Nigrizia 01/11/2005
Basta un caffè a sdoganare Nestlé? Raffaello Zordan
/x-tad-bigger>Ottenuto per
un tipo di caffè il marchio di garanzia "fair trade", che
identifica i prodotti del commercio equo, ora l’impresa svizzera –
peraltro, oggetto di un boicottaggio internazionale – può affermare di
avere a cuore i temi sociali e ambientali. In fibrillazione il movimento
italiano. (Nella foto: proteste dei coltivatori di
caffè messicani).
/x-tad-bigger>/fontfamily>/bigger>Delle
due una: o ci siamo capiti male o la Nestlé ha fatto un doppio salto mortale ed
è cambiata. Eravamo (siamo) convinti che il commercio equo e solidale fosse una
pietra d’inciampo sulla strada di noi consumatori del primo mondo, un
sassolino nell’ingranaggio della formazione del prezzo delle merci, il
nucleo di un’economia sociale praticabile che coinvolge, in un percorso
di cooperazione e di trasparenza lungo l’asse Nord/Sud, piccoli
produttori (di caffè, cacao, banane, ecc.) e consumatori via via più
consapevoli e critici.
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/x-tad-bigger>Insomma, un modo
serio di affermare che un altro mondo – più giusto – è possibile
qui e ora: naturalmente senza mettere tra parentesi la necessità di battersi
per cambiare le regole del commercio internazionale, che condannano alla
marginalità e alla miseria milioni di contadini.
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/x-tad-bigger>A mettere
scompiglio nelle nostre convinzioni ci ha pensato la multinazionale Nestlé, che
in ottobre ha cominciato a commercializzare un tipo di caffè – il
Partenrs’ Blend – che proviene da cinque cooperative di piccoli
produttori in Etiopia e Salvador e che, dice l’etichetta, «aiuta gli
agricoltori, le loro comunità e l’ambiente». Nessun
stupore che la Nestlé, come altre multinazionali, cerchi di appiccicarsi
qualche etichetta etica: ha visto che i prodotti eticamente riconoscibili hanno
fatto breccia tra i consumatori e vi si butta a capofitto.
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/x-tad-bigger>Ma stride non poco
che lo stia facendo fregiandosi del marchio “fair trade”, garanzia
che il prodotto non causa sfruttamento nel Sud del mondo e che fa parte del
commercio equo e solidale. Eppure, il marchio è stato rilasciato
dall’inglese Fairtrade Foundation, che fa parte di Flo (Fairtrade
Labelling Organisation), il coordinamento internazionale dei marchi di garanzia
del commercio equo.
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/x-tad-bigger>È rimasto di stucco
anche Fairtrade TransFair Italia. Il marchio di garanzia nostrano non esclude
che il commercio equo possa svilupparsi anche «coinvolgendo aziende che operano
sul mercato internazionale», ma non vede come questo
coinvolgimento possa «riguardare imprese, come la Nestlé, sottoposte a campagne
internazionali di boicottaggio».
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/x-tad-bigger>La multinazionale
svizzera è da molti anni oggetto di /x-tad-bigger>boicottaggio/x-tad-bigger>/color>/fontfamily> /x-tad-bigger>a
causa della sua politica di promozione del latte in polvere per neonati: un
marketing che induce le donne dei paesi poveri a usare il latte in polvere
invece che allattare al seno, e ciò provoca indirettamente (mancanza di acqua
pulita, soldi insufficienti) la morte di migliaia di bambini.
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/x-tad-bigger>TransFair Italia
non crede che Nestlé possa tenere il piede in due staffe: «Da
una parte supportare alcuni produttori svantaggiati nei paesi in via di
sviluppo e dall’altra continuare con comportamenti che riteniamo
eticamente scorretti». Perciò: «TransFair
Italia non concederà in uso il marchio “fair trade” alla Nestlé, e
continuerà a sostenere questa posizione all’interno di Flo».
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/x-tad-bigger>Sulla stessa linea
anche l’associazione Botteghe del mondo (129 tra cooperative e
associazioni), che ribadisce «il ruolo centrale delle
botteghe per la vendita dei prodotti del commercio equo e solidale e come vero
punto d’incontro tra consumatori e produttori». E fa un
proposta: in tutti i punti vendita sia esposto un cartello con scritto
“Caffè corretto Nestlé? No grazie!”.
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/x-tad-bigger>Scelta
sbagliata
/x-tad-bigger>/fontfamily>
/x-tad-bigger>La mette giù un
po’ più dura l’Assemblea generale italiana del commercio equo e
solidale (Agices). Che parla di «assalto della Nestlé alla diligenza del
commercio equo e solidale», e sottolinea: «Riconoscere
a un prodotto della multinazionale di far parte di
questo mondo significa identificare l’“equosolidarietà” di
un’azienda solamente sulla base di un singolo prodotto e non del
comportamento che adotta nei confronti dei diversi attori del ciclo produttivo,
commerciale e di consumo, e della trasparenza della filiera. È come definire
“ecologica” un’impresa petrolifera solamente perché tra i
suoi gadget ci sono magliette sbiancate senza l’uso del cloro».
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/x-tad-bigger>E invita a inviare a Flo e a Fairtrade Foundation una e-mail un cui
si chiedono due cose: quali criteri siano stati utilizzati per definire equa e solidale la Nestlé; e di
riconsiderare una scelta «che riteniamo avrà conseguenze gravi nella disarticolazione
dell’intero movimento del commercio equo e solidale e favorirà soltanto
le politiche di “greenwashing” (operazioni d’immagine) delle
multinazionali».
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/x-tad-bigger>Ancora più netto il
giudizio di Giorgio Dal Fiume, presidente del consorzio Ctm Altromercato (130
organizzazioni non-profit): «Quello che è accaduto con la Nestlé per noi non è una sorpresa. Da oltre un
anno ci stiamo opponendo a Flo e ai “certificatori”, portando
argomenti intorno ai criteri di certificazione, che sono l’aspetto
centrale. Anche a prescindere dai suoi comportamenti sul latte in
polvere, la Nestlé non c’entra con il commercio equo.
/x-tad-bigger>/fontfamily>
/x-tad-bigger>Ci sta bene che,
anche grazie al nostro lavoro, le grandi imprese modifichino i loro
comportamenti nella direzione di una maggiore eticità. Però,
se il criterio di base del commercio equo è rivolgersi ai piccoli produttori,
che senso ha certificare chi trae i propri prodotti per il 99,9% dalle
piantagioni e per lo 0,1% dai piccoli produttori? Che
senso ha fornire il marchio “fair trade” a multinazionali che sono
lontane persino dalla responsabilità sociale d’impresa? Prima dimostrino,
per anni e con certificazione fatta da terzi, di aver imboccato la strada della
responsabilità sociale d’impresa; dimostrino che si rivolgono ai piccolo produttori e che la quota di piccoli produttori
aumenta nel tempo... poi si vedrà».
/x-tad-bigger>/fontfamily>
/x-tad-bigger>A quanto pare, il
“caffè corretto Nestlé” non avrà vita facile. Almeno in Italia.
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/x-tad-bigger>Ctm
Altromercato: alla larga dalle multinazionali
/x-tad-bigger>/fontfamily>
/x-tad-bigger>Il documento è di
settembre, è rivolto a Flo (coordinamento internazionale dei marchi di garanzia
del commercio equo), è firmato dal consiglio di amministrazione del consorzio
Ctm Altromercato, ed è l’ultimo di un carteggio che va avanti da più di
un anno. La Ctm valuta che le imprese transnazionali (Tnc), «al
di là di dichiarazioni d’intenti e dinamiche positive» non abbiano
modificato sostanzialmente le loro pratiche.
/x-tad-bigger>/fontfamily>
/x-tad-bigger>Invita Flo «a non
decidere unilateralmente», esprime «dissenso sull’entrata delle Tnc nel
Fair Trade, e ritiene che tale operazione non deve essere facilitata solo in
funzione dei potenziali fatturati aggiuntivi». E sottolinea:
«Rimane centrale per il Fair Trade l’ampliare il mercato principalmente
per i piccoli produttori: tale prospettiva non ha esaurito le sue
potenzialità».
/x-tad-bigger>/fontfamily>
/x-tad-bigger>Ctm elenca i rischi
che il movimento può correre aprendo alle multinazionali:
/x-tad-bigger>/fontfamily>
/x-tad-bigger>«1) rispettando
criteri Fair Trade solo per una piccola percentuale della loro attività, le Tnc
possono facilmente promuoversi come “eque”, portando gravi
difficoltà di identità e riconoscibilità a tutto il
movimento Fair Trade, e difficoltà politiche ed economiche alle organizzazioni
Fair Trade;
/x-tad-bigger>/fontfamily>
/x-tad-bigger>2) le Tnc sono
coinvolte nella produzione dello squilibrio Nord/Sud, nella diffusione di
pratiche di dumping sociale, nel rifiuto del concetto e della pratica di
“prezzo equo”, nel condizionamento delle istituzioni pubbliche;
l’associare il loro marchio al Fair Trade comporta perdita di credibilità
e confusione del messaggio Fair Trade e delle sue “relazioni esterne”
che non può essere compensata dall’allargamento della quota di mercato
“equo”;
/x-tad-bigger>/fontfamily>
/x-tad-bigger>3) c’è una
tendenza in atto nelle Tnc di acquisire il controllo di una grande quantità di
produzioni e soprattutto delle filiere produttive; oltre un certo livello esse
potrebbero quindi acquisire un peso economico tale da incidere sugli equilibri
interni al commercio equo e controllare le politiche/criteri di certificazione;
4) includere le Tnc nella certificazione equa e solidale potrebbe promuovere
anche dentro il commercio equo un contesto economico nel quale le imprese più
piccole sono acquisite da quelle più grandi, e – cosa grave – i
piccoli produttori potrebbero essere respinti o sfavoriti».
/x-tad-bigger>/fontfamily>
/x-tad-bigger>E conclude: «Il
movimento del commercio equo e solidale non consiste solo nel “produrre
sviluppo” per i soggetti con cui viene in contatto. E
l’obiettivo di rafforzare e rendere consapevoli del Fair Trade va oltre
il pagamento di prezzi equi. È nostra responsabilità contribuire alla modifica
delle pratiche economiche e commerciali che producono
sottosviluppo e sfruttamento».
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