NAIROBI (KENYA) – I massacri? Continuano
più che mai. La pulizia etnica? E’ ancora più meticolosa e precisa. Le
truppe dell’Onu? Più tardi arriveranno (se mai arriveranno) e minore sarà
il lavoro da fare. Il genocidio sarà compiuto. Forse solo alla fine delle
stragi, quando in Darfur la popolazione di origine africana sarà
sterminata, il governo di Khartoum concederà i permessi per il loro
dispiegamento nella travagliata regione del Sudan Occidentale.
ACCORDO DI PACE - A Khartoum solo i
rappresentanti ufficiali del governo sostengono pubblicamente la menzogna
che l’accordo di pace (il DPA dalle iniziali inglesi) raggiunto con una
delle fazioni ribelli, funzioni. In realtà i diplomatici (e non solo
quelli occidentali) sono concordi: i combattimenti si sono intensificati,
gli sfollati sono aumentati e le violenze contro i civili demoltiplicate.
In più ai janjaweed, gli arabi a cavallo che come dei diavoli circondano i
villaggi e li bruciano, violentano le donne, ammazzano gli uomini e
rapiscono i bambini, si sono uniti quelli che la gente chiama con ancora
più disprezzo i “janjaweed 2”, i miliziani (pochi per la verità) di Minni
Arku Minnawi, il capo di una delle fazioni darfuriane, considerato ora
gran traditore, capo della fazione che ha firmato gli accordi di pace e
che ha trovato un posto all’ombra del presidente sudanese Omar Al Bashir,
di cui è consigliere per i problemi del Darfur.
CIAD - Inoltre la pulizia etnica si è
estesa al vicino Ciad. Gruppi di ribelli ciadiani, finanziati e armati dai
sudanesi hanno attaccato campi di rifugiati provenienti dal Darfur
massacrando civili inermi. Anche la Repubblica Centrafricana è colpita
dalla crisi. Nuovi gruppi di ribelli sono comparsi al nord. Sono entrati
dal Sudan con veicoli e armamenti di fabbricazione cinese, nuovi di zecca
e minacciano il presidente François Bozizé, che ha preso il potere qualche
anno fa grazie all’aiuto del suo omologo ciadiano Idriss Deby. Ormai
l’imponente massa di profughi non sa più dietro quale frontiera trovare
rifugio.
LA CINA APPOGGIA IL SUDAN - La comunità
internazionale è bloccata da veti incrociati. Il miglior alleato del
regime di Khartoum è la Cina, grande acquirente del petrolio sudanese e
grande venditrice di armi al Paese africano. Con grande cinismo e
spregiudicatezza, Pechino, con una politica neocolonialista di
sfruttamento intenso delle risorse, ha minacciato più volte di mettere il
veto sulle risoluzioni dell’Onu che condannano la politica di Khartoum e
la risoluzione 1706 che prevede l’invio di un continente di 17 mila
uomini, il 31 agosto è passata solo perché Pechino ha preteso l’aggiunta
di una nota che vincola il dispiegamento “al consenso del governo
sudanese”. Ovviamente non è ancora stata applicata perché il regime
sudanese per bocca del suo presidente ha sentenziato: “Mai truppe dell’Onu
in Darfur”.
SFORZI DIPLOMATICI - A Khartoum qualche
settimana fa si è recata la viceministra italiana per gli affari esteri
Patrizia Sentinelli che ha incontrato tutti gli alti dirigenti del Paese.
Ha ottenuto assicurazioni e promesse, ma che poi sul campo non si sono
tradotte in un nulla di fatto. Sembra che gli sforzi diplomatici per
cercare di ricondurre il regime sudanese alla ragione non ottengano
risultati.
APPELLI - Le organizzazioni non
governative continuano con le denunce per sollevare la comunità
internazionale e lanciano ogni giorno richieste d’aiuto e appelli.
L’ultimo giovedì scorso: firmato da Medici Senza Frontiere: “L’aumentare
della violenza impedisce agli aiuti di raggiungere le migliaia di civili
che continuano a subire attacchi sempre più feroci nella regione del Jebel
Moon, a nord della capitale del Darfur occidentale, El Genuina – accusa
Andrea Pontiroli della sezione italiana di MSF, che racconta -. All’inizio
di novembre una nostra equipe si è recata a Seleah, nel Jebel Moon, per
organizzare un programma di assistenza medica d’emergenza e ha trovato una
città in stato di assedio. Il 29 ottobre 21 villaggi nella regione di
Seleah, incluso il campo sfollati di Haijelihah (che secondo la Croce
Rossa Internazionale contava 9.934 anime), sono stati attaccati e
svuotati. Dove siano finiti questi poveracci e in che condizioni si
trovino ora nessuno lo sa”. Il resoconto di Pontiroli è raccapricciante:
“Le poche famiglie che sono riuscite a tornare a Seleah hanno raccontato
di decine di bambini, donne e uomini uccisi. Poiché l’accesso alla città
era impossibile, i 51 feriti che hanno raggiunto il centro di salute di
Seleah hanno dovuto attendere diversi giorni prima di potere essere
trasportati all’ospedale supportato da MSF a El Geneina, l’unica struttura
chirurgica nella zona. Quattro pazienti sono morti a causa dell’assenza di
cure adeguate. Alcuni veicoli che trasportavano i feriti sono stati
ripetutamente attaccati lungo la strada. Al momento Seleah è sotto assedio
e le equipe di MSF non hanno potuto tornare e avviare le operazioni
mediche d’emergenza. Due feriti gravi sono ancora in attesa di essere
trasferiti. L’11 novembre, anche la città di Sirba, che si trova a soli 40
chilometri da El Geneina, è stata attaccata. Nove persone sono giunte
all’ospedale di El Geneina con ferite da arma da fuoco. Ci sono notizie di
altre vittime e altri feriti, ma la crescente insicurezza rende
impossibile l’invio di soccorsi”.
MISSIONE AFRICANA - La missione di pace
dell’Unione Africana è poco più che decorativa. Non riesce a impedire le
stragi, al massimo le documenta dopo che sono avvenute, ma i suoi
rapporti, come ricorda un maggiore nero come il carbone della forza di
pace dell’UA incontrato a Khartoum, “restano chiusi nei cassetti del
quartier generale dell’Organizzazione, ad Addis Abeba”. Il governo
sudanese ha ammonito l’Onu: “Non consentiremo che le truppe dell’Onu
invadano il nostro Paese. A normalizzare la situazione in Darfur ci
penseremo noi”. E chiaro a tutti di che normalizzazione si tratti. I
permessi per andare in Darfur (soprattutto in quello settentrionale, sono
difficilissimi da ottenere. I governativi hanno recentemente lanciato la
più imponente offensiva militare da quando, nel 2003, è scoppiata la
guerra civile, e sono ricominciati i bombardamenti a tappeto
indiscriminati. Non si colpiscono i miliziani ribelli del SLA, Sudan
Liberation Army, e del JEM, Justice and Equality Movement, ma piuttosto i
villaggi o i pozzi dove la gente si raduna per prendere l’acqua:
“L’obbiettivo è chiaro – spiega lo stesso maggiore africano -:
terrorizzare la popolazione”. In un recente rapporto di Amnesty
International c’è infatti scritto: “Spesso, come nel caso dell’incursione
su al-Hassan del 29 luglio, vengono presi di mira ospedali e scuole. Nel
bombardamento di Kusa Kuma, a nordest di al-Fasher, avvenuto il 27
settembre, sono state uccise tre donne: Halima Issa Abaker e due sorelle,
Maryam e Hawa Ishaq Omar”. L’organizzazione denuncia poi come sia
cominciato il ripopolamento da parte degli arabi delle fette di territorio
abbandonate dalla popolazione africana in fuga dopo le massicce offensive
degli anni scorsi: “Gli sfollati vivono come prigionieri all’interno di
campi, mentre all’esterno di questi le forze di sicurezza e i Janjawid
continuano a rendersi responsabili di uccisioni, sequestri, espulsioni e
stupri”. La gente del Darfur ha perso completamente la fiducia nelle forze
di protezione dell’UA e teme che anche l’Onu - ammesso e non concesso che
arriverà mai - in realtà non sia in grado di fermare la carneficina:
“Soprattutto – commenta Hersi Omar Sadik – uno sfollato arrivato a
Kahrtoum, ex insegnante di inglese a Nyala, capitale del Darfur
Meridionale – se la spina dorsale sarà costituita da soldati africani. Ci
vorrebbe la NATO. Loro sono cristiani che in Bosnia hanno aiutato i
musulmani contro altri cristiani. Una biglietto da visita che non richiede
altre spiegazioni”.