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R: "rassegna stampa: Bangladesh, una moderna storia di povertà
- Subject: R: "rassegna stampa: Bangladesh, una moderna storia di povertà
- From: "Giuseppe Palermo" <peppe_palermo at aliceposta.it>
- Date: Sun, 27 Nov 2005 12:15:39 +0100
- Importance: Normal
Conrad direbbe amaramente: "un avamposto del progresso". Lo scritto interessa: ai naturalisti, per via della distruzione radicale degli ecosistemi; ai seguaci del "consumo critico" (con dubbi annessi: boicottare queste merci prodotte con uno sfruttamento bestiale e aggravare così la miseria degli sfruttati?); a politici, economisti, missionari, ecc. La fonte è "Le monde diplomatique". -----Messaggio originale----- Da: consumocritico-request at peacelink.it [mailto:consumocritico-request at peacelink.it] Per conto di Altragricoltura Inviato: domenica 27 novembre 2005 11.35 A: consumocritico at peacelink.it Oggetto: "rassegna stampa: BANGLADESH, UNA MODERNA STORIA DI POVERTÀ La globalizzazione dei mercati è l'asse attorno al quale tutti i governi strutturano quel "nuovo" ordine sociale ed economico che dovrebbe garantire un nuovo rinascimento all'intera umanità. Ci sono però particolari del fenomeno "globalizzazione" dei mercati, che emergono dalle pagine dei quotidiani e non vengono mai raccontati dai governi ed organismi sovranazionali come la Banca Mondiale, che ci fanno fortemente dubitare sulla veridicità dello scopo dichiarato e soprattutto sui pretesi effetti di essere motore per lo sviluppo di diritti, l'accesso al reddito, alla democrazia etc., per la popolazione dell'intero pianeta. Vi segnaliamo uno di questi "particolari" descritto dalla rivista "Le monde diplomatique" di settembre 2005. a cura di AltrAgricoltura Nord Est ------------------------------------------ BANGLADESH, UNA MODERNA STORIA DI POVERTÀ Destinate ai mercati occidentali, la produzione di gamberi e l'industria del prêt-à-porter avrebbero dovuto liberare il Bangladesh dalla miseria. Ma per sviluppo, gli abitanti del paese hanno avuto soprattutto povertà e violazione dei diritti umani. Mentre le elezioni offrono alle «élite» una legittimità internazionale, a fronte di una democrazia rappresentativa bloccata, un numero crescente di bengalesi si rivolge al mondo associativo, inventore di nuove forme di democrazia diretta e di autogestione. Regione di Khulna, nel sud-ovest del Bangladesh. La frazione di Baro Ari è nascosta tra gli infiniti meandri delle braccia del Gange. Arrivare fin qui non è facile. Eppure, la globalizzazione liberista ha raggiunto il villaggio e la sua unica opportunità di mercato: il gambero. Nel 2000, alcuni notabili hanno aperto le dighe, che proteggevano le terre bonificate poste sotto il livello del mare, allagando con l'acqua salata le terre dei contadini poveri. Grazie alla complicità di una polizia corrotta, hanno riconvertito le terre inondate in redditizi bacini per l'allevamento di gamberi. «Non abbiamo più nulla», confessa Suranjan Kumar, il volto scavato dalla fame. Gli uomini che gli stanno intorno, una ventina, approvano. «Lavoriamo a volte come giornalieri, per 50 taka al giorno» (0,70 euro). Le condizioni di lavoro ricordano quelle dei servi della gleba: il contadino deve consegnare fino a due terzi del raccolto al proprietario fondiario. Per giunta, «il sale ha distrutto tutto», aggiunge Abu Sahid Gazhi, che ha passato undici mesi in prigione per aver protestato contro il furto delle sue terre. Un allevamento di gamberi moltiplica anche di cinque volte la salinità dei suoli. I bacini sono spesso deliberatamente mal arginati per sterilizzare le terre vicine, cacciarne i contadini ed estendere l'acquacoltura. «In questa regione non cresce più niente. I prezzi dei prodotti sono aumentati. Il sale fa ammalare il bestiame». Dagli anni '80, l'Asia e l'America latina producono su grande scala gamberi di allevamento, la cui richiesta è notevolmente aumentata nei paesi ricchi. Quinto produttore mondiale, il Bangladesh ha così convertito quasi 190.000 ettari di mangrovie e terre fertili in bacini di acquacoltura, che producono annualmente 30.000 tonnellate di crostacei. Quasi tutta la produzione è esportata verso i paesi del Nord: l'80% dei 143 milioni di bengalesi che, secondo la stima delle Nazioni unite, vive con meno di 2 euro al giorno, non può certo permettersi gamberi a 10 euro al chilo. Ma, grazie alle esportazioni, il Bangladesh è ormai parte integrante della globalizzazione e per la magia del famoso «trickle-down effect» (1), i redditi incamerati dovrebbero, in teoria, essere utili a tutta la popolazione. Giornalisti: rischi del mestiere A Baro Ari, l'acquacoltura ha creato posti di lavoro? «I lavoratori dei bacini sono dei mastaan, braccia forti che vengono da Khulna - sospira un contadino. Per campare siamo costretti a mandare i nostri figli a cercare larve di gamberi, da rivendere agli allevamenti». Per una larva di gambero raccolta, centinaia di larve di altre specie sono abbandonate sulla riva: la biodiversità scompare, la pesca rende l'80% in meno, secondo i pescatori della regione. Quanto ai consumatori occidentali, che mangiano questi gamberi... Gli sguardi si caricano di rabbia, i pugni si stringono: «Bevono il nostro sangue - si lascia sfuggire Kumar. Quanti bengalesi devono ancora morire per nutrire i bianchi?» L'idea di un possibile boicottaggio dei gamberi in Europa suscita una fragile speranza. Il gambero rappresenta per il Bangladesh quello che il pesce persico del Nilo è per la Tanzania, un «incubo di Darwin (2)»! Al di là del disastro sociale ed ecologico, gli allevamenti seminano morte: dal 1980, più di centocinquanta bengalesi sono stati uccisi per essersi opposti agli allevatori (3). A questa lista si possono aggiungere le migliaia di persone uccise nel sud-ovest del paese dallo tsunami, nel 1991: secondo un'inchiesta del Environmental Justice Foundation (Ejf), un'organizzazione non governativa britannica, un fenomeno di ampiezza simile, verificatosi nel 1960, non aveva provocato nessuna vittima. Nel frattempo, l'acquacoltura ha cancellato la mangrovia protettrice. Gli allevamenti sono però incoraggiati dalla Banca mondiale, dall'Organizzazione delle Nazioni unite per l'alimentazione e l'agricoltura (Fao) e dalla Banca asiatica per lo sviluppo. L'agenzia di sviluppo internazionale americana Usaid ha anche creato un'assistenza tecnica per controllare la qualità dei gamberi. Combattendo le epizoozie, questi filantropi intendono sviluppare il mercato del crostaceo bengalese e «arrivare a 1,25 miliardi di euro di entrate annue entro cinque anni», contro gli attuali 292 milioni (4). «Dove finiscono i soldi del commercio estero e chi ne trae profitto»? chiedeva, già nel 2000, Manik Chandra Saha, giovane giornalista di Khulna, costatando che l'acquacoltura aveva rovinato centinaia di migliaia di suoi compatrioti. Nel gennaio 2004, è stato ucciso da un gruppo armato noto per prestare i suoi sicari al miglior offerente. Nella sola regione di Khulna, dal 1990, tredici colleghi di Chandra Saha sono stati uccisi. Una violenza che fa del Bangladesh, dove la stampa è teoricamente libera, uno dei paesi a maggior rischio per i giornalisti. Le esportazioni ad alto valore aggiunto del Bangladesh non favoriscono che una minoranza. Tuttavia le imprese occidentali possono fare acquisti da questo zelante allievo del Fondo monetario internazionale (Fmi) (5) senza esporsi troppo agli strali dei difensori dei diritti umani, al contrario di quanto avviene nella vicina, totalitaria Birmania. I gamberi, infatti, non rappresentano che il 6% delle esportazioni nazionali. La principale attrattiva del Bangladesh è il prêt-à-porter - 75% delle esportazioni - , che nel 2004, secondo le statistiche ufficiali, ha prodotto 4,67 miliardi di euro. Le condizioni di lavoro dei due milioni di operai del tessile ricordano i romanzi di Charles Dickens. Produrre al minor costo per le imprese occidentali, nel timore che lascino il Bangladesh e si delocalizzino in un paese più «competitivo», è l'ossessione degli industriali locali (6). L'85% dei salariati è composto da giovani donne che fuggono la miseria delle campagne e sono ignare dei loro diritti. Lavorano dodici ore al giorno, talvolta di più, spesso sette giorni su sette, per cifre che vanno dai 13 ai 30 euro al mese. Chiuse a chiave, perquisite all'uscita, le operaie non hanno il diritto di parlare tra di loro. La libertà sindacale è del tutto teorica, le «sovversive» sono licenziate: di conseguenza meno di una su cento ha la tessera di un'organizzazione sindacale. Ci sono testimonianze di stupri da parte del personale responsabile e, dal 1990, quasi trecento lavoratrici sono morte a causa di incendi (7). Sul suo sito Internet però, l'Associazione bengalese dei produttori ed esportatori di prêt-à-porter (Bgmea), si vanta di «proibire il lavoro minorile», aspettandosi magari dei complimenti... La mattina del 10 aprile 2005, nella zona franca di Savar, a pochi chilometri da Dacca, una fabbrica di nove piani è crollata sugli operai, causando la morte di un centinaio di loro e un numero imprecisato di dispersi. Il giorno dopo l'incidente, la polizia antisommossa si era già mobilitata per fronteggiare la collera dei parenti delle vittime. Perché la tragedia non era dovuta a fatalità: costruito su un terreno umido, l'immobile aveva avuto il permesso solo per quattro piani. Ma, pur di onorare gli ordini dei clienti europei, i proprietari erano andati oltre. Sedici ore prima del sinistro, alcuni operai avevano avvisato la direzione che si erano evidenziate delle crepe. Senza suscitare la minima reazione. La polizia, sempre pronta ad ammazzare sommariamente piccoli malviventi e a sparare sugli scioperanti (8), «non ha trovato» i padroni responsabili della tragedia. Uno di loro è il genero di un deputato della maggioranza... Il 22 aprile, il noto quotidiano The Daily Star, scrive: «I proprietari sono troppo potenti per essere interrogati. L'appartenenza di classe fa la differenza, consentendo che i privilegiati sfuggano alle loro responsabilità e i deboli ["underprivileged"] vengano sfruttati». Le responsabilità del sistema-moda A Barcellona, Inditex (Zara), l'impresa committente, ha promesso di agire a favore delle vittime. Il gruppo precisa di produrre il 60% dei suoi vestiti in Europa e di condurre, dall'ottobre 2004, un «controllo sociale» sui suoi 900 subappaltatori asiatici. Assunti tramite una società indiana, apparentemente all'insaputa di Inditex, gli operai della Savar sono però sfuggiti a questo controllo. «Conoscete questi marchi»? Nazma Akter, segretaria generale del Bangladesh Independant Garment Workers Union Federation (Biguf), ci tiene a mostrare le etichette dei vestiti che i suoi iscritti si ammazzano a produrre: Gap, H & M. Old Navy, Tesco, Ladybird, The North Face, Lee, Wrangler, Cherokee, Burton... «A quanto vendono questi vestiti? Gli europei devono sapere che queste imprese ci comprano ogni T-shirt a un euro al pezzo...» «Indirettamente, le imprese occidentali sono responsabili del livello di vita degli operai bengalesi - sostiene Amirul Haque Amin, segretario generale della National Garments Workers Federation (Ngwf). Cercano di comprare al prezzo più basso, il che porta i nostri padroni a pagarci al mimino. È la legge del mercato». Prodotti in Bangladesh in vere e proprie galere, questi vestiti, valorizzati dagli studi di marketing chiamati «moda», sono venduti in Europa con notevoli profitti. Ma allora, gli operai del Bangladesh chiedono agli europei di boicottare questi vestiti? «No, perché perderemmo il posto di lavoro». La Atker ritiene che il lavoro in fabbrica, per infernale che sia, rappresenti un fattore di emancipazione per le donne: «Un tempo restavano in campagna, senza lavoro, sottoposte a ogni tipo di violenza domestica». «Informate il pubblico europeo delle nostre condizioni di lavoro, affinché questi marchi si vergognino e facciano pressione sui nostri padroni», chiede tuttavia la Amin, che rivendica il raddoppio del salario minimo, da 930 a 1.800 taka (da 14 a 28 euro). Ma, con la fine dell'accordo multifibre, il 1° gennaio 2005, la competizione con il tessile cinese non fa prevedere niente di buono per gli operai bengalesi (9). Di fronte agli abusi, tuttavia, possono contare su un alleato di peso: la vasta rete delle Ong locali che mobilita milioni di semplici cittadini. La storia recente spiega la vitalità di questo movimento associativo. Durante la guerra di liberazione contro il Pakistan, nel 1971, i combattenti progressisti avevano riversato nella lotta la speranza di una trasformazione sociale. Oppressi dalle dittature degli anni '70 e '80, e a fronte della persecuzione della sinistra e del fallimento della guerriglia, hanno investito nel settore associativo, che lo stato tollera in quanto gli permette di affrancarsi a poco prezzo dalle sue responsabilità sociali. Devastato prima dalla guerra e dalla carestia (nel 1974), poi dalle inondazioni ricorrenti, il Bangladesh ha visto affluire donatori in grado di finanziare dei progetti. Per le élite e le classi medie di sinistra lavorare in una Ong vuol dire poter mettere in pratica le proprie idee. Più prosaicamente, queste organizzazioni offrono una possibilità di carriera al di fuori degli impieghi fagocitati dalle reti clientelari dei due partiti dominanti (si veda il riquadro sottostante). Certo, esistono gli abusi. Il micro-credito, ad esempio, inventato da Muhammad Yunus e dalla Grameen Bank, è diventato per alcuni «lavoratori sociali» un'opportunità di mercato, che porta i contadini a un indebitamento esorbitante (10). Simbolo della deriva commerciale, è anche «Grameen Phone», la rete di telefonia mobile della Grameen Bank. Emancipazione e dignità - Nigera Kori (Nk), un'organizzazione che conta diverse centinaia di migliaia di membri, rifiuta il micro-credito, perché ritiene che aumenti la dipendenza dei poveri. Nk intende al contrario sviluppare la loro emancipazione. Emancipazione economica, prima di tutto, che favorisce il risparmio piuttosto che l'indebitamento. Per esempio, mettono da parte un pugno di riso a ogni pasto e poi lo rivendono per investire in una nuova fonte di reddito: l'acquisto di una rete per la pesca, per il pollame...; il profitti sono suddivisi tra tutta la comunità. E poi emancipazione politica, che permette ai poveri di prendere coscienza e di rifiutare la loro oppressione. Poiché la democrazia diretta è la pratica usata per prendere decisioni, i gruppi di Nk possono lottare acro per acro contro gli allevamenti di gamberi, fare a botte contro il mastaans, resistere agli usurai, presentare ricorsi in tribunale con l'aiuto degli avvocati dell'organizzazione. Una ritrovata fierezza anima anche il Movimento dei senza terra; il 67% dei contadini bengalesi ha perso la propria terra, contro il 31% del 1971, al momento dell'indipendenza. La concentrazione fondiaria si spiega con l'indebitamento e la corruzione. Allungando bustarelle gli amministratori, i notabili accaparrano le khas, terre pubbliche destinate ai poveri. I contadini devono allora rassegnarsi a diventare braccianti agricoli a giornata o andare a vivere nelle bidonville. Eppure, secondo una stima dell'autorevole Ong Proshika, una riforma agraria che ponga un tetto agli alti redditi e garantisca qualche acro a ciascuno costerebbe solo 2 miliardi di euro. «Sembra che la Banca mondiale abbia di meglio da fare che ascoltarmi», osserva con rammarico Qazi Faruque Ahmed, presidente di Proshika, incarcerato dalle autorità nel 2004 e minacciato dai fondamentalisti. «Noi individuiamo, occupiamo e coltiviamo le terre pubbliche che ci hanno rubato - riassume Alam, responsabile del movimento Samata («Uguaglianza») nel distretto di Pabna. Non senza qualche rischio», aggiunge, mostrando la cicatrice lasciata da un machete sulla sua testa. Samata, Proshika, Nk e tante altre hanno permesso a decine di migliaia di contadini di ritrovare diritti e dignità. Il riferimento alla dignità è l'elemento centrale della filosofia di Ubinig, movimento per l'agricoltura biologica e la sovranità alimentare. Nel 1995, applicando le regole dell'Organizzazione mondiale del commercio (Wto), il governo ha interrotto le sovvenzioni per i fertilizzanti. I prezzi sono saliti alle stelle. Ci sono state delle rivolte e la polizia ha ucciso 17 contadini. Stanche di dipendere dal mercato, preoccupate per il depauperamento del suolo e il degrado della biodiversità dovuti all'agricoltura chimica, diverse centinaia di migliaia di contadini (l'organizzazione ne rivendica 130.000), talvolta interi villaggi sono passati al «bio», in particolare nel distretto di Tangail (30.000 persone), socializzando i semi, sviluppando la pluricoltura. I contadini contattati sottolineano che i loro redditi sono aumentati, grazie ad investimenti più ridotti. La loro indipendenza di fronte alle aziende occidentali li riempie di fierezza. Farida Akhter, fondatrice di Ubinig, si preoccupa però dell'offensiva dei sostenitori degli organismi geneticamente modificati (Ogm) e dei loro argomenti «umanitari»: «I timori dei consumatori del Nord nei confronti degli Ogm sono presentati dalle multinazionali come espressione di un lusso, a fronte della fame al Sud. Che arroganza! Le nostre vite valgono forse meno di quelle degli occidentali?» A proposito dell'individualismo liberista, Akhter ricorda che i popoli, al Nord come al Sud, sono interdipendenti: il consumo degli uni dipende dalla produzione - e dallo sfruttamento - degli altri. «I modelli di vita sono politici», conclude. (Cédric Gouverneur) note: (1) Trickle-down effect: la teoria liberista sostiene che l'arricchimento dell'élite si espande, grazie ai suoi investimenti e ai suoi consumi, a tutta la piramide sociale. (2) Documentario dell'austriaco Hubert Sauper che dimostra le conseguenze disastrose dello sfruttamento del pesce persico del Nilo nel lago Victoria; Mille et une productions (Parigi), Coop99 (Vienna), Saga Films (Bruxelles), 2004. (3) In undici paesi: Bangladesh, India, Indonesia, Filippine, Vietnam, Thailandia, Brasile, Ecuador, Messico, Guatemala, Honduras, sono state uccise molte persone che si opponevano all'acquicoltura dei gamberi, www.ejfoundation.org. (4) Financial Express, Dacca, 26 luglio 2004. (5) Il Fmi «loda» Dacca per aver liberalizzato il commercio, ma condiziona un prestito di 80 milioni di dollari ad un aumento dei tassi d'interesse e delle tariffe dell'energia. «Penso che la gente capirà la situazione», dichiarava a Dacca, nell'aprile 2005, Nissanke Weerasinghe, un responsabile Asia-pacifico dell'organizzazione. (6) Sulle fabbriche di subappalto, leggere Philippe Revelli, «Caccia al sindacato nelle maquillas del Guatemala», Le Monde diplomatique/il manifesto, luglio 2005. (7) Rapporto di Khorshed Alam, Alternative Movement for Resources and Freedom Society (Bangladesh) per «Clean Clothes Campaign» (Germania), maggio 2004. (8) Il Rapid Action Batallion (Rab) uccide quasi ogni giorno presunti delinquenti. La stampa scrive che «dei malviventi sono morti in una "sparatoria"», le virgolette stanno ad indicare che nessuno si lascia abbindolare. All'inizio di aprile 2005, la repressione di una manifestazione di operai tessili ha provocato 200 feriti di cui 20 da arma da fuoco. (9) Da quella data, il sistema di quote, che limitava le esportazioni di vestiti verso i mercati americani ed europei, non esiste più. (10) Si legga Jean-Loup Motchane, «Quando i poveri seducono le banche», Le Monde diplomatique/il manifesto, aprile 1999. (Traduzione di G. P.) (Le monde diplomatique, settembre 2005) -------------------------------------- -- Mailing list Consumo Critico dell'associazione PeaceLink. Per CANCELLAZIONI: http://www.peacelink.it/mailing_admin.html Se non riesci, scrivi a nicoletta at peacelink.org inserendo "cancella" nel Soggetto. Si sottintende l'accettazione della Policy Generale: http://www.peacelink.it/associazione/html/policy_generale.html
- References:
- "rassegna stampa: BANGLADESH, UNA MODERNA STORIA DI POVERTÀ
- From: "Altragricoltura" <altragrico at italytrading.com>
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