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"La Stampa" contro il commercio equo
- Subject: "La Stampa" contro il commercio equo
- From: "Marco Penno" <marcosbiro at gmail.com>
- Date: Wed, 13 Sep 2006 13:17:32 +0200
L'articolo seguente riportato su "La Stampa" del 10/9/2006 cerca di gettare fango sul commercio equo e solidale nel suo complesso prendendo spunto da un "reportage dettagliato" del Financial Times (a detta della giornalista). La giornalista non parla a fondo dello scandalo presunto legato a Fairtrade, ma generalizza la truffa partendo da questa osservazione: "Come conferma un produttore di caffè solidale, «nessun certificatore può garantire che sarà comprato il 100% della produzione di una cooperativa, quindi come è possibile assicurare che ogni confezione soddisferà gli standard?»" Quest'ultima affermazione, intanto è poco comprensibile: non si capisce perchè una cooperativa debba vendere tutta la sua produzione?! Ma forse la giornalista, nella foga del suo delirio intendeva dire che non si può dimostrare la provenienza di tutti i prodotti. Allora comunque non dimostra nulla, non cita la fonte della "rivelazione" (forse in realtà è stata suggerita da un amico incontrato al bar); ma comunque il tutto è sufficiente per essere il pretesto di una serie di calunnie pesantissime a tutte le organizzazioni di commercio equo. Penso che chi ha scritto tale articolo non sia in buona fede e invito a sommergere di lettere "La Stampa" e a girare questa informazione a tutte le organizzazioni di commercio equo e solidale italiane in modo che possano difendersi da sè. Inoltre leggendo l'ultima frase dell'articolo penso che ognuno di noi possa sentirsi insultato personalmente, quindi spero almeno che "La Stampa" venga sommersa di lettere di protesta. Ciao Marco "Solo due cose sono infinite, l'universo e la stupidità umana, e non sono sicuro della prima." [Albert Einstein] UN'INCHIESTA DEL FINANCIAL TIMES SVELA TUTTI GLI INGHIPPI E GLI INGANNI DEL COMMERCIO «ETICO» Caffè solidale, invece è una truffa di Carla Reschia BASTA digitare in rete <http://www.fairtrade.org.uk>www.fairtrade.org.uk, indirizzo internet dell'organizzazione leader del commercio equo e solidale, per avvertire che un mondo diverso non è solo possibile, ma già c'è. Come dimostra la galleria fotografica del sito, che pare un reportage del National Geographic. Africa, Asia e Sud America come non le avete mai viste. Colori smaglianti, piantagioni modello, volti sorridenti, cortili lindi, casette colorate, signore in sari che raccolgono foglioline di thè come fossero orchidee, contadini che nemmeno l'uomo Del Monte. Per scorgere il serpente che, invisibile, inevitabile, si arrotola in ogni paradiso terrestre, si consiglia invece la lettura del Financial Times. Si scopre così che l'ottimo caffè etico scelto anche da grandi catene multinazionali in vena di correttezza come Mc Donald e Starbucks è molto, troppo amaro. Lo racconta Hal Weitzman in un dettagliato reportage dal Perù, principale fornitore del caffè Fairtrade. Primo: i lavoratori impiegati dalle associazioni che aderiscono alla fondazione sono pagati al di sotto del minimo legale. Secondo: caffè di origine ignota viene contrabbandato per certificato e venduto come tale. Terzo: una parte del caffè «equo e solidale» cresce in aree protette, o che almeno dovrebbero esserlo, come le foreste pluviali. Alla faccia dell'ambiente. Lo ha scoperto, grazie alle immagini satellitari, una ong canadese. Tutto ciò, osserva sobriamente il quotidiano, «getta il dubbio sul processo di certificazione usato da Fairtrade e marchi similari». A dir poco. Come conferma un produttore di caffè solidale, «nessun certificatore può garantire che sarà comprato il 100% della produzione di una cooperativa, quindi come è possibile assicurare che ogni confezione soddisferà gli standard?» Il problema, in termini puramente economici, appare piccolo perché il caffè «politicamente corretto» rappresenta meno del 2% del commercio mondiale del settore. Ma è una nicchia che tira, in espansione costante. E che non riguarda solo il caffè, ma anche zucchero, cioccolato, banane, miele, riso, fiori, cosmetici, birra, vino e persino gli immancabili palloni da calcio. Basta tornare a dare un'occhiata al sito www.fairtrade alla voce «merchandise». C'è persino una bananona di plastica, pure lei, chissà come, Fairtrade, al modico prezzo di 10 dollari. Il fatto è che il marchio «equo e solidale» - così come quello gemello di «prodotto biologico» - per un numero crescente di acquirenti occidentali sta diventando il viatico per consumare senza sentirsi troppo in colpa. Senza farsi andare tutto di traverso al pensiero che si sta rovinando ciò che resta dell'Amazzonia, o facendo sciogliere il Polo Nord e/o affamando poveracci già sull'orlo della miseria. Non a caso, dai piccoli negozi alternativi la moda si sta estendendo a grandi aziende lontanissime dalla filosofia no profit, mentre i governi fanno a gara nel favorire imprese tanto virtuose con sgravi fiscali e agevolazioni assortite. Ultimo, non secondario dettaglio: i prodotti equi costano più dei loro omologhi «scorretti». Perché sono più onerosi all'origine, non nascono da uno sfruttamento, è la vulgata militante. Ma se all'origine costano uguale, o meno, e sfruttano lo stesso, compresa la buona fede di chi acquista, allora si chiama truffa. Ad esempio, quattro delle cinque piccole imprese certificate Fairtrade visitate dall'inviato del Financial Times in Perù, pagano ai lavoranti a giornata 10 sol, circa tre dollari (solo una arriva a 12) per un orario no-stop dalle 6 del mattino alle 16,30 del pomeriggio. Là dove la tariffa minima è di 11,20 sol. In molti casi, si precisa, non sono inganni perpetrati coscientemente, ma di un circolo poco virtuoso di inadeguatezza. «I coltivatori pagano meno perché non ce la fanno. Sono loro per primi a guadagnare meno di ciò che è stimato per legge», osserva un certificatore. Ammettendo l'impossibilità di controlli che vadano tanto in profondità e nel dettaglio da eliminare il problema. C'è chi poi invoca - anche qui - la perversione insita nelle leggi di mercato: all'inizio, quando davvero erano prodotti di nicchia, il meccanismo funzionava. Da quando tutti vogliono il «caffè etico» il sistema è impazzito e per soddisfare la domanda si fa di tutto. Compreso il vecchio trucco di far passare per «etico» caffè qualsiasi comprato chissà dove da chissà chi. Resta il fatto che, fra tanta etica, alla fine qualcuno si trova a pagare più del dovuto qualcosa che non è quello che dovrebbe essere. Danneggiando se stesso senza aver portato beneficio ad altri. Secondo l'economista Carlo Cipolla è la definizione migliore di stupido.
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