contro il commercio equo



L'articolo seguente riportato su "La Stampa" del 10/9/2006 cerca di gettare
fango sul commercio equo e solidale nel suo complesso prendendo spunto da
un "reportage dettagliato" del Financial Times (a detta della giornalista).
La giornalista non parla a fondo dello scandalo presunto legato a
Fairtrade, ma generalizza la truffa partendo da questa osservazione: "Come
conferma un produttore di caffè solidale, «nessun certificatore può
garantire che sarà comprato il 100% della produzione di una cooperativa,
quindi come è possibile assicurare che ogni confezione soddisferà gli
standard?»"
Quest'ultima affermazione, intanto è poco comprensibile: non si capisce
perchè una cooperativa debba vendere tutta la sua produzione?! Ma forse la
giornalista, nella foga del suo delirio intendeva dire che non si può
dimostrare la provenienza di tutti i prodotti. Allora comunque non dimostra
nulla, non cita la fonte della "rivelazione" (forse in realtà è stata
suggerita da un amico incontrato al bar); ma comunque il tutto è
sufficiente per essere il pretesto di una serie di calunnie pesantissime a
tutte le organizzazioni di commercio equo.
Penso che chi ha scritto tale articolo non sia in buona fede e invito a
sommergere di lettere "La Stampa" e a girare questa informazione a tutte le
organizzazioni di commercio equo e solidale italiane in modo che possano
difendersi da sè.
Inoltre leggendo l'ultima frase dell'articolo penso che ognuno di noi possa
sentirsi insultato personalmente, quindi spero almeno che "La Stampa" venga
sommersa di lettere di protesta.
Ciao
Marco
"Solo due cose sono infinite, l'universo e la stupidità umana, e non sono
sicuro della prima." [Albert Einstein]

UN'INCHIESTA DEL FINANCIAL TIMES SVELA TUTTI GLI INGHIPPI E GLI INGANNI DEL
COMMERCIO «ETICO»
				Caffè solidale, invece è una truffa
				di Carla Reschia

				 BASTA digitare in rete
<http://www.fairtrade.org.uk>www.fairtrade.org.uk, indirizzo internet
dell'organizzazione leader del commercio equo e solidale, per avvertire che
un mondo diverso non è solo possibile, ma già c'è. Come dimostra la
galleria fotografica del sito, che pare un reportage del National
Geographic. Africa, Asia e Sud America come non le avete mai viste. Colori
smaglianti, piantagioni modello, volti sorridenti, cortili lindi, casette
colorate, signore in sari che raccolgono foglioline di thè come fossero
orchidee, contadini che nemmeno l'uomo Del Monte. Per scorgere il serpente
che, invisibile, inevitabile, si arrotola in ogni paradiso terrestre, si
consiglia invece la lettura del Financial Times. Si scopre così che
l'ottimo caffè etico scelto anche da grandi catene multinazionali in vena
di correttezza come Mc Donald e Starbucks è molto, troppo amaro. Lo
racconta Hal Weitzman in un dettagliato reportage dal Perù, principale
fornitore del caffè Fairtrade. Primo: i lavoratori impiegati dalle
associazioni che aderiscono alla fondazione sono pagati al di sotto del
minimo legale. Secondo: caffè di origine ignota viene contrabbandato per
certificato e venduto come tale. Terzo: una parte del caffè «equo e
solidale» cresce in aree protette, o che almeno dovrebbero esserlo, come le
foreste pluviali. Alla faccia dell'ambiente. Lo ha scoperto, grazie alle
immagini satellitari, una ong canadese. Tutto ciò, osserva sobriamente il
quotidiano, «getta il dubbio sul processo di certificazione usato da
Fairtrade e marchi similari». A dir poco. Come conferma un produttore di
caffè solidale, «nessun certificatore può garantire che sarà comprato il
100% della produzione di una cooperativa, quindi come è possibile
assicurare che ogni confezione soddisferà gli standard?» Il problema, in
termini puramente economici, appare piccolo perché il caffè «politicamente
corretto» rappresenta meno del 2% del commercio mondiale del settore. Ma è
una nicchia che tira, in espansione costante. E che non riguarda solo il
caffè, ma anche zucchero, cioccolato, banane, miele, riso, fiori,
cosmetici, birra, vino e persino gli immancabili palloni da calcio. Basta
tornare a dare un'occhiata al sito www.fairtrade alla voce «merchandise».
C'è persino una bananona di plastica, pure lei, chissà come, Fairtrade, al
modico prezzo di 10 dollari. Il fatto è che il marchio «equo e solidale» -
così come quello gemello di «prodotto biologico» - per un numero crescente
di acquirenti occidentali sta diventando il viatico per consumare senza
sentirsi troppo in colpa. Senza farsi andare tutto di traverso al pensiero
che si sta rovinando ciò che resta dell'Amazzonia, o facendo sciogliere il
Polo Nord e/o affamando poveracci già sull'orlo della miseria. Non a caso,
dai piccoli negozi alternativi la moda si sta estendendo a grandi aziende
lontanissime dalla filosofia no profit, mentre i governi fanno a gara nel
favorire imprese tanto virtuose con sgravi fiscali e agevolazioni
assortite. Ultimo, non secondario dettaglio: i prodotti equi costano più
dei loro omologhi «scorretti». Perché sono più onerosi all'origine, non
nascono da uno sfruttamento, è la vulgata militante. Ma se all'origine
costano uguale, o meno, e sfruttano lo stesso, compresa la buona fede di
chi acquista, allora si chiama truffa. Ad esempio, quattro delle cinque
piccole imprese certificate Fairtrade visitate dall'inviato del Financial
Times in Perù, pagano ai lavoranti a giornata 10 sol, circa tre dollari
(solo una arriva a 12) per un orario no-stop dalle 6 del mattino alle 16,30
del pomeriggio. Là dove la tariffa minima è di 11,20 sol. In molti casi, si
precisa, non sono inganni perpetrati coscientemente, ma di un circolo poco
virtuoso di inadeguatezza. «I coltivatori pagano meno perché non ce la
fanno. Sono loro per primi a guadagnare meno di ciò che è stimato per
legge», osserva un certificatore. Ammettendo l'impossibilità di controlli
che vadano tanto in profondità e nel dettaglio da eliminare il problema.
C'è chi poi invoca - anche qui - la perversione insita nelle leggi di
mercato: all'inizio, quando davvero erano prodotti di nicchia, il
meccanismo funzionava. Da quando tutti vogliono il «caffè etico» il sistema
è impazzito e per soddisfare la domanda si fa di tutto. Compreso il vecchio
trucco di far passare per «etico» caffè qualsiasi comprato chissà dove da
chissà chi. Resta il fatto che, fra tanta etica, alla fine qualcuno si
trova a pagare più del dovuto qualcosa che non è quello che dovrebbe
essere. Danneggiando se stesso senza aver portato beneficio ad altri.
Secondo l'economista Carlo Cipolla è la definizione migliore di stupido.