rassegna stampa: C'È UN INTRUSO NEL PIATTO



a cura di AltrAgricoltura Nord Est
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tratto da "Green Planet" - 26/04/05
C'È UN INTRUSO NEL PIATTO
Coloranti, conservanti, pesticidi... «Quando si parla di mercato globale l’
allarmismo è pienamente giustificato», dice Felicity Lawrence, autrice di un
fresco libro-inchiesta. «Comprando da piccoli produttori si limita l’
agricoltura intensiva e il trasporto insensato di merci da tutto il mondo. E
si mangia meglio».
Il biologico? Sì, ma...
C’è un intruso nel piatto.
Coloranti, conservanti, pesticidi, zuccheri: servono a rendere più bello ciò
che troviamo sugli scaffali. Ma l’etichetta spesso non lo dice
Articolo di Raffaele Panizza
Una volta arrivava la primavera, e dopo la primavera l’estate, che da giugno
a settembre significava decine di albicocche e susine da mangiare fino a non
poterne più.
Adesso gli stessi frutti li vediamo tutto l’anno sugli scaffali dei
supermercati.
Albicocche gialle, dure come il pane secco, perfette a vedersi. Arrivano dal
Sud Africa, via aerea, per poi essere preparate e confezionate in una catena
infinita di intermediari e stabilimenti di imballaggio.

È l’estate perenne a cui ci siamo ormai abituati, che ha portato con sé la
rivoluzione dei consumi e dei costumi più grande dai tempi della macchina a
vapore.
Almeno secondo Felicity Lawrence, scrittrice e inviata del quotidiano
inglese The Guardian sui problemi della grande distribuzione e del mercato
globale dei generi alimentari, che ha scritto una sorta di No logo del mondo
dell’alimentazione intitolato "Non c’è sull’etichetta. Quello che mangiamo
senza saperlo", Einaudi.
E in effetti si scopre che, decisamente senza saperlo, mangiamo tutti i
giorni ogni tipo di veleno, alla faccia delle assicurazioni sui controlli e
sulle norme relative alla tracciabilità dei prodotti entrate in vigore lo
scorso gennaio: pesticidi che rischiano di modificare la struttura dell’
utero femminile; grassi, zuccheri, olii e amidi nascosti o super raffinati
che aumentano l’incidenza di obesità e problemi cardiovascolari; coloranti
cancerogeni come il Sudan 1 -messo al bando dall’UE nel 2003 e oggi al
centro di uno scandalo nel Regno Unito -usato per adulterare la polvere di
peperoncino contenuta nella salsa worcester.

Ma Lawrence si spinge oltre.
E denuncia i supermercati che vendono sottocosto molti prodotti per
sbaragliare la concorrenza dei piccoli negozianti.
E pagano prezzi sempre più bassi ai fornitori che, di fatto, finanziano con
le proprie tasche le varie promozioni tipo 3x2 e si vedono continuamente
ridotti i margini di guadagno.

Tutto questo ha effetti rovinosi sul mercato del lavoro.
I coltivatori non possono investire quanto è necessario per grantire la
sicurezza, condizioni igienico sanitarie adeguate, e diritti minimi per i
lavoratori stagionali.

«Quando si parla di mercato globale dei prodotti», dice Lawrence con scarsa
voglia di apparire rassicurante, «l’allarmismo è ampiamente giustificato».
E poi continua: «Occorre essere in possesso di un dottorato per interpretare
le etichette. Secondo la legge  europea, se un ingrediente è presente per
meno del 2 per cento in un prodotto non è obbligatorio indicare come è stato
ottenuto. Si può leggere “salsa di pomodoro”, senza sapere con quali
additivi, o amidi lavorati, o coloranti questa è stata davvero prodotta».

Lattuga al cloro
E giusto per non incorrere nel luogo comune del “ma chissà cosa mangiano
questi inglesi”, facciamo il gioco di spedirle a Londra un fax con qualche
etichetta nostrana: ragù alla bolognese, paella pronta, pane bianco a fette,
formine di merluzzo impanate, lattuga già lavata e asciugata, brodo
istantaneo vegetale.

Ed ecco Felicity, chiamata a nozze, che risponde: «Di solito l’insalata in
busta viene lavata dentro vasche con una percentuale di cloro dieci volte
superiore a quella di una piscina olimpionica. Per essere conservata, viene
posta in un’atmosfera protetta, con ossigeno al minimo e anidride carbonica
al massimo. Secondo gli studi - tra cui quello condotto dall’Istituto per la
nutrizione di Roma - questo procedimento ne distrugge gran parte delle
proprietà nutritive. Per il pane industriale, posso dire che, letteralmente,
i maiali mangiano meglio di noi: il loro mangime è ricavato
dal germe del grano, che è ricco di olii sani e nutritivi, che invece viene
scartato nella creazione di pane bianco.

Nel brodo per bambini si parla di amidi: ma quali sono?
Mentre nel sugo si dice “amido di mais”, uno dei prodotti più frequentemente
utilizzati per adulterare i prodotti: si tratta di zuccheri raffinati, e
fanno male. Idem nella paella: c’è amido di frumento e sciroppo di glucosio.
Poi latte scremato reidratato, estratto di lievito. Non esattamente gli
ingredienti di una paella fatta in casa».

Mele truccate
Ma anche per gli alimenti “freschi” le cose non vanno meglio. Mangiamo mele
sottoposte a rigidi controlli di bellezza perché i supermercati non
accettano frutta e verdura né più piccola né più grande né più opaca di come
hanno stabilito nelle loro guide di prodotto.
C’è un’azienda olandese, la Greefa, che vende in tutto il mondo calibratori
per valutare la perfezione estetica della frutta.
Ha una sede anche in Italia e non a caso in Trentino. I suoi macchinari
scattano centinaia di fotografie alle mele mentre scorrono sui nastri, per
verificare che la superficie sia liscia come una palla da biliardo.
Per valutare poi la consistenza del frutto ci sono i penetrometri.
Più è duro, più il supermercato si garantisce un tempo lungo di esposizione
sugli scaffali, prima che si deteriori.
«In alternativa i responsabili acquisti dei supermercati chiedono al
produttore di cogliere il frutto ancora più acerbo. Poi ci si lamenta che,
una volta a tavola, non sappia più di niente», chiosa la Lawrence.

Ne abbiamo parlato con Lorenzo Bazzana, responsabile economico Coldiretti,
ma a lui sentire queste storie non fa più nessun effetto: «Questo è il
minimo. Alcuni si spingono anche a pretese assurde, pena la rescissione del
rapporto di lavoro. Pretendono di decidere quali prodotti vadano usati per
migliorare le colture, e persino se e ogni quanti metri debbano essere posti
dei cestini di rifiuti nei campi di raccolta. Con l’allargamento del mercato
e l’arrivo dei capitali stranieri queste politiche sono destinate a divenire
ancora più aggressive».
Esselunga, interrogata per fornire chiarimenti su queste pratiche da casting
di bellezza, ha scelto di non dare spiegazioni.

Schiavi moderni
In sostanza, spiega Lawrence, i supermercati decidono il prezzo e, quasi
liberi da ogni legge contrattuale, pretendono forniture a seconda delle
proprie esigenze che possono cambiare in tempo reale. È direttamente col
codice a barre utilizzato alla cassa che gli ordini vengono aggiornati. Se c
’è un picco di vendita nei pomodori, ecco che il fornitore deve essere in
grado di fornirli.
Se li ha finiti, li compra all’estero e li rivende al supermercato, e in
gran parte dei casi il saldo della transazione sarà a suo sfavore.
Per far fronte a questi capricci, c’è bisogno di manodopera flessibile e
servizievole.
Ossia straniera.
Spesso e volentieri fornita dai caporali, personaggi dall’attitudine mafiosa
che hanno in pugno migliaia di persone che fanno viaggiare per tutta Europa
all’inseguimento delle stagioni.
«Nel sud della Spagna, centinaia di immigrati irregolari aspettano tutto il
giorno sul ciglio della strada, con la testa spaccata dal sole, in attesa
che i furgoni dei produttori li carichino» racconta Lawrence, «Poi, finita l
’interminabile giornata di lavoro, vanno a dormire nelle bidonville
costruite vicino ai campi».

In Italia i consulenti della Flai (Federazione lavoratori agroindustria) -
sindacato di categoria in seno alla Cgil - stanno conducendo in questi mesi
un’inchiesta sui flussi di manodopera irregolare immigrata.
I primi risultati mostrano che da noi la situazione è altrettanto grave, con
situazioni di degrado inaccettabili. Nel comune di San Gervaso, in provincia
di Potenza, da agosto a settembre arrivano più di mille lavoratori su un
totale di seimila abitanti, impiegati nella raccolta dei pomodori (le quote
d’ingresso previste per legge parlano di poche centinaia).

Situazione a rischio anche verso la zona tra Battipaglia ed Eboli, dove
oltre tremila persone sono impiegate a rotazione nella raccolta del tabacco
e degli ortaggi.
«Vivono quasi tutti in baraccopoli e tendopoli ai margini dei campi,
sottoposti a violenze e ricatti, senza acqua ed elettricità, in condizioni
igieniche disperate. Peggio delle bestie», racconta Gino Rotella,
responsabile Flai per il mercato del lavoro.

Colore tossico
In Inghilterra il Sudan 1 ha provocato uno scandalo che ricorda quello della
mucca pazza.
Il numero dei prodotti con-taminati dal colorante illegale e poi ritirati
dagli scaffali ha superato le 600 unità, e la lista sul sito della Food
standards agency (www.food.gov.uk).

In Italia, nonostante sia stato proprio un laboratorio torinese afferente
all’Arpa (Agenzia regionale protezione ambientale) a far riesplodere il
problema lo scorso gennaio, questa lista non esiste.
I regolamenti Ue prevedono, invece, che in caso di pericolo per la salute
(il Sudan 1 è considerato un colorante genotossico, in grado cioè di
alterare la struttura cellulare) debbano essere pubblicate marche e lotti
dei prodotti contaminati.
Nel sito del ministero della Salute appare soltanto una lista generica, con
indicazione tipo “peperoncino indiano” senza indicare dove sia stato
impiegato.
La lista finora più esaustiva è quella pubblicata sul sito de Il Salvagente
(www.ilsalvagente.it), mentre iniziative di ritiro sono per ora affidate
alla responsabilità delle singole aziende, coinvolte nei controlli promossi
dalle Asl, o alle iniziative di singoli magistrati, come il procuratore
Raffaele Guariniello, il magistrato del processo per doping nei confronti
della Juventus.

Quali sono i rischi reali per la salute?
«In teoria non altissimi: il Sudan 1 è considerato un cancerogeno debole»,
dice Lawrence.
«Certo dipende da quanti piatti pronti piccanti uno mangia al mese, e quante
altre sostanze si assumono contemporaneamente. Ma il problema vero è l’
adulterazione:  il colorante serve perché perchè prodotti scadenti possano
essere venduti per buoni, e questo è nocivo da sé».

Ce ne sono altri di cui non si parla proprio, ancora più allarmanti: l’
acrilamyde ad esempio, che si forma con cottura ad alta temperatura nei
forni industriali per la produzione di biscotti, patatine, o cereali per la
colazione.
Una generazione crescente di scienziati ritiene che l’assunzione anche
minima ma regolare di pesticidi alteri lo sviluppo ormonale femminile, tanto
da addebitare a questo il fenomeno della pubescenza precoce di molte
bambine.

Attenti al bio
E se mangiassimo bio risolve-emmo il problema?
Anche su questo, Lawrence è piuttosto pragmatica.
«Per quanto riguarda ad esempio gli allevamenti avicoli, bisogna capire che
un conto è la crescita dell’animale e un conto la sua trasformazione.
Ho visto polli allevati all’aperto e con mangimi naturali finire nelle
stesse vasche di scottatura di quelli cresciuti ad antibiotici. Sono colme
di acqua a 52 gradi, che somiglia a una brodaglia scu-a, contaminata con le
feci, cambiata una volta al giorno.
Una soluzione di coltura ideale per salmonella e campilobatteri. Quindi il
bio è ok, ma attenti alla catena di lavorazione».

Il pane sotto casa
E la soluzione?
Consumare prodotti locali e soprattutto di stagione, sempre che ci sia
ancora qualcuno in grado di dire quali siano.
Felicity Lawrence compra il pane in una piccola bottega del centro di
Londra, e la verdura e la carne tramite una società che si rifornisce
direttamente da piccoli produttori.
E non spende, giura, una sterlina in più.
«Cambiare piccole abitudini può determinare importanti effetti a catena»,
dice.
«Per esempio si disincentiverebbe l’agricoltura intensiva che distrugge
interi territori, in particolare in America Latina e in Africa. Si
limiterebbe sempre più l’uso di manodopera illegale e mal pagata, così come
il trasporto insensato di merci da un capo all’altro del mondo, in
particolare per via aerea, che sta aggravando l’inquinamento globale.

E infine si riavvicinerebbero gli strati più svantaggiati della popolazione
ai prodotti freschi e non raffinati che di fatto, a causa della politica dei
prezzi attuata dai megastore, stanno diventando inaccessibili allefasce di
reddito più basse».
E invece no.
Vogliamo le patate novelle in tutti i periodi dell’anno, e compriamo quelle
israeliane o egiziane, che in realtà sono state conservate in celle
frigorifere anche per mesi.
In fondo, chi diavolo sa quale sia il periodo delle patate in Egitto, o
quello delle pere in Argentina?
(fonte "Repubblica", 23 aprile 2005)
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