rassegna stampa: "CHIQUITA ETICA. POSSIBILE? SI', A PAROLE!"



"Chiquita" prende un premio per le modifiche improntate all'ecosostenibilità
apportate al proprio sistema industriale. Noi non sappiamo se veramente
"Chiquita" sia in fase di conversione del suo modello produttivo secondo
canoni di rispetto dei lavoratori e del territorio, è anche possibile che
sia tutta una bella operazione di marketing che lasci la sostanza inalterata
ma quello che ci interessa evidenziare è che in ogni caso "Chiquita" è
costretta a confrontarsi con un mercato attento a nuovi bisogni e
sensibilità. Che se il cittadino/consumatore diviene soggetto e portatore di
diritti, anche con il semplice gesto di decidere lui quale prodotto portare
a casa, apre un terreno nuovo di contrattazione con l'agroindustria.
Pensiamo che sviluppare questi bisogni e sensibilità del cittadino, dare
continuità e organizzazione a quest'azione, che fonde la produzione del cibo
con la sua natura etica di rigeneratore di vita, possa veramente essere
strumento per condizionare le scelte industriali dei produttori e rompere il
binomio artificioso del cibo/merce.
a cura di AltrAgricoltura Nord Est
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tratto da "Green Planet" - 25/01/2005
"CHIQUITA ETICA. POSSIBILE? SI', A PAROLE"
Altraeconomia: "La strada per la sostenibilità è sempre più lastricata di
multinazionali e buone intenzioni. O strategie d'immagine. L'etico, l'equo,
l'ambiente sono nicchie di mercato che fanno gola anche ai giganti, oppure
un modo per risciacquarsi i vestiti macchiati d'ingiustizia".
Presentiamo alcuni casi di grandi aziende che cercano di unire all'etica il
proprio brand, con obiettivi e risultati diversi. Fenomeno da tenere
d'occhio: positivo se mette in moto comportamenti "socialmente
responsabili", ma a rischio di creare confusione tra i consumatori. Com'è
accaduto di recente per il "caffè sostenibile" di Kraft, per esempio:
prodotto da piantagioni colombiane gestite in modo sostenibile dal punto di
vista ambientale, come certificato dall'ong Rainforest Alliance.
L'iniziativa ha però sollevato le proteste dell'inglese Fairtrade
Foundation: "C'è il rischio -ha dichiarato il direttore Ian Bretman al
quotidiano Daily Telegraph- che venga percepito come prodotto di commercio
equo dai consumatori". Ma vi raccontiamo anche di come un'iniziativa di Coop
Italia riuscirà, forse, a colpire sul vivo i padroni del latte in polvere,
che da anni tengono il prezzo dei loro prodotti artificialmente alto e che,
nonostante una sanzione dell'Antitrust non sembrano aver imparato la
lezione.

Banane "etiche" col bollino blu?
Lo crede possibile "Gdoweek", settimanale per operatori della grande
distribuzione italiana che a novembre ha assegnato a Chiquita l'Ethic Award
per la categoria "Personale e processi interni". Il premio -organizzato con
Kpmg Consulting Business Advisory Services (nota società di consulenza e
revisione contabile)- è andato alla multinazionale di Cincinnati per la
responsabilità d'impresa: "Per il forte impegno di 'grande rispetto'
adoperato a livello mondiale per superare il passato, attraverso diverse
modifiche strutturali", con particolare riferimento alla certificazione Sa
8000 ricevuta da sue piantagioni in Costa Rica, Colombia e Panama. Nella
giuria del premio anche tre "volti noti" del commercio equo: Paolo
Brichetti, direttore di Ctm Altromercato, Paolo Pastore, direttore di
Transfair Italia, e Teresa Pecchini per l'Associazione Botteghe del mondo. A
loro chiediamo spiegazioni su un premio che ci ha lasciati molto perplessi.
E in effetti è stato negativo il voto dei primi due: "A fronte di un
processo in atto da parte di Chiquita -conferma Brichetti- permangono grossi
problemi e discrepanze rispetto a quanto l'azienda comunica, come confermano
soprattutto i sindacati locali". E ci si interroga sul senso di premi
simili. Fa eco Paolo Pastore: "Il nostro giudizio su Chiquita resta sospeso.
Vogliamo vedere se l'azienda andrà avanti o se si tratta soltanto di una
boutade pubblicitaria". Teresa Pecchini invece ha deciso di premiare
l'iniziativa: "Tra i candidati -dice- il progetto di Chiquita era il
migliore. È importante riconoscere lo sforzo che un colosso del genere sta
facendo".

Ma vediamo come la pensa Alistair Smith, coordinatore di Banana Link,
organizzazione britannica tra le più impegnate nella difesa dei diritti dei
lavoratori bananieri, e parte del coordinamento europeo Euroban. "Firmare un
accordo -dice Smith- è un primo passo, ma non basta".
Quindi il tuo giudizio sul premio a Chiquita è negativo?
"Chiquita è stata premiata da poco anche nel Regno Unito, ma dev'essere
chiaro a tutti che questa non è una compagnia angelica. Nonostante sia la
più sindacalizzata nel suo settore e tra quelle che hanno fatto qualche
limitato sforzo per migliorare l'impatto ambientale delle piantagioni, c'è
ancora un lavoro enorme da fare perché Chiquita possa essere considerata una
compagnia etica. Chiquita dovrebbe fare attenzione a dare fiato alle proprie
trombe, finché chi lavora per lei in Guatemala, Nicaragua e Costa Rica vivrà
in condizioni così povere e riceverà un salario tanto basso (meno di un euro
al giorno in Nicaragua)".

L'azienda ha anche firmato un accordo con Colsiba, il coordinamento dei
sindacati bananieri latinoamericani.
"Chiquita può giustamente andar fiera dei passi fatti e di aver firmato
l'accordo sui diritti dei lavoratori con i sindacati latinoamericani e con
il sindacato internazionale Iuf. Uno sforzo del genere è molto più
importante di tanti altri, è un modello che altre aziende dovrebbero imitare
con urgenza se vogliono evitare continue denunce pubbliche qui al Nord, cioè
nei loro mercati chiave. Ma firmare una bozza d'accordo è solo un primo
passo: quel che importa davvero è poi mettere in pratica le belle parole. E
questo può accadere soltanto se i sindacati locali sono abbastanza forti per
dialogare alla pari con Chiquita".

E per quanto riguarda la Sa 8000?
"Non abbiamo fiducia nelle società private di certificazione che si occupano
della Sa 8000 per le grandi compagnie bananiere. Finché società come Sgs,
Bvqi e Intertek marginalizzeranno le opinioni dei sindacati che operano
nelle zone dove vengono effettuate le verifiche, le compagnie bananiere non
saranno in grado di 'vendere' le certificazioni al vero consumatore critico.
Su questo fronte stiamo lavorando duramente anche per educare i buyer dei
supermercati. Se i rivenditori chiedessero seriamente il rispetto delle
convenzioni dell'Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) da parte dei
propri fornitori, le certificazioni private sarebbero inutili. Ci opponiamo
alla strisciante privatizzazione di quelli che dovrebbero essere standard
pubblici. L'Ilo esiste ancora: dovremmo cercare di migliorarne l'efficienza
piuttosto che screditare l'organizzazione dicendo che non funziona. L'Ilo
sarà sempre meno in grado di funzionare se la società civile e le aziende
continueranno a insistere che gli standard di iniziativa privata sono
l'unica via da percorrere".


Un altro fronte è quello ambientale. Anche qui Chiquita ha ottenuto la
"certificazione" verde dell'ong Rainforest Alliance.
"Chiquita è molto più avanti degli altri giganti del settore
nell'organizzazione di relazioni strutturate con i sindacati, ma come in
quest'ambito permangono troppi problemi e ingiustizie economiche perché
possa ricevere un premio, lo stesso vale per l'impatto ambientale. È chiaro
che la certificazione di Rainforest Alliance è meglio che niente, ma l'uso
di pesticidi sta ancora uccidendo le persone e danneggiando l'ambiente nelle
piantagioni di Chiquita e nelle altre piantagioni bananiere.
Rainforest Alliance spinge l'azienda a migliorare, ma esistono limiti
oggettivi per una monocoltura che dipende in modo così massiccio dai
prodotti chimici".

Esistono altre multinazionali bananiere interessate a una maggiore
sostenibilità?
"Dole è nel board di Social Accountability International (Sai,
l'organizzazione da cui la Sa 8000 dipende, ndr), ma ripeto, serve un
coinvolgimento più serio dei sindacati prima che i lavoratori possano trarre
un qualsiasi beneficio pratico dalle certificazioni rilasciate alle aziende
agricole per le quali lavorano".

Chi è, invece, sulla lista nera?
"Del Monte e Noboa, che credono di potere restare nel commercio bananiero
senza cambiare nulla delle condizioni disumane in cui tengono la maggior
parte dei loro lavoratori".

Da tempo si parla di multinazionali interessate al commercio equo, di una
loro possibile iscrizione ai registri di Flo, l'organismo di certificazione
internazionale del fair trade. Ma una multinazionale equa è possibile?
"Alcuni importatori equi sono già multinazionali in senso stretto, perché
hanno sedi in diversi Paesi, per cui il dibattito è un po' difficile. Dole
inoltre è coinvolta nel trasporto di banane biologiche e certificate fair
trade dal Perù. Il rischio è che queste compagnie -inclusi i supermercati
attraverso cui vendono la frutta- usino le banane del commercio equo solo
come uno specchietto, per coprire il modo in cui trattano il 99% dei loro
fornitori nel mondo".

Come si devono muovere i consumatori?
"Devono pretendere dai supermercati trasparenza lungo tutta la catena di
approvvigionamento e prezzi giusti per i fornitori, così che anche i
lavoratori delle piantagioni possano guadagnare salari dignitosi".
http://www.altreconomia.it/index.php?module=subjects&func=viewpage&pageid=22

Altraeconomia, 24 gennaio 2005, via http://italy.peacelink.org/
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