Equo e solidale: crisi da boom



Articolo comparso su Avvenire e recuperato da Francesco Castracane


EQUO E SOLIDALE, CRISI DA BOOM


Il «fair trade» italiano ha uno sviluppo senza precedenti, ma proprio
l'impennata dei fatturati mette il settore di fronte a problemi tecnici e
ideali
Una gamma di almeno settemila prodotti in 65 mila punti vendita nella sola
Europa, 3500 lavoratori a tempo pieno e almeno centomila volontari: sono i
numeri del commercio equo e solidale, una realtà in piena espansione dal
Vecchio Continente al Nord America, e che nel nostro Paese sta conoscendo un
boom senza precedenti.

Sebbene dati completi relativi a questo innovativo settore non siano ancora
disponibili, le indicazioni parziali sono molto eloquenti. Tra il 2001 e il
2003, ad esempio, i prodotti del consorzio Ctm Altromercato - che con 32
milioni di euro di fatturato è la principale centrale di importazione
italiana - hanno segnato incrementi del 65% e del 50%, mentre il comparto
del commercio alternativo non si basa più solo sul volontariato: nel 2003 i
due maggiori importatori (Ctm e Commercio alternativo) hanno superato
complessivamente i 100 dipendenti, raddoppiati nel giro di tre-quattro anni.
Eppure oggi il fair trade («commercio giusto»), nato per promuovere un tipo
di scambio tra Nord e Sud del mondo basato su un rapporto che fosse
paritario e garantisse ai produttori un prezzo equo per il loro lavoro, si
trova oggi a far fronte ad una crisi. Per la precisione, una «crisi di
crescita. L'impennata dei fatturati impone grandi sforzi agli importatori.
Devono adeguare le strutture, assumere personale, accentuare l'apertura alle
vendite nei supermercati senza scivolare in una logica puramente
mercantile», scrivono Lorenzo Guadagnucci e Fabio Gavelli in La crisi di
crescita, le prospettive del commercio equo e solidale (pagine 160, euro 8),
da domani in libreria per i tipi di Feltrinelli.

Le botteghe al bivio
Secondo una ricerca svolta dalla cooperativa romana Pangea, le botteghe
italiane si scontrano sempre più con una serie di limiti: strutture poco
sviluppate, difficile rapporto con i media, scarso dinamismo nel reperire
risorse, poca collaborazione con altri soggetti esterni al movimento.
Soprattutto, tuttavia, l e quote di mercato sono ancora troppo basse per
soddisfare le esigenze dei produttori.

Dentro o fuori dal mercato?
«Dai Paesi poveri proviene una domanda generalizzata di maggiori sbocchi:
più acquisti, più mercato», scrivono gli autori. Tuttavia «per molti
soggetti del Nord, il raggiungimento di questo obiettivo marcia
necessariamente di pari passo con la battaglia contro le iniquità del
sistema economico e con la necessità di promuovere nei Paesi ricchi nuovi
stili di consumo e di vita». Il costante dibattito sulla natura del
commercio equo diventa dunque sempre più cruciale di fronte alla possibilità
di crescere in modo decisivo stringendo alleanze con il mercato
tradizionale.

La via dell'industria
L'aumento esponenziale dei prodotti offerti porta alle soglie di un'altra
sfida: il passaggio ai beni industriali di massa. Esperimenti importanti,
come i palloni del Pakistan o i jeans Kuyichi, hanno già dimostrato la
capacità del circuito equo di imbastire rapporti proficui con aziende
private o cooperative di grandi dimensioni. All'interno del movimento ci si
chiede se oggi questa strada vada percorsa con sistematicità. Per molti il
profit può essere partner del fair trade, a patto che siano fornite alcune
importanti garanzie, come il rispetto dei diritti sindacali e la
sostenibilità ambientale. Ma chi può fare fede per le aziende?

La questione dei marchi
Un altro nodo irrisolto riguarda appunto la liceità e l'efficacia degli enti
volti alla certificazione dell'equosolidale. Già esistono marchi di garanzia
a livello nazionale e internazionale, ma il dibattito resta aperto su molti
punti: certificare i singoli prodotti o invece i soggetti totalmente "equi"?
Quali criteri utilizzare? Come evitare che i produttori del Sud vivano i
controlli «come una forzatura, se non come una nuova colonizzazione»?

Nuove alleanze
La centralità dello stile dei rapporti Nord-Sud si evidenzia anche nelle
numerose p roposte di nuove alleanze e collaborazioni che il commercio
alternativo potrebbe avviare. Sono molte le realtà con cui fino ad oggi si è
dialogato ancora troppo poco: dalla rete delle Ong al turismo responsabile,
dalla produzione biologica al microcredito e alla finanza etica.

Gestire il boom
La crescita impone nuovi interrogativi di gestione: si può essere
professionali senza essere "aziendalizzati"? L'esperimento delle "Botteghe
in partnership", avviato da Ctm, si configura ad esempio come un processo
promosso dall'alto e c'è chi vi ha intravisto un rischio per l'autonomia
delle botteghe stesse. Invece positivi si sono dimostrati i tentativi di
ridurre il margine di guadagno assorbito dai negozi equi, a beneficio dei
produttori. Un'opzione concepibile solo nell'ottica del commercio equo e
solidale, ogni giorno più rivoluzionaria.


L'Avvenire, 28 gennaio 2004