di Michael T. Klare (da Mother Jones)
Ai piani alti della
politica internazionale si è capito che il mondo si trova di fronte a un nuovo
incombente pericolo: una permanente crisi energetica globale, in grado di
compromettere la prosperità di ogni società sulla Terra e di dare vita a un
nuovo 'Great Game' per l'accesso alle fonti energetiche
Nel discorso pronunciato in occasione del Rapporto sullo Stato dell’Unione, un paio di mesi fa, il
presidente Usa George Bush ha sottolineato il tema della “dipendenza americana
dal petrolio”, il che può essere letto come puro opportunismo politico. Poiché
sempre più cittadini americani si dicono preoccupati per gli alti prezzi del
petrolio, per le anomale tendenze metereologiche e per i duraturi legami tra il
proprio paese e sgradevoli magnati petroliferi stranieri, difficilmente ci si
sorprende che Bush cerchi di dipingersi come un fautore dello sviluppo di
sistemi di energia alternativa.
Ma esiste un’altra possibilità, più
inquietante, di intendere i suoi commenti: ai piani alti della politica
internazionale si è capito che gli Stati Uniti e il resto del mondo si trovano
di fronte ad un nuovo e crescente pericolo – una permanente crisi energetica che
potrebbe compromettere la prosperità e il benessere di ogni società sulla Terra.
Gli Stati Uniti hanno fatto esperienza di gravi crisi energetiche in passato:
solo per citarne alcuni, lo shock petrolifero del 1973-74 con i suoi
chilometrici gasdotti, la crisi del 1979-80 seguita alla caduta dello Shah
dell’Iran, i blackout energetici del 2000-2001 in California. Ma la crisi che
sta prendendo in questo 2006 è diversa: prima di tutto, è probabile che duri
decenni, non mesi o anni; secondo, non circoscriverà il suo raggio d’azione ad
alcuni paesi, ma coinvolgerà l’intero pianeta; infine, non si limiterà a
paralizzare l’economia globale, perché anche gli effetti politici, militari e
ambientali che ne deriveranno saranno ugualmente
disastrosi.
L'inizio
Se si dovesse stabilire una data, si potrebbe
dire che la "permanente crisi energetica” è cominciata il primo gennaio di
quest’anno, quando Gazprom, l’azienda statale russa
che ha il monopolio del gas naturale, ha interrotto le forniture all’Ucraina
come ritorsione per le posizioni filo-occidentali assunte dall’ex-repubblica
sovietica. Nonostante Gazprom abbia in seguito ripreso alcuni dei rifornimenti,
è evidente che Mosca oggi è pronta ad usare le sue abbondanti risorse
energetiche come armi politiche, considerato l’imminente esaurimento delle
riserve mondiali di gas naturale.
Non si è trattato – e non si tratterà in
futuro – di un caso isolato; infatti, già nelle settimane successive alla ‘crisi
del gas’, il mondo ha vissuto una serie di inconvenienti simili legati
all’energia:
• il sabotaggio di alcune tubature di gas naturale in Georgia, una delle ex-repubbliche sovietiche, che ha
causato disagi alle popolazioni in un periodo in cui le temperature erano
insolitamente glaciali;
• in Nigeria, lo scoppio
di conflitti etnici legati al petrolio hanno comportato una severa riduzione
della produzione del petrolio grezzo nigeriano;
• le minacce iraniane di tagliare le esportazioni di petrolio e
gas come ritorsione per le sanzioni imposte dal Consiglio di Sicurezza delle
Nazioni Unite a causa delle sue sospette attività di arricchimento
nucleare;
Il risultato è stato una serie di mini picchi del prezzo del
petrolio grezzo, come riportato dai servizi delle riviste economiche di tutto il
mondo. Se questa instabilità continuasse, i prezzi potrebbero facilmente balzare
oltre gli 80 dollari al barile per arrivare alla fatidica soglia, un tempo
inimmaginabile, dei 100 dollari.
I vettori della crisi
Certamente
eventi come questi diffonderanno a livello globale le criticità economiche e le
privazioni, specialmente tra coloro che non possono permettersi costi elevati
per i mezzi di trasporto e per il riscaldamento. Si dà il caso che questi non
siano eventi isolati e non correlati tra loro, ma l’espressione di una crisi più
profonda. Come le leggere scosse che anticipano un violento terremoto, così
questi eventi suggeriscono il pericoloso accumulo di potenti forze energetiche
che scuoteranno il pianeta negli anni futuri. Sebbene non si possa sperare di
prevedere tutte le modalità con cui tali forze incideranno sulla comunità umana
globale, i vettori principali della Permanente crisi energetica possono essere
identificati e classificati. Tre vettori in particolare richiedono attenzione:
un rallentamento nella crescita di forniture energetiche in un periodo in cui la
domanda mondiale cresce; l’aumento dell’instabilità politica dovuta alla
competizione geopolitica tra i fornitori; le crescenti calamità naturalicausate
dalla continua dipendenza dal petrolio, dal gas naturale e dal carbone. Ognuno
di questi sarebbe un motivo sufficiente di preoccupazione, ma ciò che dobbiamo
temere più di ogni altra cosa è la loro combinazione.
Gli esperti di
questioni energetiche hanno da tempo messo in guardia dal fatto che le riserve
mondiali di petrolio e gas naturale potrebbero non essere sufficienti per
soddisfare la domanda prevista. Verso la metà degli anni novanta, teorici del
‘Peak oil’ come Kenneth Deffeyes dell’Università di
Princeton e Colin Campbell di ASPO ('Association for
the study of peak oil and gas') fecero notare come il pianeta si stesse
dirigendo verso il picco della produzione petrolifera e come si sarebbe dovuto
fronteggiare presto una minore produzione di petrolio grezzo. In un primo
momento, la maggior parte degli esperti della principale corrente di pensiero
avevano respinto tali affermazioni perché considerate semplicistiche ed errate,
mentre funzionari dei governi e rappresentanti delle grandi compagnie
petrolifere le avevano ridicolizzate.
Di recente, tuttavia, c’è stata
un’inversione di tendenza nelle opinioni d’elite. Dapprima Matthew Simmons, presidente della Simmons and Company
International di Houston, la maggiore finanziaria statunitense che colloca
azioni nell’industria energetica, e in seguito David
O’Reilly, direttore generale della Chevron, la seconda azienda
petrolifera Usa, sono usciti dai ranghi dei loro colleghi magnati ed hanno
abbracciato la tesi del picco del petrolio. O’Reilly ha espresso la propria
opinione comprando spazi pubblicitari a tutta pagina sul New York Times e su
altri giornali per dichiarare: “Una cosa è chiara: l’era del petrolio facile è
finita”.
Il momento esatto della venuta del Peak oil non è fondamentale
quanto il fatto che la prduzione mondiale di petrolio quasi certamente non sarà
sufficiente a soddisfare la domanda globale, vista la voracità di combustibile
fossile delle nazioni di prima industrializzazione – soprattutto gli Stati Uniti
– e l’elevata domanda da parte della Cina, dell’India e di altri paesi in rapida
industrializzazione.
Il Dipartimento dell’Energia Usa
(DoE) stima che la domanda globale di petrolio crescerà del 35% tra il
2004 e il 2025, passando da 82 milioni a 111 milioni di barili al giorno, ma
calcola che, conseguentemente, la produzione giornaliera aumenterà di una simile
quantità, da 83 milioni a 111 milioni di barili. Voilà, il problema del petrolio
è svanito.
Anche un rapido sguardo alle previsioni degli esperti del DoE è
sufficiente a far sorgere dei dubbi. Dietro tali stime è data per scontata
l’ipotesi secondo cui i produttori chiave di petrolio come Iran, Iraq, Nigeria e
Arabia Saudita, raddoppino o triplichino la loro produzione – cosa assai
improbabile secondo i più autorevoli analisti. Oltretutto, il DoE ha ridotto le
stime della propria produzione di petrolio: nel 2003, aveva previsto che
l’estrazione mondiale di petrolio entro il 2025 avrebbe raggiunto i 123 milioni
di barili al giorno; alla fine del 2005 la cifra era già scesa a 12 milioni di
barili – riflettendo un crescente pessimismo anche tra i più ottimisti.
Ciò
non significa che il petrolio si esaurirà nei prossimi anni: ci saranno ancora
riserve sufficienti per i consumatori pieni di soldi, coloro che potranno
sostenere spese elevate. Tuttavia, gran parte del petrolio grezzo facilmente
acquisibile è già stato estratto e una fetta significativa di ciò che rimane si
può trovare solo in luoghi difficilmente accessibili per quanto riguarda il
perforamento – come il Golfo del Messico, frequentemente colpito dagli uragani,
o le acque invase dagli iceberg del nord atlantico; o ancora aree perennemente
oppresse dai conflitti e vulnerabili ai sabotaggi, come l’Africa, l’Asia
centrale e il Medio Oriente.
Non c’è scampo alla carenza di energia
A
rendere il quadro ancora più inquietante, il fatto che la capacità di estrarre
quantitativi maggiori rispetto alle esigenze sembra stia svanendo nelle aree del
mondo più ricche di giacimenti petroliferi. Un tempo i produttori chiave, come
l’Arabia Saudita, tenevano da parte un “surplus estrattivo”; ciò permetteva loro
di attingere alla propria produzione extra in tempi di potenziali crisi
energetiche, come nel caso della Guerra del Golfo del 1990-91. Ma al pari di
altri grandi fornitori, l’Arabia Saudita oggi sta estraendo a pieno ritmo e, di
conseguenza, la sua capacità di aumentare la produzione è pari a zero. In altre
parole, ogni taglio delle esportazioni di petrolio – che sia politicamente
ispirato o legato a sabotaggi – di paesi come Russia o Iran, produrrà uno shock
energetico istantaneo su scala mondiale e farà lievitare i prezzi fino a
superare la soglia dei 100 dollari al barile.
Far fronte a un’insufficienza
cronica di petrolio risulterebbe arduo per la comunità mondiale anche in caso di
abbondanti risorse energetiche alternative. Ma anche la disponibilità di gas
naturale, la seconda fonte energetica mondiale, rischia di ridursi
considerevolmente in futuro. Se enormi depositi di gas in Russia e in Iran –
potenzialmente i due più grandi fornitori mondiali – attendono ancora di essere
sfruttati, si delineano ostacoli al loro sfruttamento. Gli Stati Uniti stanno
facendo tutto il possibile per evitare che l’Iran esporti il
proprio gas (ad esempio convincendo l’India, con le maniere forti, a non
accettare la proposta iraniana di costruire un gasdotto), mentre Mosca ha
attivamente scoraggiato l’Europa ad aumentare la propria dipendenza dal gas
russo attraverso il taglio delle forniture all’Ucraina ed altri preoccupanti
provvedimenti.
Nell’America del Nord le riserve di gas
naturale si stanno rapidamente esaurendo. Osservando la disperata e
impazzita condizione statunitense, il Canada sta ora cominciando a impiegare
alcune delle sue riserve di gas naturale nella manifattura di olio sintetico
ottenuto dal catrame, in modo da allentare la pressione sui giacimenti di
petrolio grezzo. Dato il costo proibitivo della costruzione di gasdotti
dall’Asia e dall’Africa, l’unico modo per avere più gas in Nord America sarebbe
quello di investire diverse centinaia di miliardi di dollari (o ancora di più)
in impianti capaci di convertire il gas proveniente dall’estero in gas naturale
liquefatto (GNL), trasportarlo in giganti navi a doppio scafo attraverso
l’Atlantico e il Pacifico, e poi convertirlo di nuovo in gas in appositi
impianti di ‘rigassificazione’ situati nei porti statunitensi. Sebbene sostenuti
dall’amministrazione Bush, i progetti per costruire tali impianti hanno attirato
le critiche di molte comunità costiere a causa del rischio di accidentali
esplosioni e di eventuali attacchi terroristici.
Le fonti di energia
rinnovabile – eolica, solare e da biomassa – si trovano ancora ad uno stadio
iniziale di sviluppo (cfr. ‘Collasso’, Nuovi Mondi
Media, 2005). Con circa un miliardo di dollari di investimenti aggiuntivi, tali
fonti potrebbero certamente alleviare, nei prossimi decenni, parte delle
pressioni sui combustibili fossili; tuttavia, con gli attuali tassi di
investimento, è improbabile che ciò succeda. La stessa cosa si può dire della
‘sicura’ energia nucleare e del carbone ‘pulito’; anche se i seri problemi
associati ad entrambe queste fonti energetiche potrebbero in effetti essere
superati, ciò richiederebbe diversi decenni e svariati miliardi di dollari prima
che possano sostituire i sistemi energetici esistenti. Oggi l’unica risorsa che
può compensare alla mancanza di petrolio e gas naturale è il normale carbone
("sporco"), e un incremento del suo utilizzo aumenterebbe il rischio di
cambiamenti climatici catastrofici.
Il nuovo 'Great Game'
Considerate
le incombenti carenze energetiche, il rischio di conflitti per l’accesso alle
fonti energetiche (e la ricchezza che i combustibili fossili generano) è
destinato ad aumentare. Nel corso della storia, le rivalità per il controllo
delle riserve strategiche di materie prime indispensabili sono state fonte di
ostilità tra le maggiori potenze mondiali, e c’è motivo di credere che la
situazione non cambierà. John Gray della London School of Economics ha
recentemente osservato, in un articolo pubblicato su the New
York Review of Books, che “proprio come durante il ‘Great Game’, nei
decenni che hanno portato alla prima guerra mondiale, così la crescente
industrializzazione sta dando il via a una lotta per le risorse naturali. Il
prossimo secolo potrebbe essere contrassegnato da ricorrenti guerre per le
risorse energetiche, poiché le grandi potenze si contendono il controllo
mondiale degli idrocarburi”.
Come durante il ‘Great Game’, è molto probabile
che tali guerre non si concretizzeranno nella forma di scontri diretti tra le
grandi potenze, piuttosto attraverso il sostegno a conflitti locali, come nel
caso dei Balcani negli anni precedenti la Prima guerra mondiale. Nella loro
agguerrita ricerca di sicure riserve energetiche, i grandi del mondo, Stati
Uniti e Cina fra tutti, stanno sviluppando o consolidando stretti legami con i
propri fornitori in Medio Oriente, in Asia Centrale e in Africa. In molti casi,
questo comporta la distribuzione di ingenti quantitativi di armi di nuova
generazione, la diffusione di consiglieri e di tecnologia militare – proprio
come gli Stati Uniti hanno fatto per molto tempo nei confronti dell’Arabia
Saudita, del Kuwait e degli Emirati Arabi Uniti, e come la Cina sta facendo oggi
con l’Iran e il Sudan.
Tuttavia, non dovrebbe essere scartata la possibilità
di uno scontro diretto vero e proprio tra potenze. Ad esempio, sia la Cina che
il Giappone hanno contemporaneamente dichiarato di voler far valere il proprio
diritto su un giacimento sottomarino di gas naturale situato nel mare cinese
orientale. Negli ultimi mesi, il governo cinese e quello giapponese hanno
dispiegato navi da combattimento ed aerei nell’area interessata, ma finora ci si
è limitati a minacce reciproche; né Pechino né Tokyo sono però disposti a
trovare un compromesso sulla questione, e il rischio di un’escalation di
violenza è in crescita.
Anche le possibilità di conflitti interni nei paesi
produttori di petrolio aumentano parallelamente alla costante crescita dei
prezzi energetici. Maggiore è il prezzo del petrolio grezzo, maggiore è la
probabilità di raccogliere enormi profitti dal controllo delle esportazioni
petrolifere di una nazione; di conseguenza, maggiore risulta l’incentivo ad
impadronirsi del potere in tali aree – oppure, per le nazioni che già detengono
il potere, prevenire con ogni mezzo la perdita del controllo a vantaggio di
gruppi rivali. Da qui, l’ascesa di regimi petroliferi autoritari in molti dei
paesi produttori e la presenza di persistenti conflitti etnici tra i vari gruppi
che vogliono controllare gli introiti statali derivanti dal petrolio; questo è
oggi un fenomeno rilevante in Iraq (dove sciiti, sunniti e curdi lottano per la
ripartizione dei futuri ricavi petroliferi) e in Nigeria (dove tribù rivali
nella regione petrolifera del Delta lottano per delle misere “sovvenzioni per lo
sviluppo” passate dalle principali compagnie petrolifere straniere).
Il 6
novembre del 2005 il senatore Usa Richard G. Lugar ha
dichiarato al Comitato per le Relazioni Internazionali del senato americano che
“fino a questo momento, i maggiori problemi riguardanti il petrolio sono stati
l’elevato costo e la possibilità di subire un blocco delle forniture. Ma nei
prossimi decenni, i problemi potrebbero diventare l’insufficienza delle riserve
mondiali e l’incapacità di sostenere la continua crescita economica… Quando
arriveremo al punto in cui le economie mondiali che più necessitano del petrolio
competeranno per aggiudicarsi le insufficienti riserve energetiche, il petrolio
diventerà un magnete per i conflitti molto più di quanto lo sia oggi”.
Evitare una catastrofe ambientale
Oltre a questo rischio, siamo di fronte
a un’intera gamma di pericoli ambientali associati alla continua dipendenza dai
combustibili fossili. Facciamo qualche considerazione: nel luglio 2005 il DoE ha
annunciato che le emissioni mondiali di anidride carbonica (il principale
responsabile dei gas serra che provocano il riscaldamento terrestre)
aumenteranno circa del 60% tra il 2002 e il 2025; virtualmente questo aumento,
circa 15 miliardi di tonnellate di anidride carbonica, deriverebbe
esclusivamente dal consumo di petrolio, gas naturale e carbone. Se questa
previsione si rivelasse corretta, il mondo passerebbe il punto oltre il quale
sarà impossibile evitare un significativo riscaldamento globale, un sostanziale
aumento dei livello dei mari e tutti i danni ambientali che ne
deriverebbero.
Il modo più sicuro per rallentare l’aumento delle emissioni
globali di anidride carbonica è ridurre il consumo dei combustibili fossili e
accelerare il passaggio a fonti energetiche alternative. Ma poiché tali
alternative al momento non sono in grado di sostituire il petrolio, il gas
naturale e il carbone (e, visti gli scarsi investimenti, non lo saranno per
svariati decenni), è probabile che la tentazione di aumentare la dipendenza da
combustibili fossili rimanga forte. Infatti, siamo di fronte a un circolo
vizioso: il mondo necessita di più energia per soddisfare la domanda globale, e
il solo modo per farlo al momento è estrarre più petrolio, più gas naturale e
più carbone, dando il via a cambiamenti climatici catastrofici. A sua volta,
l’unica soluzione per evitare tali mutamenti è consumare meno petrolio, gas e
carbone, ma ciò richiederebbe ingenti costi economici che la maggior parte dei
capi di governo considererebbe con riluttanza. In conclusione, rimarremo
intrappolati in una crisi permanente alimentata dalla collettiva dipendenza
dall’energia a basso costo.
La "soluzione"
Per sfuggire a questa
trappola non rimane che rassegnarsi e adottare misure significative per
contenere il consumo dei combustibili fossili, impegnandosi in un importante
programma di sviluppo dei sistemi di energia alternativa – che implichi uno
sforzo paragonabile, e in un certo senso opposto, a quello della rivoluzione
industriale che nel XIX e XX secolo venne alimentata da carbone e petrolio.
Nel mondo occidentale ciò dovrebbe comportare l’imposizione di una tassa sul
consumo dei carburanti – i profitti derivanti verrebbero destinati allo sviluppo
di sistemi di energia rinnovabile. Inoltre, tutti i fondi previsti per la
costruzione di autostrade dovrebbero essere impiegati nel trasporto pubblico e
nelle linee ferroviarie ad alta velocità, tutte le nuove autovetture vendute
dopo il 2010 dovrebbero avere una media minima di efficienza del carburante non
inferiore ai 20 chilometri al litro.
Un processo di questo tipo si rivelerà
costoso e dirompente; ma, se vogliamo conservare qualche speranza di uscire da
questa Permanente crisi energetica prima che l’economia globale collassi o che
il pianeta diventi inospitale, non abbiamo altra scelta.
Micheal T. Klare è docente all’Università di Hampshire, Massachusetts, dove
insegna Pace e Sicurezza Mondiale. È autore di 'Blood and
Oil: The Dangers and Consequences of America’s Growing Dependence on Imported
Petroleum' e di 'Resources Wars, The New Landscape of
Global Conflict'.
Tutti gli articoli di
Michael T. Klare pubblicati da Nuovi Mondi Media
Fonte: http://www.motherjones.com/commentary/columns/2006/02/how_addicted_to_oil.html
Tradotto
da Chiara Turturo per Nuovi Mondi Media