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La decrescita conviviale
da peacelink-settembre 2004
LA DECRESCITA CONVIVIALE
Abbasso lo sviluppo sostenibile! Evviva la decrescita conviviale!
"Non vi è il minimo dubbio che lo sviluppo sostenibile sia uno dei concetti più
nocivi" Nicholas Georgescu-Roegen, (corrispondenza con J. Berry, 1991).(1)
Serge Latouche
Fonte: http://www.zmag.org/Italy/latouche-decrescitaconviviale.htm
8.09.04
Viene definito ossimoro (o antinomia) una figura retorica consistente nel
giustapporre due parole contraddittorie, come "l'oscura chiarezza"... Questo
espediente inventato dai poeti per esprimere l'inesprimibile è sempre più
utilizzato dai tecnocrati per far credere all'impossibile. Così, una guerra
pulita, una globalizzazione dal volto umano, un'economia solidale o sana, ecc.
Lo sviluppo sostenibile è una di queste antinomie.
Già nel 1989, John Pessey della Banca Mondiale catalogava 37 diverse accezioni
del concetto di "sustainable development".(2) Il solo rapporto Brundtland
(World commission 1987) ne conteneva ben 6. François Hatem, che
al tempo ne aveva individuate 60, propose di suddividere le teorie al momento
disponibili sullo sviluppo sostenibile in due categorie: ecocentriche e
antropocentriche, secondo che avessero come obiettivo principale la protezione
della vita in generale (e quindi di tutti gli esseri viventi, o quantomeno di
quelli che non sono già condannati), o il benessere dell'uomo.(3)
Esiste quindi un'apparente divergenza dei significati sostenibile/durevole. Per
alcuni lo sviluppo sostenibile/durevole è uno sviluppo rispettoso
dell'ambiente. L'accento insiste quindi sulla conservazione degli ecosistemi.
Lo sviluppo in questo caso significa benessere e qualità della vita
soddisfacente e non ci si pone troppi interrogativi sulla compatibilità dei due
obiettivi, sviluppo e ambiente. Questo atteggiamento è abbastanza diffuso tra i
militanti del mondo associativo e tra gli intellettuali umanisti.
L'attenzione verso i grandi equilibri ecologici deve arrivare fino a rimettere
in discussione certi aspetti del nostro modello economico di crescita,
addirittura del nostro stile di vita. Ciò potrebbe condurre alla necessità di
inventare un altro paradigma di sviluppo.
Per altri, l'importante è che lo sviluppo in quanto tale possa durare
all'infinito. Questa è la posizione degli industriali, della maggior parte dei
politici e di quasi tutti gli economisti. A Maurice Strong, che dichiarava il 4
aprile 1992: "Il nostro modello di sviluppo, che porta alla distruzione delle
risorse naturali, non può tenere. Dobbiamo cambiare", fanno eco i propositi di
Gorge Bush (senior): "Il nostro livello di vita non è negoziabile".(4) Sugli
stessi toni, a Kyoto, Clinton dichiarava senza peli sulla lingua: "Non firmerò
niente che possa nuocere alla nostra economia"(5)
Com'è noto, Bush junior ha fatto di meglio...
Lo sviluppo sostenibile è come l'inferno, lastricato di buone intenzioni.
Non mancano esempi di compatibilità tra sviluppo e ambiente a dimostrarlo.
Evidentemente, l'attenzione all'ambiente non è necessariamente contraria agli
interessi individuali e collettivi degli agenti economici. Un direttore della
Shell, Jean-Marie Van Engelshoven, si può permettere di dichiarare: "Il mondo
industriale dovrà essere in grado di rispondere alle attuali
aspettative se vuole, in modo responsabile, continuare a creare ricchezza in
futuro".
Jean-Marie Desmarets, l'Amministratore Delegato di Total, parlava allo stesso
modo prima del naufragio dell'Erika e dell'esplosione della fabbrica di
fertilizzanti chimici di Tolosa...(6)
Con un certo senso dell'umorismo, i dirigenti di BP hanno deciso che la loro
sigla non avrebbe più dovuto leggersi "British Petroleum", ma "Beyond
Petroleum" (oltre o dopo il petrolio)...(7)
La coincidenza di interessi ben definiti può, effettivamente, realizzarsi in
teoria e in pratica. Esistono industriali persuasi della compatibilità tra gli
interessi della natura e gli interessi dell'economia. Il Business Council for
Sustainable Development, 50 dirigenti di grandi imprese rappresentati da
Stephan Schmidheiny, consulente di Maurice Strong, ha pubblicato un manifesto
presentato a Rio de Janeiro poco prima dell'apertura della conferenza del 92:
Cambiare rotta, riconciliare lo sviluppo dell'impresa e la protezione
dell'ambiente. "Come dirigenti d'impresa condividiamo il concetto di sviluppo
sostenibile, che permetterà di rispondere alle esigenze dell'umanità senza
compromettere le opportunità delle generazioni future".(8) Ed è questa,
effettivamente, la scommessa dello sviluppo sostenibile. Un industriale
americano esprime il concetto in modo molto più semplice: "Vogliamo che
sopravvivano sia lo strato di ozono che l'industria americana".
Sviluppo tossico
Vale la pena guardare più da vicino... se la sfida ha ancora senso. La
definizione di sviluppo sostenibile del rapporto Brundtland tiene conto solo
della durevolezza. Si tratta di un "processo di cambiamento per il quale lo
sfruttamento delle risorse, l'orientamento degli investimenti, i cambiamenti
tecnici e istituzionali avvengono in modo armonico e rinforzano il potenziale
attuale e futuro dei bisogni dell'uomo". Non ci si deve illudere, tuttavia. Non
è della protezione dell'ambiente che parlano i potenti - certi imprenditori
ecologisti parlano persino di "capitale sostenibile", il colmo dell'ossimoro! -
ma prima di tutto dello sviluppo.(9) Ed ecco la trappola. Il problema del
concetto di sviluppo sostenibile non è tanto nel termine sostenibile, che è
tutto sommato una bella parola, quanto nella parola sviluppo, che è decisamente
un "termine tossico". A ben vedere sostenibilità significa che l'attività umana
non deve produrre un livello di inquinamento superiore alla capacità
dell'ambiente di rigenerarsi. Non è altro che l'applicazione del principio di
responsabilità del filosofo Hans Jonas: "Agisci in modo che gli effetti della
tua azione siano compatibili con la continuità di una vita autenticamente umana
sulla terra". Tuttavia, il significato storico e pratico dello sviluppo
implicito nel programma della modernità, è fondamentalmente contrario alla
sostenibilità così concepita. Si può definire lo sviluppo come un'impresa volta
a mercificare i rapporti tra le persone e con la natura. Si tratta di
sfruttare, di valorizzare, di trarre profitto dalle risorse naturali e da
quelle umane. La mano invisibile e l'equilibrio degli interessi ci garantiscono
che tutto procede per il meglio nel migliore dei mondi possibili. Perché
preoccuparsi? La maggior parte degli economisti, che siano liberali o marxisti,
sostengono una visione che permette allo sviluppo economico di perdurare. Così
l'economista marxista Gérard d'Estanne de Bernis dichiara: "Non staremo qui a
disquisire di semantica, non ci chiederemo neanche se l'aggettivo "durevole"
(sostenibile) aggiunga qualche cosa alle definizioni classiche di sviluppo,
teniamo conto della realtà e parliamo come tutto il mondo". E' chiaro che
sostenibile non rimanda al concetto di durata ma a quello di irreversibilità.
In questo senso, qualunque sia l'interesse delle esperienze prese in
considerazione, il fatto è che il processo di sviluppo in paesi come l'Algeria,
il Brasile, la Corea del Sud, l'India o il Messico non si è rivelato
"durevole" (sostenibile): le contraddizioni irrisolte hanno spazzato via i
risultati degli sforzi compiuti e condotto a una regressione".(10)
Effettivamente, se si accetta la definizione di sviluppo indicata da Rostow
come "self-sustaining growth" (crescita auto-sostenibile), l'aggiunta
dell'aggettivo durevole o sostenibile al termine sviluppo è inutile e
costituisce un pleonasmo. Ciò è ancora più evidente nella definizione di
Mesarovic et Pestel.(11) Per loro è la crescita omogenea, meccanica e
quantitativa che è insostenibile, mentre una crescita "organica" definita
dall'interazione delle parti con l'insieme è un obiettivo sopportabile.
Storicamente questa definizione biologica è precisamente quella dello sviluppo!
Le sottigliezze di Herman Daly, che tenta di definire uno sviluppo a crescita
zero non stanno in piedi, né in teoria, né in pratica.(12) Come sottolinea
Nicholas Georgescu-Roegen: "Lo sviluppo sostenibile non può in alcun caso
essere separato dalla crescita economica. [...] In verità, chi ha mai potuto
pensare che lo sviluppo non implichi necessariamente una forma di
crescita?"(13) Infine, si potrebbe affermare che aggiungere l'aggettivo
sostenibile al concetto di sviluppo non significa certo rimettere seriamente in
discussione lo sviluppo esistente, quello che domina il pianeta da due secoli,
ma semplicemente concepirlo in
un'accezione ecologica. E' alquanto improbabile che ciò basti a risolvere i
problemi.
La crescita zero non è sufficiente
Infatti, le caratteristiche durevole o sostenibile non rimandano allo sviluppo
"realmente esistente", ma al concetto di riproduzione. La riproduzione
sostenibile ha regnato sul pianeta più o meno fino al XVIII secolo. Tra gli
anziani del terzo mondo ci sono ancora degli "esperti" di riproduzione
sostenibile. Gli artigiani e i contadini che hanno conservato
buona parte dell'eredità ancestrale nel modo di agire e di pensare vivono
spesso in armonia con il proprio ambiente; non sono predatori della natura.(14)
Ancora nel XVII secolo, con gli editti sulle foreste, i regolamenti sugli
abbattimenti per la ricostituzione dei boschi, la coltivazione di querce che
ancora ammiriamo destinate alla costruzione di vascelli 300 anni dopo, Colbert
si dimostra un esperto di "sustainability". I suoi provvedimenti sono il
contrario della logica mercificatrice. Ecco, si dirà, una forma di sviluppo
sostenibile. Ma allora lo si deve dire di tutti quei contadini che hanno
piantato nuovi olivi e nuovi fichi dei quali non avrebbero mai visto i frutti,
pensando alle generazioni future e questo senza esservi obbligati da nessuna
legge, semplicemente perché i loro genitori, i loro nonni e tutti coloro che li
avevano preceduti avevano fatto la stessa cosa.(15) Ormai, neanche la
riproduzione sostenibile è più possibile. Ci vuole tutta la fede degli
economisti ortodossi per pensare che la scienza del futuro risolverà tutti i
problemi e che la sostituibilità illimitata della natura attraverso l'artificio
sia possibile. Come si chiede Mauro Bonaïuti, possiamo davvero continuare a
ottenere lo stesso numero di pizze diminuendo sempre la quantità di farina e
aumentando il numero dei forni o quello dei cuochi ? E anche qualora si dovesse
riuscire a sfruttare nuove energie, sarebbe sensato costruire "grattacieli
senza scale né ascensori, esclusivamente sulla base della speranza che un
giorno trionferemo sulla legge di gravità ?"(16) Contrariamente a quanto
sostenuto dall'ecologismo riformista d'un Hermann Daly o d'un René Passet, lo
status quo e la crescita zero non sono né possibili, (né auspicabili...). "Noi
possiamo riciclare le monete di metallo usate, ma non le molecole di rame
disperse dall'uso".(17) Questo fenomeno, che Nicholas Georgescu-Roegen ha
battezzato la "quarta legge della termodinamica", è forse discutibile in
termini di teoria astratta, ma non dal punto di vista dell'economia concreta.
Dall'impossibilità che ne consegue di una crescita illimitata non risulta,
secondo lui, la necessità di un programma di crescita zero, ma quello di una
decrescita. "Non possiamo - scrive - produrre frigoriferi, automobili o aerei a
reazione 'migliori e più grandi' senza produrre anche dei rifiuti 'migliori e
più grandi'".(18) Quindi, il processo economico è di natura entropica. "La
terra ha dei limiti - sottolinea Marie-Dominique Pierrot - e trattarla come
qualcosa che si possa sfruttare all'infinito attraverso la mitizzazione del
concetto di crescita, significa condannarla a scomparire. Non si può invocare
la crescita illimitata e accelerata per tutti e allo stesso tempo chiedere che
ci si preoccupi delle generazioni future. Il richiamo alla crescita e la lotta
alla povertà costituiscono solo delle formule magiche e delle parole d'ordine
buone per tutte le stagioni. Si tratta dell'idea magica della torta della quale
basta aumentare le dimensioni per nutrire tutto il mondo e che rende
'innominabile' la questione della possibile riduzione delle parti di
alcuni".(19) La nostra ipercrescita economica oltrepassa già largamente la
capacità di carico della terra.
Se tutti i cittadini del mondo consumassero come gli americani medi i limiti
fisici del pianeta sarebbero già ampiamente superati.(20) Se prendiamo come
indice del "peso" ambientale del nostro stile di vita "l'impronta" ecologica di
questa categoria in termini di superficie terrestre necessaria, otteniamo
risultati insostenibili sia dal punto di vista dell'equità nei diritti di
sfruttamento della natura, che dal punto di vista della capacità di rigenerarsi
della biosfera.
Prendendo in considerazione i bisogni di risorse e di energia necessarie ad
assorbire i rifiuti e gli scarti della produzione e del consumo e aggiungendoci
l'impatto dell'habitat e delle infrastrutture necessarie, i ricercatori del
World Wide Fund (WWF) hanno calcolato che lo spazio bioproduttivo pro capite
dell'umanità è di 1,8 ettari. Un cittadino degli Stati Uniti consuma in media
9,6 ettari, un canadese 7,2, un europeo medio 4,5.
Siamo quindi molto lontani dall'uguaglianza planetaria e ancora di più da uno
stile di civilizzazione sostenibile, che si dovrebbe limitare a 1,4 ettari,
nell'ipotesi che la popolazione attuale resti stabile.(21)
Uscire dall'economicismo
Possiamo discutere queste cifre, ma purtroppo sono confermate da un numero
imponente di indici (che sono d'altra parte serviti a stabilirle). Per
sopravvivere o durare è quindi urgente organizzare la decrescita. Se siamo a
Roma e dobbiamo andare a Torino in treno e per sbaglio abbiamo preso la
direzione di Napoli, non basta rallentare la locomotiva, frenare o fermarsi,
bisogna scendere e prendere un altro treno nella direzione opposta. Per salvare
il pianeta e assicurare un futuro accettabile ai nostri figli, non dobbiamo
semplicemente moderare le tendenze attuali, bisogna decisamente uscire dallo
sviluppo e dall'economicismo, così come dobbiamo uscire dall'agricoltura a
sfruttamento intensivo che ne è parte integrante, per farla finita con le
mucche pazze e le aberrazioni transgeniche. La decrescita dovrebbe essere
perseguita non soltanto per preservare l'ambiente, ma anche per restaurare quel
minimo di giustizia sociale senza la quale il pianeta è condannato
all'esplosione. Sopravvivenza sociale e sopravvivenza biologica sono
strettamente connesse. I limiti del "capitale" natura non pongono soltanto un
problema di equità intergenerazionale nella suddivisione delle parti
disponibili, ma anche un problema di equità tra i membri attualmente viventi
dell'umanità. La decrescita non significa necessariamente un immobilismo
conservatore. L'evoluzione e la crescita lenta delle società antiche si
integravano in una riproduzione allargata ben temperata, sempre in armonia con
le esigenze della natura. "La società tradizionale era sostenibile perché aveva
adattato il proprio stile di vita all'ambiente - conclude Edouard Goldsmith - e
la società industriale non può
sperare di sopravvivere perché, al contrario, ha cercato di adattare l'ambiente
al proprio stile di vita".(22) Pianificare la decrescita significa, in altri
termini, rinunciare all'immaginario economico, cioè alla convinzione che di più
per tutti significhi più uguaglianza. Il benessere e la felicità si possono
raggiungere a costi inferiori. La saggezza di molte culture suggerisce che la
felicità si realizza nella soddisfazione di una quantità sensatamente limitata
di bisogni. Riscoprire la vera ricchezza nella promozione di relazioni sociali
conviviali in un mondo sano si può fare con serenità nella frugalità, nella
sobrietà, persino con una certa austerità nei consumi materiali. "Una persona
felice - sottolinea Hervé Martin - non consuma antidepressivi, non consulta
psichiatri, non tenta di suicidarsi, non rompe le vetrine dei negozi, non
acquista continuamente oggetti costosi e inutili, insomma, partecipa solo
marginalmente all'attività economica della società."(23) Una decrescita voluta
e ben impostata non impone alcun limite nell'esercizio dei sentimenti e alla
promozione di una vita conviviale, anche dionisiaca.(24)
Note:
(1) Mauro Bonaïuti, La teoria bioeconomica. La "nuova economia" di Nicholas
Georgescu Roegen, Carocci, Roma 2001, p. 53.
(2) J. Pezzey, Economic analysis of sustainable growth and sustainable
development, World Bank, Environment Department, Working Paper n° 15, 1989.
(3) Christian Comeliau, Sviluppo dello sviluppo sostenibile, o blocchi
concettuali? Tiers-Monde n° 137, gennaio-marzo 1994, pp. 62-63.
(4) Jean Marie Harribey, L'economia economa, L'harmattan, Parigi 1997.
(5) Carla Ravaioli, "Lettera aperta agli economisti. Crescita e crisi
ecologica". Manifesto libri 2001, p. 20.
(6) Green magazine, maggio 1991. Questo esempio, come i precedenti, è tratto
da Hervé Kempf, L'economia alla prova dell'ecologia. Hatier, Parigi 1991,
pp. 24/25.
(7) Carla Ravaioli, op.cit., p. 30.
(8) Cambiare rotta, Dunod, l992, p. ll.
(9) Carla Ravaioli, op. cit., p. 32.
(10) Gérard de Bernis, Sviluppo sostenibile e accumulazione, Tiers-Monde n°
l37, p. 96.
(11) Mesarovic et Pestel, Strategie per sopravvivere, Mondadori, Milano 1974.
(12) Un aumento del reddito (in senso hicksiano) senza danno al capitale
naturale permetterebbe di affermare che una crescita sostenibile rappresenta
una contraddizione in termini, non uno sviluppo sostenibile. V. Gianfranco
Bologna, "Italia capace di futuro" WWF-EMI, Bologna 2001, pp. 32 e ss. (13) NGR
1989 p. 14, Bonaïuti, op. cit., p. 54.
(14) A dispetto della civetteria con cui viene contestata la saggezza dei
"buoni selvaggi", questa si fonda semplicemente sull'esperienza. I "buoni
selvaggi" che non hanno rispettato il loro ecosistema sono scomparsi nel corso
dei secoli...
(15) Questa osservazione di Castoriadis richiama la saggezza millenaria già
evocata da Cicerone in "De senectute". Il modello dello "sviluppo sostenibile"
che realizza il principio di responsabilità è descritto da un verso di Catone:
"Pianterà un albero a vantaggio di un altro tempo". Lo commenta così: "Di fatto
l'agricoltore, per anziano che sia, al quale viene
chiesto per chi lo pianta, non esita a rispondere: 'Per gli dei immortali, che
vogliono che non mi accontenti di ricevere questi beni dai miei antenati, ma
che li trasmetta anche ai miei discendenti' ". Cicerone, Catone il vecchio (De
senectute), VII-24, Les belles lettres, Parigi, 1996, p. 96.
(16) Bonaïuti Mauro, La "nuova economia" di Nicholas Georgescu-Roegen. ed.
Carocci, Roma 2001, pp. 109 et 141.
(17) Ibidem, p. 140.
(18) Op. cit., p. 63.
(19) Marie-Dominique Perrot, Globalizzare il non senso, L'Age d'homme, Losanna,
2001, p. 23.
(20) Una bibliografia esauriente dei rapporti e dei libri pubblicati
sull'argomento dal famoso rapporto del Club di Roma in Andrea Masullo, "Il
pianeta di tutti. Vivere nei limiti perché la terra abbia un futuro". EMI,
Bologna, 1998.
(21) A cura di Gianfranco Bologna, Italia capace di futuro, WWF-EMI, Bologna,
2001, pp. 86-88.
(22) E. Goldsmith, La sfida del XXI secolo, Le rocher, l994, p.330.
(23) Hervé René Martin, La globalizzazione raccontata a coloro che la
subiscono, Climats, 1999. p. 15.
(24) Kate Soper, Ecologia, natura e responsabilità. Rivista del MAUSS n° 17,
primo semestre 2001, p. 85.
Viviana
vivianavivarelli at aliceposta.it