rassegna stampa: QUANDO L'ACQUA E' UN PROBLEMA



a cura di AltrAgricoltura Nord Est
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tratto da "Il manifesto" - 22 marzo 2006
QUANDO L'ACQUA E' UN PROBLEMA
MORTI DI SETE
Nel mondo sono oltre un miliardo e cento milioni le persone che non
dispongono di acqua potabile, tra questi 400 milioni sono bambini africani.
E 34 mila coloro che ogni giorno muoiono non avendo l'accesso a questo bene
essenziale. Oltre due miliardi e mezzo non dispongono nemmeno dei più comuni
servizi igienico-sanitari. Le malattie legate alla cattiva qualità o alla
mancanza di acqua uccidono annualmente oltre 8 milioni di esseri umani.
Nell'Africa sub-sahariana la situazione peggiore: il 42% della popolazione
non può bere acqua potabile e solo il 36% dispone di un gabinetto. In Asia
meridionale e orientale i servizi igienico-sanitari sono il problema
principale di sopravvivenza.

BAMBINI A RISCHIO
Sono però i bambini a pagare il prezzo più alto. Le precarie condizioni
igieniche e le malattie legate al consumo d'acqua contaminata, rivela
l'Unicef, uccidono più bambini sotto i cinque anni di qualsiasi altra
malattia: 4.500 ogni giorno.

ITALIANI SCIALACQUONI
Oltre 50 milioni sono le persone che rischiano quotidianamente la vita
abitando in territori ricchi di falde acquifere inquinate e che vengono a
contatto con pericolose sostanze, come l'arsenico e il fluoro. Il consumo di
acqua potabile per uso domestico varia in media tra 12 e 50 litri al giorno
per abitante nei paesi africani, mentre sale tra 170 e 250 litri in quelli
europei, con gli italiani a guidare questa speciale classifica.

E ANCHE GLI AMERICANI
Gli Stati Uniti sono invece il paese che la utilizza di più al mondo: sono
infatti oltre 700 i litri d'acqua che ogni americano usa quotidianamente.
L'Organizzazione Mondiale della Sanità afferma che al di sotto della soglia
di 50 litri al giorno si può già parlare di sofferenza per mancanza d'acqua.
Si prevede che nel 2020 quasi 3 miliardi di persone non avranno accesso a
questo bene primario.
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La crisi dei «padroni dell'acqua»
Si è chiuso a Città del Messico il IV forum mondiale. La ribellione dei
paesi sudamericani mette in crisi il modello neoliberista
Sull'altro fronte, il forum alternativo chiede compatto la gestione pubblica
delle risorse idriche. E progetta mobilitazioni
GIANNI PROIETTIS
CITTA' DEL MESSICO
L'acqua è un bene comune, un diritto umano universale e inalienabile o è una
necessità che va soddisfatta mediante un servizio, soggetto quindi alle
leggi del mercato? Questo dilemma, che ci poniamo raramente quando apriamo
un rubinetto in casa nostra, ha mobilitato decine di migliaia di persone in
questi giorni a Città del Messico. Dalla sua soluzione, tutt'altro che
filosofica, dipende il destino di una parte consistente dell'umanità e
dell'intero pianeta. Il 4° Forum mondiale dell'acqua, che ha riunito
governi, organismi internazionali e imprese, ha mostrato che i «padroni
dell'acqua» giocano in difesa e che il progetto neoliberale di
accaparramento e mercificazione delle risorse idriche mondiali, per quanto
avanzato, non avrà vita facile.

Le Jornadas en defensa del agua, animate negli stessi giorni da accademici,
ecologisti e organizzazioni della società civile, hanno annunciato una dura
battaglia contro le multinazionali del settore e i governi e gli organismi
internazionali che le assecondano. La dichiarazione finale del foro
alternativo, il più qualificato dei due a livello scientifico e di autorità
morale, è stata resa pubblica domenica scorsa e crea un fronte comune, a cui
partecipano attivisti e organizzazioni di più di 40 paesi, per la difesa del
diritto all'acqua. Secondo l'italiano Renato Di Nicola, che ha partecipato
alla stesura del documento, «la dichiarazione è frutto di un processo
democratico, che ha raccolto tutti gli interventi di questi giorni, in
contrasto con il forum ufficiale, che non presentava una struttura
partecipativa».

Intitolata El derecho al agua es posible: gestión pública participativa, la
dichiarazione del foro alternativo presenta una piattaforma unitaria che si
articolerà, a partire da settembre, in una serie di iniziative locali
dirette alla costruzione di un movimento mondiale. Il progetto prevede la
creazione di un quadro normativo internazionale che garantisca la gestione
pubblica delle risorse idriche, una serie di campagne contro
l'appropriazione e la mercificazione dell'acqua oltre alla moltiplicazione
dei tribunali dell'acqua in tutti i paesi. Un altro obiettivo consiste
nell'obbligare imprese e governi a riparare tutti i danni alla salute umana
e agli ecosistemi che provocano e a favorire tecnologie pulite, impianti di
potabilizzazione e riciclaggio così come campagne informative sull'uso
appropriato dell'acqua.

Molto più diviso e confuso del fronte altermundista, il foro ufficiale ha
avuto serie difficoltà per arrivare alla redazione di un documento che
accontentasse tutti i partecipanti e si è trovato a fronteggiare
l'imprevista opposizione di alcuni paesi - fra cui Francia, Spagna,
Venezuela e Messico - capeggiata dal nuovo governo boliviano. Abel Mamani,
ministro dell'acqua di Bolivia, si è rifiutato di firmare qualsiasi
documento che non menzioni chiaramente l'acqua come un «diritto umano. La
Bolivia, di fatto, ha al suo attivo una delle poche battaglie vincenti nella
guerra dell'acqua. Nel 1999, il governo boliviano, seguendo le ricette della
Banca Mondiale, aveva concesso all'impresa Bechtel, un gigante del settore,
la gestione e la distribuzione dell'acqua nella città di Cochabamba. Questa
concessione non solo violentava le forme tradizionali di distribuzione, ma
espropriava i pozzi, sia privati che comunitari, e incrementava le tariffe.

Una vera e propria sollevazione cittadina, nell'aprile 2000, obbligò il
governo a rescindere il contratto. Con una contromossa che la dice lunga sul
codice di comportamento delle multinazionali, la Bechtel chiese allora un
indennizzo di 25 milioni di dollari per i mancati profitti. Dopo un lungo
iter giudiziario, la richiesta dell'impresa è stata finalmente bocciata in
sede legale.

Dopo la grande manifestazione di giovedì scorso a Città del Messico, la
società civile ha fatto sentire ancora la sua voce: decine di ecologisti e
di rappresentanti di ong hanno fatto irruzione domenica nel Centro Banamex,
che ospitava il foro ufficiale, gridando slogan contro la privatizzazione e
la mercificazione dell'acqua. I manifestanti agitavano bottiglie di plastica
vuote con dentro delle monete. Loïc Fauchon, presidente del Consiglio
Mondiale dell'Acqua, un organismo privato che raggruppa le maggiori
multinazionali del settore, ha tentato di spostare il problema, mostrando la
strategia di ripiego dei neoliberisti. «Oggi il problema principale - ha
affermato - è il cattivo uso della risorsa e non il conflitto sul fatto che
l'acqua deve stare in mani private o pubbliche».
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Dove l'«oro blu» è firmato Coca Cola
Cosa bevono gli indios messicani Nel paese che ha ospitato il forum dieci
milioni di persone non hanno accesso all'acqua potabile. Tra questi
soprattutto gli indigeni. E il mercato è in mano alla Coca Cola, che
imperversa nell'imbottigliamento e nella perforazione di pozzi. Grazie alla
privatizzazione selvaggia cominciata negli anni '80
CLAUDIO ALBERTANI
CITTA' DEL MESSICO
Dopo due decenni di neoliberismo, la parola privatizzare ha perso buona
parte del suo fascino. Lo si è visto al IV Foro mondiale dell'acqua,
conclusosi ieri a Città del Messico, dove tutti - dalla Banca Mondiale a
Michel Camdessus, ex direttore dell'Fmi, da José Angel Gurría, ex ministro
delle finanze del Messico e attuale segretario generale dell'Ocse, ad
AquaFed, l'associazione internazionale degli operatori privati dell'acqua -
hanno negato l'accusa di voler convertire l'acqua in una mercanzia. Di
fronte a un tema politicamente esplosivo, preferiscono parlare di
«partecipazione» e «decentralizzazione». La ricetta però è la stessa: alzare
i prezzi «fino a far male», secondo la formula poco fortunata di un ex
ministro messicano. Molto diversa, invece, è la problematica emersa dai
molteplici fori alternativi che si sono realizzati in differenti punti della
città. Associazioni popolari, comunità indigene, economisti, scienziati e
giuristi si sono trovati d'accordo nell'affermare che il mondo è sull'orlo
di nuovi e sanguinosi conflitti che ruotano intorno alla questione
dell'acqua. Di chi è la colpa? Il verdetto è unanime: delle grandi compagnie
e di politiche di stato irresponsabili. Il caso del Messico è paradigmatico.
Fiumi in secca, manti freatici esauriti, pozzi inquinati, cambiamenti
climatici globali e catastrofi definite naturali come i terribili uragani
della scorsa stagione. Inoltre, più di 10 milioni di messicani non hanno
accesso alla rete pubblica dell'acqua potabile. Nei cinque stati dove si
concentra la popolazione indigena (Chiapas, Guerrero, Oaxaca, Veracruz e
Yucatán) la situazione peggiora. Qui, il 25% dei giovani (in gran parte di
sesso femminile) raggiunge a piedi la fonte più vicina e trasporta in spalla
i secchi d'acqua per uso domestico. Come spiegare una tale situazione? Le
radici del problema risalgono agli anni Ottanta, quando lo stato smise di
essere il principale agente dello sviluppo sociale per limitarsi ad essere
garante del mercato. Secondo gli imperativi neoliberisti, bisognava inserire
l'acqua nel circuito economico, smantellando i servizi pubblici e le ultime
vestigia delle organizzazioni comunitarie tradizionali. La mercificazione ha
seguito molte strade. Una è la concessione a privati dello sfruttamento di
sorgenti, pozzi, acquedotti e canali, in spregio alla costituzione messicana
che lo proibisce. Di fronte al cattivo stato degli acquedotti e
all'inefficienza delle istituzioni pubbliche, le multinazionali si
presentano come un'alternativa efficiente. L'esperienza, però, è disastrosa.

Quasi a smentire i dogmi neoliberisti, ad Aguascalientes, città dove la
gestione dell'acqua potabile è in mano al gigante Vivendi, si è avuta
un'impennata dei prezzi accompagnata da un peggioramento del servizio. Non è
un caso isolato visto che situazioni analoghe si presentano anche a Cancún,
Navojoa e Saltillo. Di fronte all'esaurimento progressivo delle sorgenti,
un'organizzazione del Chiapas, il Consejo de Médicos y Parteras Indígenas
Tradicionales, denuncia che i signori dell'acqua stanno mettendo gli occhi
sulla selva Lacandona, polmone dell'America Centrale ed ultima grande
riserva idrica del Messico. Come in Europa, un'altra via maestra della
privatizzazione è lo stimolo al consumo di acqua imbottigliata a detrimento
di quella del rubinetto, truffa colossale visto che gli imbottigliatori non
usano acqua di fonte, ma quella della rete pubblica. In Messico vi sono
comunità indigene nelle quali le famiglie spendono in Coca Cola il 20 per
cento delle magre entrate di 40 pesos il giorno (circa tre euro). Va detto
che l'onnipresente Coca Cola possiede in Messico decine di imprese
d'imbottigliamento e perfora pozzi a suo piacimento con concessioni di 50
anni a prezzi ridicoli. Le ultime barriere sono cadute due anni fa, quando
il Parlamento ha approvato una riforma alla Legge delle Acque Nazionali che
legalizza le concessioni, stimolando i comuni a privatizzare il servizio a
cambio di ottenere finanziamenti per programmi sociali. Il risultato è che
si stanno privatizzando anche i fiumi: nel 2002, l'imprenditore Rafael Zarco
Dunkerley, amico del presidente Fox, ha ottenuto una concessione di 30 anni
per trasportare le acque del fiume Panico da Tampico fino a Monterrey.

La crisi dell'acqua presenta anche risvolti geopolitici. In Bassa
California, ad esempio, gli agricoltori lottano contro il prosciugamento del
fiume Colorado, il cui delta era fino a pochi anni fa un paradiso naturale.
Il disastro è provocato dalla decisione da parte delle autorità statunitensi
di deviare il suo corso in direzione di Los Angeles e delle agroindustrie
californiane. Un altro gravissimo problema è quello delle grandi dighe, il
miraggio degli anni Cinquanta. Non importa se è ormai dimostrato che a lungo
andare provocano danni irreparabili. Il Messico ne ha in cantiere 56, gran
parte delle quali si trova in territori indigeni, il che significa
un'intensificazione della guerra che da tempo lo stato messicano conduce
contro le comunità. Prendiamo il caso di una diga idroelettrica in progetto,
La Parota, sul fiume Papagayo, a pochi chilometri dal porto di Acapulco. Se
dovesse costruirsi - ed è molto probabile che succeda - inonderebbe 24
villaggi oltre a una quantità imprecisata di terre agricole. Da anni, i 25
mila campesinos coinvolti si trovano sul piede di guerra. Dopo aver fondato
il Consejo de Ejidos y Comunidades Opositoras, hanno dato vita al Movimiento
Mexicano de Afectados por las Presas y en Defensa de los Ríos (Mapder) i cui
partecipanti si dichiarano «in resistenza totale e permanente contro la
costruzione delle dighe nel paese». Il Mapder è un'alleanza legata a livello
continentale con la Red Internacional de Ríos di San Francisco, California,
e con il Movimiento Mesoamericano contra las Presas. Quest'ultimo, che oltre
al Messico comprende i paesi centroamericani, si oppone alla costruzione di
circa 350 dighe nella regione. Il movimento esige che lo stato messicano
ripari i danni arrecati nel passato a più di 100mila persone, il risanamento
degli ecosistemi, la modifica della legislazione in materia d'acqua e medio
ambiente ed il rispetto del diritto delle popolazioni all'acqua, stabilito
dal Trattato 169 dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro, di cui il
Messico è firmatario.

Una vera e propria guerra dell'acqua è in corso tra gli indigeni mazahua
della regione del fiume Cutzamala e la Comisión Nacional del Agua. Situato
nel cuore dell'altopiano centrale, il sistema del Cutzamala soddisfa una
parte importante del fabbisogno di Città del Messico. Tuttavia, mentre gran
parte delle comunità mazahua soffre della mancanza d'acqua potabile, circa
il 38% dell'acqua spedita a Città del Messico si disperde a causa del
cattivo stato dell'acquedotto. Negli anni scorsi, sull'onda lunga della
ribellione degli indigeni del Chiapas, le donne mazahua hanno creato un
Ejército zapatista de mujeres en defensa del agua. Armate di rudimentali
fucili di legno, machete e attrezzi agricoli, hanno bloccato in varie
occasioni l'impianto di purificazione. Le donne mazahua denunciano la
politica idraulica del Messico come ingiusta perché «giova solo agli
abitanti delle grandi città», esigendo che il governo provveda la comunità
di acqua potabile e risani le foreste. Per il momento non hanno avuto
successo, però hanno sollevato un'ondata di simpatia nazionale.
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