Cr*,
Diario di viaggio in Palestina
di Paola Canarutto.
2 novembre
Sull'aereo per Tel Aviv vedo inaspettatamente Jeff Halper. Grandi
festeggiamenti. All'aeroporto lo va a prendere il figlio, che offre
anche a me un passaggio fino a Gerusalemme.
"Lavora nel cinema, con Simone Bitton" spiega Jeff, con un
giustificatissimo orgoglio paterno. "Sai, la regista mizrachi, ha fatto
Le Mur...".
3 novembre
Oggi, appuntamento con la Union of Health Work Committees (Uhwc) nella
loro sede di al-Bireh, cittadina vicino a Ramallah. A., il direttore,
mi spiega che fare: "Prendi il pullman fino a Qalandya. Di lì, sali su
un taxi, e telefonami con il cellulare, che spiego al guidatore dove
portarti". Funziona. Così verso i 16.000 euro avuti dalla Regione e i
3.100 ricevuti dalla sezione torinese "Dolores Ibarruri" del PdCI.
Quindi, A. mi consegna a Y.: è lui a portarmi in auto a Marda, per
vedere di persona l'ambulatorio. Y. è nipote di un famoso personaggio
politico palestinese, e mi spiega di essere un marxista convinto. Sullo
specchietto retrovisore dell'auto, un rosario con una croce. "Sono
greco-ortodosso", annuncia.
Per arrivare a Marda, tre posti di blocco. "Posso fotografare i
soldati?" chiedo a Y., "No, mi raccomando", fa lui, preoccupato. "E'
pericoloso". Marda è interamente circondata da un recinto invalicabile.
All'unico ingresso aperto, un cancello, che gli israeliani possono
chiudere a piacimento; hanno chiuso l'altra strada con cumuli di
pietre. Dall'altra parte della "barriera", terreno del villaggio,
accessibile ora solo ai coloni di Ariel: per gli abitanti di Marda, gli
olivi che lì crescono sono ormai irraggiungibili.
All'ingresso nel villaggio, fa gli onori di casa il sindaco.
Nell'ambulatorio, il medico e l'infermiera, velata. Il medico è una
russa, incinta al nono mese: ha sposato un palestinese. La sala di
emergenza ha come unico strumento una bombola da ossigeno: nemmeno
l'elettrocardiografo c'è.
Mi mostrano il laboratorio, che consiste in un apparecchio in funzione
tre giorni alla settimana, in grado di fornire il risultato
dell'emoglobina, dei globuli bianchi, e dell'esame urine. Punto. Non mi
fanno vedere la sala raggi: "Non abbiamo ancora un apparecchio
funzionante".
Pazienti in ambulatorio oggi ne sono passati pochi: sono i giorni della
raccolta delle olive.
Spiega il medico: "Da qui non si va all'ospedale a Nablus: per i posti
di blocco, costa troppo andarvi in taxi".
Pranzo luculliano a casa del sindaco, felice del progetto di migliorare
l'ambulatorio. Il primo cittadino è del Fronte Popolare, ma la moglie,
ad ogni buon conto, è velata, e non si presenta agli ospiti: se ne
intravede a tratti l'abito dietro la porta della cucina.
Al ritorno, solo due posti di blocco: uno di quelli incontrati al
mattino, mi spiega Y., era un flying checkpoint. In cambio, l'attesa è
ben più lunga: i militari sono molto più interessati a controllare chi
cerca di dirigersi a sud, verso Gerusalemme, che chi va nella direzione
opposta.
Y., 33 anni, non ha figli. "Non sono sposato: sono stato in carcere, e
fino a poco fa non avevo un lavoro; ora mi occupo delle relazioni
esterne per l'Uhwc. Ho preso il master all'università di Bir Zeit, e
vorrei proseguire gli studi. Ma gli israeliani mi proibiscono di andare
all'estero: sono classificato come un 'pericolo per la sicurezza',
perché sono stato in prigione".
Mi mostra le colonie che si vedono dalla strada. Una è costituita da
roulottes, visibilmente collegate alla rete elettrica. "E' ancora
provvisoria", spiega Y., assuefatto allo sviluppo degli
insediamenti ebraici: "fra un po' diventerà definitiva".
Gli chiedo cosa si aspetta, dal punto di vista politico, per i prossimi
6-12 mesi. Si stringe nelle spalle: "Annapolis è una presa in giro:
tutto continuerà come prima. Olmert ha promesso di liberare 300
prigionieri, ma poi ne arresta 35 tutte le notti: quanto ci mette a
riequilibrare il conto? It's the Jews, sono gli ebrei". Mi mordo le
labbra e taccio: ora vorrei solo tornare a Gerusalemme senza incidenti.
A. non mi può riaccompagnare indietro: è impegnato in una riunione. Mi
affida a R., un medico dell'Uhwc: sarà lui a riportarmi in albergo.
"Non passo per Qalandya", mi comunica questi. "Altrimenti c'è un'ora e
un quarto di coda al checkpoint. Passo per Bir Zeit, ma è una lunga
deviazione".
Anche R., che si è laureato in Medicina nell'ex Unione Sovietica, e che
avrebbe voluto diventare un chirurgo, ma che ha dovuto interrompere gli
studi per motivi economici, la pensa come Y.: "Posti di blocco,
colonie, strade vietate ai palestinesi: sono the Jews a fare questo,
perché c'è la lobby in America che li aiuta".
E' difficile dargli torto, e taccio: non sono i cittadini palestinesi
di Israele a chiudere i loro conterranei in gabbie senz'acqua, e gli
ebrei in giro per il mondo fino a non molto tempo fa sostenevano il
Keren Kayemet. Si attiverebbero, le comunità ebraiche, se capissero che
rischiamo un'ondata antisemita gigantesca? A., a cui ho spiegato la mia
appartenenza "genetica", e che sa che Rete-Eco ha contribuito a mandare
in porto il contributo regionale per l'ambulatorio, mi è molto grato,
ma è chiaro che sto cercando di svuotare il mare con un cucchiaino.
L'aiuto che si riesce a dare affoga fra un posto di blocco e l'altro, e
lo sforzo di combattere l'antisemitismo, in questo modo, pare del tutto
inane.
Delle due corsie della strada principale di Ramallah, una è
inaccessibile al traffico: ci lavorano stradini con rulli compressori.
Un cartello spiega che i fondi provengono "From the American People to
the Palestinian People". Gli Usa stanno ricostruendo la strada
distrutta dal passaggio dei carri armati israeliani.
Basta una giornata in Cisgiordania per farmi pensare che, perché le
trattative fra Abu Mazen e Olmert non siano puramente aria fritta,
destinata al consumo degli occidentali, basterebbe che il primo
ponesse, come condizione per partecipare agli incontri, l'abolizione
dei posti di blocco. Questo però non avviene.
Di Gaza si scrive che è una prigione a cielo aperto. Ma ottenere il
permesso per andarvi è un'operazione superiore alle mie forze. La
Cisgiordania, invece, pare un insieme di gabbie, in cui il passaggio da
una all'altra è possibile solo se ciò piace agli occupanti.
Incontri fra palestinesi ed israeliani, che non siano i soldati,
praticamente non ci sono più: gli israeliani non possono entrare nelle
zone palestinesi, dell'inverso, neanche a parlarne. Chi risiede a
Ramallah, non può -da anni- andare a Gerusalemme: è per questo che Y.
non ha potuto riaccompagnarmi indietro. Lo stesso vale per chi risiede
a Betlemme, e così via. Però -unica nota di speranza della giornata-
nel dossier fornitomi oggi dall'Uhwc figura un testo di Shir Hever,
economista dell'Alternative Information Center (Aic), sull'economia
dell'occupazione. E A., che ha chiesto di vedere il mio programma per i
prossimi giorni, conosce e stima l'Israeli Committee Against House
Demolitions (Icahd), di Jeff.
4 novembre
Sono alla ricerca di un connettore per la presa elettrica, ed entro in
un negozio della strada principale, la Suleiman Street, a Gerusalemme
Est. Fanno compagnia al cassiere, che pare il proprietario, tre
commessi. Sono l'unica cliente.
Il piano di oggi è andare a trovare Jonatan al Freedom Theatre, nel
campo profughi di Jenin. Bus n. 18 fino a Ramallah, poi da lì un
service. Cinque posti di blocco all'andata, almeno tre al ritorno (ma
mi sono addormentata, posso aver perso il conto).
All'andata, un soldato pretende di sapere dove sono diretta: che ci fa
un'occidentale in Cisgiordania? Al ritorno, a un posto di blocco
ritirano i documenti a tutti gli occupanti del service, controllandoli
a lungo. A Qalandya i palestinesi devono scendere dal bus e passare i
controlli a piedi. A noi muniti di passaporto estero è concesso restare
sul pulmino, su cui salgono due soldati con il mitra. La soldatessa
inveisce contro la mia vicina di sedile perché non si vede bene il
timbro posto all'aeroporto sul passaporto? Questa le fa notare,
gentilmente, che non l'aveva messo lei. "Non importa", conclude la
soldatessa, "dovevi controllare, e se non si vedeva bene, fartelo
rifare".
Il Freedom Theatre è una delle poche occasioni di speranza, in questo
luogo martoriato. Spiccano una targa in onore di un tal Daniel Abraham,
statunitense, che deve aver finanziato il centro, ed una per un
ragazzino palestinese ammazzato da un soldato: i genitori avevano
donato gli organi a malati israeliani.
Jonatan è sereno. Gli racconto quanto mi preoccupa che qui l'idea
generale è che causa delle loro disgrazie siano the Jews. Secondo lui,
è perché le classificazioni sono per religione, non per nazionalità;
non è che la spiegazione mi convinca gran che. "Comunque", aggiunge,
"sono qui da due anni, e non mi sono mai sentito minacciato". Non "I
was never threatened", ma "I never felt threatened".
E' in corso una riunione, e guardo alcuni video del Freedom Theatre.
Riesco anche a persuadere un giovane, che studia all'Arab American
University e lavora al Freedom Theatre come volontario, a copiarmi
sulla pennina del computer il video che mi piace di più, quello sullo
psicodramma (mira a convincere i ragazzini del campo profughi -in buona
parte orfani che troppo spesso hanno sperimentato l'umiliazione di
essere picchiati dai soldati, e che, privi di alcuna prospettiva per la
vita, sognano di morire come eroi- che la miglior vittoria contro gli
israeliani consiste nel vivere, e nel vivere bene, anziché nel farsi
saltare in aria). Poi, Jonatan mi racconta le conclusioni della
riunione. "Abbiamo deciso che qui non si usano prodotti israeliani.
Lei, però" (indica una palestinese velata, che lavora al Freedom
Theatre) "non è d'accordo". "Ci dici perché?", le chiede. E questa:
"Perché i cd israeliani sono migliori di quelli palestinesi".
Per festeggiarmi, hanno cucinato gli spaghetti al sugo.
5 novembre
Prendo il service da Gerusalemme a Betlemme. "Non salire sul pullman
diretto, che è lunedì, e il checkpoint funziona molto lentamente per il
grande afflusso di gente in senso opposto", mi è stato detto. Così
prendo il bus che arriva a Betlemme passando da Beit Jalla.
Nell'albergo trovo il gruppo Icahd UK. Sono arrivati stanotte, e
l'autista che li trasportava all'albergo, che voleva entrare a Betlemme
passando per Tantur, ha trovato l'ingresso chiuso. E' stato giocoforza
usare l'ingresso principale alla cittadina, allungando il percorso.
Pare una costante, quella dei lunghi giri tortuosi.
Siamo in 18, più la nostra guida, Linda. Iniziamo con un giro per
Betlemme con un pulmino. Muro, colonie, confisca di terreni. Dove c'era
il verde, ora ci sono i palazzoni delle colonie. Molti sono vuoti. In
cambio, le case palestinesi che ora si trovano fra il Muro e la Linea
Verde possono rimanere in piedi solo se rispettano la normativa
israeliana: sulla maggior parte di queste pende una minaccia di
distruzione.
Sui cartelli stradali, le colonie sono denominate yishuv -come i primi
insediamenti ebraici nel Mandato. Per Israele e i coloni non c'è
differenza. Le zone viste ieri e oggi, d'altra parte, sono indicate
come "Giudea e Samaria".
Una partecipante al tour dell'Icahd UK è una ragazzona di nome Sarah;
ha un "Hai"1 tatuato al polso. Ma sulla targhetta con il nome, che ci è
stata consegnata perché la applicassimo sugli abiti, ha sostituito
Sarah con Josh. Mi domando se è per prudenza.
Pomeriggio al Wi'am, centro cristiano non violento, e incontro con G.
Questi sostiene con energia la necessità che nasca uno stato
palestinese. Gli obietto: "E dove si fa lo stato, con tutte queste
colonie?". Ma lui non deflette: "Se anche è più piccolo del 22% dell'ex
Mandato, pazienza. L'importante è che nasca". G., che è stato tra i
fondatori dell'International Solidarity Movement (Ism), è un convinto
sostenitore della nonviolenza. "Sono cristiano, anche se qui siamo
rimasti in pochi. Ora in Palestina siamo l'1,6%; in Israele, la
percentuale è la medesima. Un tempo, eravamo il 15-20%. Durante la
prima intifada, Israele ha chiuso le scuole per due anni. Facevamo
scuola in casa, e qui, in questo centro. E' stato nella farmacia di
famiglia che è iniziata la prima intifada: è da noi che è cominciato il
rifiuto di pagare le tasse ad Israele. Gli israeliani hanno distrutto
la farmacia, arrestando il proprietario. Quindi hanno imposto 42 giorni
di coprifuoco, invaso le abitazioni e confiscato le proprietà di chi
rifiutava di pagare le imposte. All'Onu è stata proposta la condanna di
Israele; gli Usa hanno messo il veto".
Jenny, una partecipante al tour, che fa parte della Palestine
Solidarity Campaign (Psc), propone il boicottaggio di Israele. G.
ribatte: "Il problema è che si viene accusati di essere antisemiti". Ma
soggiunge, scuotendo il capo: "E' negli anni dopo Oslo che è stato
costruito l'87% delle colonie". Vedendo i casermoni sulle colline
circostanti, le gru in attività, e le autostrade che collegano le
colonie, mi sorgono molti dubbi anche sulle possibilità reali di
successo di una lotta nonviolenta.
6 novembre
Cerco di capire come si definiscono gli altri partecipanti al tour,
tutti residenti in Gran Bretagna. Sarah/Josh è già stata qui con
Birthright, gruppo sionista che organizza giri gratuiti in Israele per
ragazzi ebrei. William, che ha circa 80 anni ed è qui con la moglie, fa
parte della chiesa di Scozia e di Christian Aid. Anche Anne, pure lei
anziana, è scozzese: "Sono vedova, mio marito era ebreo. Non è mai
voluto venire qui: si vergognava troppo di quello che gli ebrei fanno
ai palestinesi", racconta.
L'incontro di oggi è con Jeff Halper, che spiega i presupposti del suo
lavoro. L'Icahd esiste dal '97, cioè dal governo Netanyahu - da quando
era diventato chiaro che il processo di pace si era interrotto. Dal
1987, Israele ha distrutto 18.000 case palestinesi nei Territori
Occupati (T.O.). Ma gli israeliani non usano il termine "palestinesi":
si adopera un indistinto "arabi".
Quando ci si comincia a chiedere se esiste una qualche possibilità di
successo per la soluzione dei due stati, la sinistra sionista, inclusi
il partito Meretz e Uri Avnery, ha paura. In assenza di uno stato
palestinese, si ha l'apartheid. Se si arriva ai due stati, si può
scindere l'occupazione dallo stato di Israele "in sé". E' ormai chiaro
a tutti che la soluzione bi-statale non può avere successo; è un'idea
tipica del sionismo. Questo vuole tutto il Paese, tutta la terra di
Israele. Gli israeliani vedono l'insieme come Eretz Israel, i
palestinesi, come uno stato palestinese.
Jeff non pensa che si porrà fine all'occupazione; il problema vero,
peraltro, è se si può avere uno stato ebraico. La storia degli stati
binazionali non è felice: vedi il Libano, ma ora anche il Belgio. Se si
arriva ad un solo stato, i palestinesi saranno la maggioranza, ma
saranno pur sempre gli ebrei a godere di maggiore istruzione ed a
tenere le leve dell'economia. La parola d'ordine è che si deve por fine
all'occupazione. Per gli israeliani, la soluzione di uno stato solo è
un "non starter". Anche i palestinesi, d'altra parte, vogliono uno
stato loro. In realtà, solo il 10% tiene davvero per Hamas. Se non si
lotta, la situazione evolve spontaneamente verso uno stato unico. Per i
palestinesi, questo è l'obiettivo -con una fase intermedia bi-statale.
La struttura dell'occupazione non è casuale: esiste uno schema
preordinato dietro il posizionamento delle colonie e delle strade.
Scopo di Israele è arrivare ad un bantustan, ad un ministato
palestinese non in grado di sopravvivere economicamente. Ad Annapolis,
il massimo che può offrire è l'apartheid. A questo punto, sono i
palestinesi a dover decidere qual è il passo successivo. La comunità
internazionale non accetta la soluzione di un solo stato. Nel caso del
Sudafrica, in cui a combattere l'apartheid vi era l'African National
Congress (Anc), era stato diverso: in quel caso, la comunità
internazionale aveva accettato il principio "one man, one vote". Per
Israele/Palestina, parlano di uno stato unico quasi soltanto i
palestinesi della diaspora. In Sudafrica, l'Anc aveva fatto da guida;
ai palestinesi, invece, è impossibile condurre la lotta.
Scopo di Israele è di impiantare per bene l'apartheid nei mesi che
restano del governo Bush. Nostro compito è rendere evidente quel che
succede, lavorare con gli internazionali. Non siamo abbastanza forti
per imporre una soluzione, l'unica nostra possibilità è combattere
contro l'apartheid.
A Oslo Israele ci ha coperto gli occhi di prosciutto, mentre
raddoppiava la popolazione delle colonie. Ora quest'opera di
offuscamento non le riesce più.
Penso che il ruolo di Blair sia quello di addolcire la pillola ad Abu
Mazen, in modo che accetti l'apartheid: il Sudafrica non avrebbe potuto
istituire i bantustan senza l'aiuto di qualche capo nero.
Per Israele, l'occupazione non è un grande problema: aiuta ad esportare
armi ed i sistemi di sicurezza, a sviluppare nuove armi per contrastare
le rivolte organizzate. Nei T.O., ha 4 milioni di persone su cui
sperimentare le nuove armi.
Agli ebrei israeliani è stato tolto il potere di decidere. Lo slogan
propagandistico resta "gli arabi sono gli stessi arabi, gli ebrei sono
gli stessi ebrei, il mare è lo stesso mare" -vale a dire, che gli arabi
non sognano che di buttare a mare gli ebrei. Gli israeliani non si
attendono la pace: auspicano solo che il livello di violenza sia basso,
e che l'economia prosperi. Ottenuto ciò, chi si cura dei palestinesi?
La demolizione di case non è iniziata nel '67, ma nel '48: è allora che
Israele ha distrutto circa 500 villaggi. Ora, i profughi ed i loro
discendenti sono quattro milioni e mezzo. Nel '67, Israele ha
inaugurato l'occupazione di Gerusalemme distruggendo le case davanti al
Muro del Pianto: una donna non è riuscita a fuggire, ed è rimasta
sepolta tra le macerie. La distruzione di case è insita al potere
israeliano, ed alla cacciata dei palestinesi: è per questo che è
essenziale combatterla.
La sinistra israeliana riconosciuta arriva al Meretz, a Peace Now: lui
e Michel Warschawski non fanno parte dell'insieme. In Israele mancano
persino i termini per inquadrare e comprendere quel che scrive Avraham
Burg, per il quale uno stato "ebraico e democratico" è dinamite.
Occorre far attenzione all'uso del linguaggio, delle definizioni. A
Rafah, l'esercito israeliano (Idf) ha sostenuto di aver distrutto 52
case. Chris McGreal, del Guardian, ha sostenuto che erano centinaia. Il
problema è come l'Idf ha fatto i conti: le case di cui erano restate le
fondamenta e due pilastri non erano state definite "distrutte".
Si stanno distruggendo le culture palestinesi, conclude Jeff.
Qualcuno gli chiede com'è che i coloni prendono possesso delle case
palestinesi a Geru?salemme Est. "Ci sono vari sistemi", spiega. "Di
base, c'è che i palestinesi sono molto poveri, e che quindi è facile
convincerli a vendere. Oppure trovi un parente che sta in America, che
firma l'atto di vendita; allora i coloni e la polizia arrivano di
notte, a cacciare i legittimi proprietari, mai informati che la loro
casa è stata venduta". Oppure ci sono le minacce, e la corruzione: "Hai
problemi con la polizia? Ci vendi la casa, e in prigione non finisci",
dicono i coloni. Oppure: "Hai bisogno di denaro per un intervento
chirurgico: le associazioni di coloni pagano la tua casa più del prezzo
di mercato".
Ci conduce per la Città Vecchia, dedicando un'attenzione particolare
alle case ora abitate dai coloni. Queste sono tendenzialmente in alto,
in modo da poter controllare quelle sottostanti. Nella piazza davanti
al Muro del Pianto, il numero di poliziotti e di soldati armati è
impressionante.
Tramite Lucia Pizarro, dell'Icahd, Linda è riuscita ad organizzare un
incontro con Arieh King, capo di un'organizzazione di coloni legata a
Moskowitz. L'incontro avviene in un appartamento di proprietà dei
coloni, adiacente alla piazza del Muro del Pianto.
Arieh King ha la cittadinanza britannica ma vive a Gerusalemme da dieci
anni; è un ortodosso con la kippà, che garantisce di aver scoperto qual
è il vero ebraismo: è quello che pone a suo fondamento Gerusalemme.
King parla con noi in inglese, ma non chiama la città Jerusalem: per
lui è Yerushalaim. Identifica la città santa come quella città il cui
terreno si calpesta, che ritiene debba restare unita, sotto la
sovranità israeliana. "Ho finalmente capito il senso delle preghiere
che recito: la Tefillà non fa che ripetere preghiere per Zion, vale a
dire per Yerushalaim. Ora che mi adopero per Yerushalaim, Dio mi
protegge, e gli affari vanno bene". Questo è correlato alle sue
attività di colono: poco dopo, dichiara di usare gli introiti degli
affari per rendere la città "più ebraica".
Lucia gli chiede come opera nel concreto. E lui: "Vi posso dare una
risposta onesta, ma non completa. Vedete" (indica uno di noi), "quel
signore ha un registratore, non vorrei mai... Faccio in modo che i
musulmani se ne vadano altrove, vendendo ai coloni le loro proprietà".
Rifiuta così esplicitamente di nominare gli altri mezzi, citati da
Jeff, per far sloggiare i palestinesi. E prosegue: "Il mio scopo è
mantenere lo status quo". Israele e i coloni hanno vinto la guerra
contro i palestinesi, ora basta conservare i risultati della vittoria.
"Il governo sostiene di costruire il Muro per motivi demografici, ma le
cose vanno in senso opposto: gli arabi cercano di rientrare nella
città, per avere la residenza entro i confini del Muro. Così non fanno
che aumentare. Costruiscono intorno ai quartieri ebraici di
Yerushalaim, illegalmente, per collegare quartieri arabi, intorno alle
zone ebraiche, che restano circondate". Noto la paranoia del
ragionamento, che mi riporta alla memoria un famoso detto di Lacan: i
sentimenti sono sempre reciproci...
Poi con il pullman a Silwan, zona dichiarata "città di Davide": nella
valletta, su tutte le 88 case vige un ordine di demolizione perché
costruite in assenza di piano regolatore. Al loro posto, Israele vuol
far sorgere un parco archeologico. Nella valletta si erge un enorme
palazzo dei coloni, con una gigantesca bandiera israeliana sulla
facciata anteriore e una sul tetto. Pure questa costruzione è illegale
per assenza del piano regolatore. Jeff racconta: "Abbiamo protestato, e
ci hanno risposto: non l'abbiamo vista" (!). Magari imporranno una
piccola multa, per far vedere che non discriminano: certo non la
demoliranno. A Gerusalemme Est, pende un ordine di demolizione su
21.000 case: su 1/3 di quelle palestinesi, cioè. Per impedire loro di
edificare, buona parte di Gerusalemme Est è classificata come 'spazio
verde aperto'. Chi deve costruire, lo fa illegalmente. E' il Comune
stesso a sostenere che nel settore palestinese della città mancano
25.000 abitazioni. La terra è dei palestinesi, che il denaro per
costruire ce l'hanno: la carenza di case è creata artificialmente. Non
c'è un piano regolatore per le zone palestinesi: e dove non c'è un
piano regolatore non si può avere la licenza edilizia".
Nel quartiere palestinese di Ras Alamud, Jeff ci mostra, sulla collina,
la colonia che è l'enorme casa di Arieh King, circondata da reti
metalliche. Davanti vi è un altro edificio. "Questo", spiega Jeff,
"appartiene alla polizia: era stato confiscato nel '67. Moskowitz è un
privato cittadino statunitense; in base ad un suo accordo con la
polizia, le ha costruito un nuovo ufficio a Ma'ale Adumim, in modo che
questo, a Ras Alamud, passasse ai coloni. Ora la nuova costruzione per
la polizia è nell'area E1, fra Gerusalemme e Ma'ale Adumim".
Ci rechiamo all'università di Al Quds, dietro al Muro e tagliata a metà
dal medesimo: per entrare e uscire, gli studenti devono passare
attraverso un posto di blocco israeliano. Jeff osserva, amaro, che il
boicottaggio delle università israeliane è stato considerato
antisemita: ora che qui è in corso un vero boicottaggio di
un'università palestinese -il cui rettore ha rapporti estremamente
amichevoli con gli israeliani- il mondo tace. "Vedete -aggiunge- agli
ebrei non piacciono i muri: ricordano loro troppo un passato recente. E
così il Muro passa nei quartieri palestinesi. Poi dicono che è per
motivi di sicurezza, ma in questo modo incorporano interi quartieri
palestinesi nella Gerusalemme ebraica. Dicono che il Muro è per la
sicurezza. Ma come riescono a distinguere i palestinesi pericolosi da
quelli non pericolosi?".
Arriva Neta Golan, che funge da guida per un altro gruppo legato
all'Icahd: sono in maggioranza religiosi, connessi al centro
palestinese Sabeel. Il pullman ci porta poi a Ma'ale Adumim, che,
secondo tutti gli accordi e tentativi di accordi, compreso quello di
Ginevra, ha da restare israeliana. E' enorme, ed è connessa ad E1, dove
si vede un enorme "centro per interrogatori" della polizia israeliana.
Ma'ale Adumim non è neanche più considerato una colonia: ci si abita
per motivi economici, vale a dire perché i sussidi governativi alle
abitazioni rendono la vita lì molto più a buon mercato che a
Geru?salemme. Ci sono scuole superiori, una facoltà universitaria,
supermercati, fast food e quattro piscine, oltre a un laghetto
all'aperto. Nelle aiuole in centro strada, olivi trapiantati:
verosimilmente facevano parte di quelli sradicati per costruire il Muro.
Infine, (ottima) cena ad Anata, vicino al campo profughi di Shu'fat,
nel centro per la pace voluto dall'Icahd nel luogo in cui la casa di
Salim, sposato ad Arabya, era stata più volte distrutta dagli
israeliani. Salim aveva domandato più volte il permesso alle autorità
israeliane per costruire, sulla terra che aveva acquistato: nel '93
aveva ricevuto un diniego "perché il terreno è agricolo", in base alle
norme del Mandato britannico; nel '94, "perché il pendio è troppo
ripido". Nel '98, invece, "perché mancano due firme sul titolo di
proprietà del terreno". L'avvocato della famiglia aveva chiesto
all'Amministrazione civile israeliana di chi fossero le firme mancanti,
senza ottenere risposta. Allora Salim aveva fatto firmare a tutti gli
abitanti di Anata una dichiarazione attestante l'assenza di pretese sul
suo terreno; al che l'Amministrazione civile aveva risposto che era
andato perduto il file che indicava di chi fossero le firme richieste.
Nel '98, l'esercito israeliano aveva distrutto la casa. In
quell'occasione, Salim era stato picchiato dai soldati, che avevano
anche buttato gas lacrimogeno nelle stanze in cui stavano i bambini. La
famiglia aveva tentato di ricostruire, con il risultato che le
fondamenta erano state distrutte nell'agosto dello stesso anno. La casa
era poi stata ricostruita lentamente, con l'aiuto di volontari, per
essere demolita nuovamente nel 2001; ad un nuova ricostruzione,
l'esercito israeliano aveva posto rimedio di?struggendola di nuovo, nel
2003. Ora la casa, ricostruita dall'Icahd, è adibita a centro per la
pace: porta il nome di Beit Arabya, ed è dedicata a Rachel Corrie ed a
Noha Sweedan, morta nella demolizione della sua casa. Su di essa pende
-ovviamente- l'ennesimo ordine di demolizione.
Meir Margalit, dell'Icahd, ci fa vedere uno schema kafkiano, che mostra
come i i palestinesi debbano recarsi da un ente burocratico all'altro,
per ottenere il permesso di costruire, e le cifre pagate per ottenerlo.
Faccio un breve discorso, ringraziando Jeff: non solo perché racconta
in Europa e negli Usa quel che avviene, in modo che non si possa dire
"non sapevo", ma anche perché, con la sua opera, dimostra che non è
obbligatorio che ebrei e palestinesi siano nemici...
UNA CITTÀ n. 156 / maggio 2008
_._,_.___