2008-06-04 Redazione
di Marco Paganoni
"Il movimento sionista è nazionale e non imperialista, il movimento arabo è
nazionale e non imperialista e c'è posto per entrambi in Medio Oriente". Lo
scrisse nel 1919 l'emiro Feisal ibn Hussein, leader della rivolta araba contro i
turchi.
Due mesi prima, a Parigi, aveva firmato con il presidente sionista
Chaim Weizmann un accordo che riconosceva il diritto degli ebrei ad immigrare
nella Palestina (occupata dagli inglesi) e a stabilirvi la loro sede nazionale.
Pose un'unica condizione: che gli venisse riconosciuto il regno arabo unito a
cui aspirava.
Ma Londra e Parigi tradirono quella promessa e i risorgimenti
nazionali ebraico e arabo, a un passo dall'avviare una pacifica e fruttuosa
convivenza, entrarono in rotta di collisione.
Quella rimane una delle rare
occasioni in cui un leader arabo abbia mostrato di comprendere i potenziali
vantaggi della cooperazione coi sionisti. Prevalse invece, rispetto alle
aspirazioni ebraiche, un atteggiamento a metà tra opportunismo predatorio e
intransigenza aggressiva, che non solo procurò innumerevoli lutti a entrambe le
parti ma si dimostrò anche tragicamente miope sul piano storico e
politico.
Quando, nella seconda metà dell'800, prese avvio la moderna
immigrazione ebraica nella Palestina ottomana (per gli ebrei Eretz Israel, Terra
d'Israele), gli arabi erano meno di trecentomila, e molti si erano stabiliti da
poco in quel paese che non era mai stato esclusivamente arabo (gli ebrei, ad
esempio, erano già maggioranza a Gerusalemme) e che non era mai stato una
nazione araba indipendente. Era una regione arretrata e sotto-popolata, con
un'agricoltura primitiva, poco commercio locale, industria quasi inesistente. Al
vertice della società araba stavano gli effendi, grandi proprietari terrieri che
sfruttavano i fellahin: contadini analfabeti, incatenati alla povertà e ai
debiti, vessati da nomadi predoni.
Gli ebrei in arrivo - parte animati da
alti ideali, parte profughi in fuga da recrudescenze di antisemitismo - si danno
all'acquisto delle terre nel paese dei padri che sognano di redimere e portare a
nuova vita. Intanto introducono moderne tecniche agricole nonché rapporti
sociali, ideologie politiche, spirito e costumi del tutto nuovi e dirompenti per
la comunità araba, tradizionale e patriarcale. Non stupisce che l'avvento della
modernità portata dagli ebrei abbia scatenato l'opposizione dei ceti sociali che
dal vecchio assetto traevano vantaggi e potere. Un'opposizione chiassosa e a
tratti violenta, ma anche molto ambigua. "Uno dei paradossi dell'insediamento
sionista - spiega Eli Barnavi - è il fatto che esso si sia realizzato grazie
agli arabi di Palestina, grandi signori e piccoli fellah, che vendevano le loro
terre agli enti sionisti. Lo fecero tanto le grandi famiglie feudali, la cui
avidità di guadagno aveva la meglio sulle considerazioni politiche, quanto le
collettività dei villaggi, desiderose di sbarazzarsi di terre incolte ad alto
prezzo". Il valore commerciale della maggior parte delle terre, inizialmente
molto basso, conosce un incremento vertiginoso, con il conseguente trasferimento
di ingenti capitali dagli acquirenti ebrei ai venditori arabi. Basti ricordare
che negli anni '40 gli enti ebraici pagavano più di mille dollari un acro di
terra per lo più arida, quando nello stesso periodo un acro di terra fertile
nello stato americano dello Iowa veniva pagato poco più di cento dollari. "Gli
ebrei - scrisse la Commissione Simpson nel 1930 - hanno pagato prezzi molto alti
per la terra, e spesso hanno anche versato a chi occupava quelle terre senza
esserne proprietario somme considerevoli che non erano tenuti a pagare". Così
vennero vendute, ad esempio, le terre demaniali nella valle di Beit She'an, a
sud di Tiberiade, che negli anni '20 gli inglesi avevano distribuito a tribù
beduine che non sapevano cosa farsene; e le terre paludose della Valle di Hule,
di proprietà d'una sola famiglia che viveva in Siria e che le aveva avute dal
Sultano turco. Delle terre acquistate dagli enti fondiari ebraici tra il 1901 e
il 1947, il 73% era stato ceduto dal demanio o da grandi proprietari terrieri,
generalmente assenteisti. Vendette il sindaco arabo di Giaffa; vendette Assad
Shuqeiri, padre di Ahmed Shuqeiri, futuro fondatore dell'Olp; vendettero molti
membri del Consiglio Supremo Islamico.
Sono gli stessi anni in cui monta la
campagna araba contro gli ebrei che "espropriano ed estromettono" gli arabi di
Palestina. "E' chiaro - scrisse re Abdullah di Transgiordania nelle sue memorie
- che gli arabi sono prodighi nel vendere terre almeno quanto lo sono nel
piangere e lagnarsi". D'altra parte, notava l'Alto Commissario Britannico nel
1938, lamentare la perdita di terre è anche un modo per alzarne il
prezzo.
Tanto più che, in quegli anni, gli arabi non vengono affatto
estromessi. Anzi, attratti dallo sviluppo economico innescato dalla comunità
ebraica, ne arrivano dai paesi vicini. "L'immigrazione araba - osserva negli
anni '30 il governatore britannico del Sinai - continua non solo dall'Egitto, ma
anche dalla Transgiordania e dalla Siria, ed è difficile sostenere che gli arabi
in Palestina vengano spodestati se nel frattempo continuano ad arrivarne altri".
Le migliori condizioni di vita determinano anche un incremento naturale dovuto
al calo della mortalità, specie infantile (che tra il '25 e il '45 crolla da 201
a 94 per mille). "La carenza di terre - afferma nel 1937 la Commissione Peel -
non è tanto dovuta agli acquisti da parte ebraica, quanto all'aumento della
popolazione araba". "Un aumento - nota Baruch Kimmerling - iniziato dopo un
lungo periodo di stagnazione e decremento demografico. Oltre agli immigranti da
Egitto Siria e Libano, si ebbe una crescita naturale annua fra le più elevate
del Medio Oriente: più del 20 per mille. In poco più di due decenni, fra il ‘22
e il ‘44, il numero degli arabi raddoppiò". Fatto ancora più significativo,
l'aumento si concentra proprio nei distretti dove è più alta la densità ebraica:
tra il 1922 e il 1947, ad esempio, nelle città miste di Haifa e Gerusalemme gli
arabi crescono rispettivamente del 290% e del 131%, mentre nelle città solo
arabe di Nablus e Jenin aumentano del 42% e del 37%.
Nel frattempo l'yishuv,
la comunità ebraica in Terra d'Israele, continuava a svilupparsi, inaugurava
nuove sperimentazioni sociali (kibbutz), apriva strade, fondava città (Tel Aviv
nel 1909), creava università (nel ‘24 il Technion di Haifa, nel ‘25 l'Università
di Gerusalemme), rivitalizzava l'antica lingua ebraica, dava vita a una moderna
democrazia dotata di partiti, giornali, sindacati. Alla fine degli anni '30 lo
stato degli ebrei di fatto esisteva, benché ancora sotto governo britannico,
come riconobbe la Commissione Peel, che infatti propose per la prima volta di
dividere il paese in due stati. Ma nel maggio ‘39, alla vigilia della
conflagrazione mondiale, spinta dalla necessità di ingraziarsi i nazionalisti
arabi bellicosamente attratti dalle ideologie e dalla politiche delle potenze
dell'Asse, Londra preferì varare un Libro Bianco che limitava pesantemente le
concrete possibilità di immigrazione degli ebrei, anche di quelli intrappolati
nell'Europa della Shoà.
L'idea di spartire la terra fra i due popoli riemerge
solo più tardi, il 29 novembre 1947, con il voto dell'Assemblea Generale
dell'Onu che raccomanda la suddivisione del Mandato Britannico in due stati, uno
arabo e uno ebraico: è la risoluzione su cui si fonda la dichiarazione
d'indipendenza dello Stato d'Israele (14 maggio 1948). Ma gli arabi si
oppongono. Quando Abba Eban offre un estremo compromesso per scongiurare la
guerra, il segretario della Lega Araba Azzam Pasha gli risponde candidamente:
"Il mondo arabo non vuole un compromesso. Non otterrete nulla con mezzi
pacifici: noi ci sforzeremo di sconfiggervi. Può darsi che la vostra proposta
sia ragionevole, ma il destino delle nazioni non viene deciso dalla logica". "E'
difficile capire - scriveva in quei giorni il London Times - come il mondo arabo
in generale, e men che meno gli arabi di Palestina, possano affliggersi per
quello che è solo il riconoscimento di un dato di fatto: la consolidata presenza
in Palestina di una comunità ebraica compatta, ben organizzata e virtualmente
già autonoma". E l'Unità spiegava: "Gli effendi, questi tenaci assertori dei
diritti dei latifondisti arabi, vi ricorderanno che tra il 1922 e il 1944 gli
ebrei sono passati da 84.000 a 554.000, ma non vi diranno che i musulmani sono
aumentati nello stesso periodo da 589.000 a 1.061.000 grazie alla diminuita
mortalità, principalmente infantile, mentre l'accresciuta fertilità del suolo, i
lavori ebraici di bonifica e la nascita di città industriali hanno reso
possibile alla Palestina di accogliere arabi dai paesi vicini. Il fellah che
manda a scuola i suoi figli e che per la prima volta dopo secoli di miseria ha
del denaro sono novità pericolose per una dominazione ancora medioevale. La
lotta antiebraica prende così il suo carattere di lotta contro il progresso e
contro la civiltà".
Ergendosi a paladini della causa palestinese, i paesi
arabi si lanceranno in una catastrofica guerra contro il neonato Israele, con il
malcelato intento di spartirsene le spoglie. Israele riesce a difendersi, ma i
territori destinati agli arabi palestinesi cadono sotto occupazione egiziana e
giordana. Amman li annette, mentre l'Egitto fa stampare francobolli con la
scritta "Gaza è parte della nazione araba" e fa dire a Shuqeiri: "Si sa che la
Palestina non è altro che la provincia siriana meridionale della nazione
araba".
Chi farà le spese dell'infida solidarietà araba saranno in primo
luogo gli sfollati palestinesi, in fuga dalla guerra verso i paesi fratelli dove
verranno segregati nei campi profughi, succubi della scelta araba di usarli per
decenni come strumento di propaganda e di terrorismo: vera e propria "carne da
cannone" del revanscismo anti-israeliano.
Nelle foto in alto: Rehavia nel 1921, quando sorse su terre disabitate
(sopra); la stessa località nel 1937 (sotto)
Marco Paganoni