dubbi sul numero delle vittime: potrebbero
essere 600 e non 1.300
«Così i ragazzini di Hamas ci hanno
utilizzato come bersagli»
Abitanti di Gaza accusano i
militanti islamici: «Ci impedivano di lasciare le case e da lì
sparavano»
GAZA - «Andatevene, andatevene via di
qui! Volete che gli israeliani ci uccidano tutti? Volete veder morire sotto
le bombe i nostri bambini? Portate via le vostre armi e i missili»,
gridavano in tanti tra gli abitanti della striscia di Gaza ai miliziani di
Hamas e ai loro alleati della Jihad islamica. I più coraggiosi si erano
organizzati e avevano sbarrato le porte di accesso ai loro cortili,
inchiodato assi a quelle dei palazzi, bloccato in fretta e furia le scale
per i tetti più alti. Ma per lo più la guerriglia non dava ascolto a
nessuno. «Traditori. Collaborazionisti di Israele. Spie di Fatah, codardi. I
soldati della guerra santa vi puniranno. E in ogni caso morirete tutti, come
noi. Combattendo gli ebrei sionisti siamo tutti destinati al paradiso, non
siete contenti di morire assieme?». E così, urlando furiosi, abbattevano
porte e finestre, si nascondevano ai piani alti, negli orti, usavano le
ambulanze, si barricavano vicino a ospedali, scuole, edifici dell’Onu.
In casi estremi
sparavano contro chi cercava di
bloccare loro la strada per salvare le proprie famiglie, oppure picchiavano
selvaggiamente. «I miliziani di Hamas cercavano a bella posta di provocare
gli israeliani. Erano spesso ragazzini, 16 o 17 anni, armati di mitra. Non
potevano fare nulla contro tank e jet. Sapevano di essere molto più deboli.
Ma volevano che sparassero sulle nostre case per accusarli poi di crimini di
guerra», sostiene Abu Issa, 42 anni, abitante nel quartiere di Tel Awa.
«Praticamente tutti i palazzi più alti di Gaza che sono stato colpiti dalle
bombe israeliane, come lo Dogmoush, Andalous, Jawarah, Siussi e tanti altri
avevano sul tetto le rampe lanciarazzi, oppure punti di osservazione di
Hamas. Li avevano messi anche vicino al grande deposito Onu poi andato in
fiamme E lo stesso vale per i villaggi lungo la linea di frontiera poi più
devastati dalla furia folle e punitiva dei sionisti», le fa eco la cugina,
Um Abdallah, 48 anni. Usano i soprannomi di famiglia. Ma forniscono dettagli
ben circostanziati. E’ stato difficile raccogliere queste testimonianze. In
generale qui trionfa la paura di Hamas e imperano i tabù ideologici
alimentati da un secolo di guerre con il «nemico sionista».
Chi racconta una
versione diversa dalla narrativa
imposta dalla «muhamawa» (la resistenza) è automaticamente un «amil», un
collaborazionista e rischia la vita. Aiuta però il recente scontro
fratricida tra Hamas e Olp. Se Israele o l’Egitto avessero permesso ai
giornalisti stranieri di entrare subito sarebbe stato più facile. Quelli
locali sono spesso minacciati da Hamas. «Non è un fatto nuovo, in Medio
Oriente tra le società arabe manca la tradizione culturale dei diritti
umani. Avveniva sotto il regime di Arafat che la stampa venisse perseguitata
e censurata. Con Hamas è anche peggio», sostiene Eyad Sarraj, noto
psichiatra di Gaza city. E c’è un altro dato che sta emergendo sempre più
evidente visitando cliniche, ospedali e le famiglie delle vittime del fuoco
israeliano. In verità il loro numero appare molto più basso dei quasi 1.300
morti, oltre a circa 5.000 feriti, riportati dagli uomini di Hamas e
ripetuti da ufficiali Onu e della Croce Rossa locale. «I morti potrebbero
essere non più di 500 o 600. Per lo più ragazzi tra i 17 e 23 anni reclutati
tra le fila di Hamas che li ha mandati letteralmente al massacro», ci dice
un medico dell’ospedale Shifah che non vuole assolutamente essere citato, è
a rischio la sua vita. Un dato però confermato anche dai giornalisti locali:
«Lo abbiamo già segnalato ai capi di Hamas. Perché insistono nel gonfiare le
cifre delle vittime? Strano tra l’altro che le organizzazioni non
governative, anche occidentali, le riportino senza verifica. Alla fine la
verità potrebbe venire a galla. E potrebbe essere come a Jenin nel 2002.
Inizialmente si parlò di 1.500 morti. Poi venne fuori che erano solo 54, di
cui almeno 45 guerriglieri caduti combattendo».
Come si è giunti
a queste cifre? «Prendiano il caso del
massacro della famiglia Al Samoun del quartiere di Zeitun. Quando le bombe
hanno colpito le loro abitazioni hanno riportato che avevano avuto 31 morti.
E così sono stati registrati dagli ufficiali del ministero della Sanità
controllato da Hamas. Ma poi, quando i corpi sono stati effettivamente
recuperati, la somma totale è raddoppiata a 62 e così sono passati al
computo dei bilanci totali», spiega Masoda Al Samoun di 24 anni. E aggiunge
un dettaglio interessante: «A confondere le acque ci si erano messe anche le
squadre speciali israeliane. I loro uomini erano travestiti da guerriglieri
di Hamas, con tanto di bandana verde legata in fronte con la scritta
consueta: non c’è altro Dio oltre Allah e Maometto è il suo Profeta. Si
intrufolavano nei vicoli per creare caos. A noi è capitato di gridare loro
di andarsene, temevamo le rappresaglie. Più tardi abbiamo capito che erano
israeliani». E’ sufficiente visitare qualche ospedale per capire che i conti
non tornano. Molti letti sono liberi all’Ospedale Europeo di Rafah, uno di
quelli che pure dovrebbe essere più coinvolto nelle vittime della «guerra
dei tunnel» israeliana. Lo stesso vale per il “Nasser” di Khan Yunis. Solo 5
letti dei 150 dell’Ospedale privato Al-Amal sono occupati. A Gaza city è
stato evacuato lo Wafa, costruito con le donazioni «caritative islamiche» di
Arabia Saudita, Qatar e altri Paesi del Golfo, e bombardato da Israele e
fine dicembre. L’istituto è noto per essere una roccaforte di Hamas, qui
vennero ricoverati i suoi combattenti feriti nella guerra civile con Fatah
nel 2007. Gli altri stavano invece allo Al Quds, a sua volta bombardato la
seconda metà settimana di gennaio.
Dice di questo
fatto Magah al Rachmah, 25 anni, abitante a poche decine di metri dai quattro grandi palazzi del
complesso sanitario oggi seriamente danneggiato. «Gli uomini di Hamas si
erano rifugiati soprattutto nel palazzo che ospita gli uffici amministrativi
dello Al Quds. Usavano le ambulanze e avevano costretto ambulanzieri e
infermieri a togliersi le uniformi con i simboli dei paramedici, così
potevano confondersi meglio e sfuggire ai cecchini israeliani». Tutto ciò ha
ridotto di parecchio il numero di letti disponibili tra gli istituti
sanitari di Gaza. Pure, lo Shifah, il più grande ospedale della città, resta
ben lontano dal registrare il tutto esaurito. Sembra fossero invece
densamente occupati i suoi sotterranei. «Hamas vi aveva nascosto le celle
d’emergenza e la stanza degli interrogatori per i prigionieri di Fatah e del
fronte della sinistra laica che erano stato evacuati dalla prigione
bombardata di Saraja», dicono i militanti del Fronte Democratico per la
Liberazione della Palestina. E’ stata una guerra nella guerra questa tra
Fatah e Hamas. Le organizzazioni umanitarie locali, per lo più controllate
dall’Olp, raccontano di «decine di esecuzioni, casi di tortura, rapimenti
nelle ultime tre settimane» perpetrati da Hamas. Uno dei casi più noti è
quello di Achmad Shakhura, 47 anni, abitante di Khan Yunis e fratello di
Khaled, braccio destro di Mohammad Dahlan (ex capo dei servizi di sicurezza
di Yasser Arafat oggi in esilio) che è stato rapito per ordine del capo
della polizia segreta locale di Hamas, Abu Abdallah Al Kidra, quindi
torturato, gli sarebbe stato strappato l’occhio sinistro, e infine sarebbe
stato ucciso il 15 gennaio.