Per coloro che non sono riusciti a vedere l'allegato
LE MENZOGNE DI LEBANON
Un film razzista
A pochi giorni dalla pubblicazione del rapporto Goldstone, da
parte del Consiglio per i diritti umani dell’ONU, che documenta le
violazioni del diritto internazionale, i crimini di guerra e contro
l’umanità commessi dall’esercito israeliano durante il massacro di Gaza
(dal 27 dicembre 2008 al 18 gennaio 2009 ci sono stati oltre 1400
morti, tra i quali centinaia bambini), esce nelle sale LEBANON, di
Samuel Maoz, Leone d’Oro a Venezia.
Al film ha contribuito l’Israel Film Fund, l’ente nazionale per
il cinema, che continua la politica tesa a mostrare al mondo il volto
umano e tormentato di Israele: uno stato che da 60 anni occupa
illegalmente i territori palestinesi, discrimina i suoi cittadini in
base all’etnia, impedisce il diritto al ritorno nella loro terra dei
palestinesi cacciati da una pulizia etnica che prosegue tuttora, con il
genocidio a Gaza, con uccisioni mirate, insediamenti illegali,
imprigionamenti, distruzione e sottrazione delle risorse economiche e
il Muro dell’aparheid, in tutta la Palestina.
LEBANON non è il primo film israeliano che compatisce,
deresponsabilizza e, infine, assolve i massacratori, ieri in Libano
oggi a Gaza. Valzer con Bashir ne è un altro esempio.
LEBANON è un film razzista: il 6 giugno 1982 inizia
l’invasione israeliana del Libano. Dopo le immagini di un campo di
girasoli maturi, la scena si sposta all’interno del carro armato, dove
fanno la loro parte nella guerra quattro giovani soldati, ignari,
perché probabilmente distratti a scuola.
Come il loro comandante, un duro dal cuore tenero, sono belli,
umani, sensibili fino alle lacrime, affettuosi e rispettosi della
famiglia.
Almeno quanto gli altri, nemici o alleati, sono brutti,
disumani, insensibili: il guerrigliero, con tanto di kefiah, usa
addirittura una famigliola come scudo umano (mentre il rapporto
Goldstone sui crimini di guerra e umanitari a Gaza denunciare l’uso di
scudi umani da parte di Israele.)
Compiuto il loro dovere, con perdite limitate (mentre
l’invasione lasciò sul terreno 19.085 morti libanesi) il carro armato
si ritrova nel campo di girasoli: e una scritta recita “gli uomini sono
d’acciaio, i carri armati sono ferraglia”.
LEBANON è un film brutto: dopo l’originale scenografia
claustrofobica, non si risparmia nulla: dall’allevatore di polli
colpito dal fuoco israeliano che, rimasto senza due gambe e un braccio,
continua a gridare “pace”, alle lacrime dell’asino squarciato, alla
donna usata come scudo umano che, con le vesti incendiate dal fosforo,
viene prima denudata (per salvarla) poi ricoperta e accarezzata da chi
le ha appena ucciso il marito e la bambina. Non è solo pacifismo
grossalano, è solo un brutto film, che oscilla, senza decidersi, fra il
sentimentale e il grottesco.
Come spiegare la vittoria a Venezia se non con il piano del
governo israeliano di recuperare una immagine dopo la feroce
aggressione contro la popolazione inerme di Gaza? Il documentario,
altrettanto razzista Amos Oz: la natura dei sogni presentato al
festivaletteratura di Mantova ne è la clamorosa conferma.
La misura del livello morale e intellettuale del regista Samuel
Maoz, reduce dall’invasione del Libano del 1982, come Ari Folman
regista di “Valzer con Bashir”, basta questa dichiarazione:
“…Comunque per fare la pace in Medio Oriente il migliore era
Clinton. Anzi, secondo me, sarebbe bene che Obama guardasse un po’ di
filmati su Clinton per capire come comportarsi.… in Israele Clinton
resta il più amato e anche gli arabi lo preferiscono... forse c’entra
la storia della Levinsky. In America hanno gridato allo scandalo, in
Europa non è stato così. Anzi, quell’episodio fa parte del suo fascino,
vederlo mentire senza battere ciglio, come un qualunque marito, gli ha
fatto guadagnare simpatie”.
PER QUESTI MOTIVI NON CONSIGLIATE AI NOSTRI AMICI DI VEDERE
QUESTO FILM.
LE VERITÀ SU “PACE IN GALILEA”
L’operazione “pace in Galilea”, nome in codice della
seconda invasione del Libano del 1982 da parte di Israele, vede le
truppe israeliane arrivare fino a Beirut, la capitale libanese, teatro
di un assedio che durerà quasi tre mesi. L'eliminazione senza mezzi
termini di un movimento nazionale tanto radicato nella popolazione
palestinese come l'OLP, che gode di un ampio sostegno da parte di vasti
settori della popolazione libanese, richiedeva una campagna militare di
una portata e di una violenza senza precedenti, che si realizza
scatenando la potenza di fuoco israeliana contro i campi-profughi
palestinesi, definiti «focolai del terrorismo», e contro le città e i
villaggi libanesi. L’altro obiettivo era l’occupazione di territorio
libanese.
Le testimonianze di alcuni soldati israeliani,
veterani della guerra del Libano raccolte da Irit Gal e Ilana Hammerman
per il loro libro, De Beyrouth à Jenin [Da Beirut a Jenin], La Fabrique
2003, narrano l'orrore di questa guerra di eliminazione. Ouri
Schwartzman, sergente riservista in servizio sui carri armati, ricorda:
«Il mio primo shock è stato l'entrata a Tiro. Niente può prepararti a
entrare in una città bombardata e piena di civili. Gli aerei e la
marina avevano bombardato la città prima del nostro arrivo. Quando sono
giunte le forze di terra, la città era in fiamme. Si vedevano strade
che andavano a fuoco come in un film catastrofe, e automobili
polverizzate; nell'aria aleggiava un odore di carne bruciata che
impregnava tutto; qua e là, gruppetti di civili vagavano senza meta, in
stato confusionale, in quell’incomprensibile desolazione [ ... ]. Non
so se qualcuno abbia mai fatto il calcolo delle vittime di Tiro e di
Sidone, ma mi ricordo che, dopo la guerra, un ministro ha affermato che
il numero delle vittime era stato sovrastimato, che probabilmente erano
solo 3000. Sono inorridito nel sentire tale cifra: uccidere 3000 civili
è un crimine, un crimine spaventoso!».
Qualche giorno dopo, il sergente Schwartzman è alle porte della
capitale: «Il bombardamento di Beirut era impreciso, non selettivo,
selvaggio. Le granate dell'artiglieria si abbattevano senza tregua. Una
batteria di artiglieria pesante situata poco dietro di noi sparava
senza sosta. [ ... ] Nessuno dei politici responsabili di quanto
accaduto a Tiro, a Sidone, a Damur o a Beirut ne ha pagato il prezzo. E
in questo caso non si può neanche dire, come per Sabra e Chatila*, che
sono state le falangi a compiere i massacri di Tiro, di Sidone, di
Damur e di Beirut; siamo stati noi a uccidere i civili»
L'operazione «pace in Galilea» si concluse con 19.085
morti, 31.915 feriti, 2202 invalidi e circa mezzo milione di profughi e
con la devastazione dell'economia libanese.
Il carro armato di Lebanon è il simbolo di Israele, una società
militarizzata dominata da un complesso culturale-militare-industriale,
votato alla guerra contro popolazioni civili.
Un paese che dall’11 settembre ha ricavato prodotto enormi
profitti con l’industria della “sicurezza”, diventando leader nella
progettazione e nella produzione di sistemi di controllo delle
popolazioni civili. Un paese che possiede, senza alcun controllo, oltre
200 testate nucleari con le quali può controllare e minacciare i paesi
del Mediterraneo e non solo.
* Sabra e Shatila sono due campi profughi alla periferia di
Beirut dove furono massacrati, tra il 16 e 18 settembre del 1982,
dalle milizie cristiane libanesi in un'area direttamente controllata
dall'esercito israeliano,. più di 3.000 palestinesi, uomini, donne e
bambini.
QUESTO VOLANTINO E' PRODOTTO NEL QUADRO DELLA CAMPAGNA DI
BOICOTTAGGIO ACCADEMICO E CULTURALE DI ISRAELE, seguendo un appello
palestinese al boicottaggio accademico e culturale. Per saperne di più
sull’appello BDS, sul boicottaggio accademico e culturale di Israele e
sull’ISM – Italia consulta il sito:
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