di Alberto 
Burgio
su 
Liberazione del 04/02/2006
Nel trionfo 
del gossip pseudopolitico, una notizia. Di quelle che possono provocare un terremoto. Un 
sottufficiale italiano in servizio a Nassiriya al 
momento della «battaglia dei ponti» (5-6 agosto 2004) e oggi sotto inchiesta da 
parte della Procura militare ha confessato di avere sparato su un’ambulanza 
provocando la morte di quattro civili, tra i quali una donna incinta. E ha chiamato in causa suoi diretti superiori nella catena di 
comando (un maresciallo e un capitano, comandante delle operazioni), che gli 
avrebbero intimato l’ordine di sparare. È un fatto di 
enorme portata. Non solo perché cozza contro le versioni sin qui 
congiuntamente fornite dalle autorità militari e dal governo italiano (l’allora 
ministro degli Esteri Frattini garantì che i colpi 
erano stati esplosi contro un’autobomba). Ma anche perché smentisce 
clamorosamente la tesi ufficiale – avallata anche dal 
presidente della Repubblica – secondo la quale le truppe italiane sarebbero in 
Iraq «in missione di pace». Davvero una bella missione. Che fa strame 
dell’articolo 1 della Convenzione di Ginevra del 1964, che sancisce la 
neutralità di ambulanze e ospedali militari e obbliga i 
belligeranti a proteggerli e rispettarli.
Una notizia indiscutibilmente 
importante. Ma quanti l’hanno trovata ieri sui 
giornali? Fatta eccezione per il Corriere della sera, non ne ha parlato 
letteralmente nessuno. Anche questa, se vogliamo, è una 
notizia: una notizia nella notizia. Sulla quale vale la pena 
di svolgere qualche riflessione.
A costo di semplificare drasticamente 
il ragionamento, si può sostenere – credo – che se in un Paese i poteri che 
contano sono favorevoli a una politica di guerra, in 
quel Paese l’informazione è inevitabilmente tendenziosa, reticente e 
inaffidabile quando si occupa delle guerre in corso e di quelle future (nonché 
di quanto si muove sullo sfondo delle operazioni belliche: sistemi di alleanze, 
movimenti lobbistici, interessi e affari). Nella sua 
genericità, questo schema va tenuto presente quando riflettiamo sul 
comportamento della stampa italiana in questi anni di piombo (cioè dal 1991 in poi) e quando ci interroghiamo su ciò che ci 
attende dopo il 9 aprile.
Il punto chiave concerne la collocazione dell’Italia nello scenario internazionale, per 
come la nostra «classe dirigente» la concepisce. Da questo punto di vista le 
differenze tra i due poli (Unione e Casa delle libertà) tendono a stemperarsi 
sino a farsi impercettibili. Tutti i partiti (ad eccezione delle forze della 
sinistra di alternativa) sono unanimi nel considerare 
il nostro Paese uno snodo cruciale del sistema politico-militare fondato 
sull’alleanza atlantica. L’opzione lealista nei confronti della Nato e degli Stati Uniti è da 
sempre un cardine della nostra Costituzione materiale. Se c’è una novità nella 
recente storia repubblicana, è che – posta la parola fine alla vicenda del Pci – tale opzione vale senza 
remore né distinguo per la quasi totalità delle forze di sinistra rappresentate 
in Parlamento. Ciò, nonostante la (ma forse si dovrebbe dire: 
in conseguenza della) drammatica escalation bellica seguita al tramonto 
dell’equilibrio bipolare.
Certo, l’Unione 
critica la guerra di aggressione scatenata da Bush e Blair contro l’Iraq e la strategia «unilaterale» che l’ha 
propiziata. Ma queste critiche non riposano su 
presupposti pacifisti, si limitano a predicare la superiorità di un approccio 
«multilaterale». E si accompagnano alla sistematica 
rivendicazione, da parte dei dirigenti dell’Ulivo, della partecipazione italiana 
alle guerre nei Balcani. Quanto al Medio Oriente, 
centrosinistra e centrodestra condividono nella 
sostanza l’interpretazione ufficiale del cosiddetto «terrorismo internazionale», 
la lettura in stile «Stato canaglia» della crisi iraniana e il 
giudizio sullo stesso conflitto israelo-palestinese 
(compresa l’agiografia di Sharon, ribattezzato 
costruttore di pace). Sull’Iraq, le critiche a Bush e al governo Berlusconi che 
ha trascinato l’Italia nel pantano iracheno non 
impediscono all’Unione di prevedere la permanenza delle nostre truppe in Iraq (e 
negli altri teatri in cui continua la guerra «a bassa intensità», come 
l’Afghanistan). Di ritiro immediato non parla più nessuno (tranne una sinistra 
di alternativa sempre meno capace di farsi ascoltare), 
mentre la bozza di programma della coalizione (che Romano Prodi ha già 
presentato ufficialmente agli ambasciatori dei Paesi Ue a Roma e – per quanto concerne la politica estera – ai 
parlamentari europei) accredita la «transizione democratica» sotto la guida del 
governo insediato dagli americani, prevedendo che l’Italia partecipi al 
banchetto della «ricostruzione». Ce n’è abbastanza, sembra, per avanzare l’ipotesi che – a meno di miracoli – la politica 
estera dell’Unione non registrerà brusche svolte, in caso di vittoria 
elettorale, rispetto alla linea praticata da Fini e Berlusconi.
Del resto, 
perché non dovrebbe essere così? Alla base di un approccio largamente bipartisan 
c’è un corposo intreccio di ragioni non soltanto ideologiche e politiche, ma 
anche immediatamente economiche (la notevole influenza esercitata sul mondo 
politico dalle imprese del nostro militare-industriale), delle quali troppo raramente ci si 
occupa. Il «Partito americano» è forte e ben piazzato, trasversalmente, in tutti 
i maggiori partiti. Annovera nelle proprie file radicali e teo-con, kennedyani , «anticomunisti democratici» e superstiti della Trilateral. E non fu forse il 
centrosinistra a consacrare negli anni Novanta la teoria degli «interventi 
umanitari» tanto cara all’amministrazione Clinton? Non 
fu l’attuale presidente dei Ds a sottoscrivere nel 1999, da presidente del 
Consiglio, l’accordo di Washington che trasformava la 
Nato in un’alleanza offensiva globale e attribuiva al «comandante supremo 
alleato» (cioè al presidente degli Stati Uniti) il diritto di decidere come e 
dove impiegarne le forze (quindi anche i militari italiani)?
Tutto questo per 
dire che cosa? Che abbiamo e dobbiamo tenerci 
un’informazione televisiva e cartacea in gran parte asservita, reticente e 
menzognera? Decisa a propagandare le versioni ufficiali del Pentagono e del 
nostro governo? Pronta a tutto pur di nascondere i crimini commessi dalle forze 
occidentali d’occupazione e i torti che gravano sui governi alleati? 
In una 
certa misura, temo di sì. Quello che disse lo scorso settembre il giornalista 
indipendente Danny Schechter alla presentazione 
italiana del proprio film Wmd (Armi di disinformazione 
di massa) – e cioè che «lo sciovinismo si è sostituito 
al giornalismo» – non vale soltanto per gli Stati Uniti, è un aspetto 
strutturale della crisi democratica in cui si dibattono tutti i Paesi 
occidentali. A questo dato di fatto si aggiunge che lo scenario dei prossimi 
mesi (anni) non è per niente rassicurante. 
Il potere «imperiale» degli Stati 
Uniti è sfidato da minacce sempre più gravi: dalla crescita cinese al processo 
democratico che scuote l’America Latina; dal disastro delle finanze federali 
alla crescente insofferenza dei Paesi produttori di greggio nei confronti della 
centralità del dollaro, alla ripresa in grande stile 
del movimento antimperialista internazionale, suggellata dal Forum di Caracas. E 
siccome alla base di tutta la politica statunitense – di marca repubblicana e 
democratica – c’è un assioma indiscusso (l’idea che «il tenore di vita degli 
americani non è negoziabile»), non si può certo 
escludere che, malgrado il disastro iracheno, l’opzione militare torni presto a 
sedurre chi ne decide gli orientamenti. Nel disordine mondiale seguito al crollo 
del bipolarismo le occasioni per fare nuove guerre non mancano, e comunque – come mostra il caso del nucleare iraniano – se ne 
possono creare di nuove in ogni momento. In questo clima, tutto è probabile meno 
che un’evoluzione in senso critico (antimilitarista, antimperialista e 
pacifista) del sistema informativo nel suo complesso.
Il quadro dunque è 
cupo. Ma non mancano elementi in controtendenza, spazi 
di lotta, soggettività impegnate in una coraggiosa battaglia per la verità e per 
la pace. Il sistema informativo non è un monolite. Come dimostra il caso RaiNews (il filmato che ha costretto gli Stati Uniti ad 
ammettere l’uso del fosforo bianco nell’assedio di Fallujah), accanto alle maggiori testate giornalistiche e 
alle grandi reti televisive esiste un giornalismo indipendente che impedisce il 
controllo totalitario dell’informazione. Questo è vero in particolare nel nostro 
Paese, che resta un ben strano Paese. 
È vero, gli italiani 
hanno mostrato di avere una pericolosa inclinazione a farsi abbindolare 
dal Masaniello di turno. Ma persiste in Italia un 
diffuso retroterra democratico, radicato nelle esperienze popolari di lotta e di 
partecipazione: un sentimento critico che si esprime in tutta la sua fecondità 
quando nasce un movimento di protesta o un conflitto, com’è avvenuto a Melfi, a 
Scanzano, in Val di Susa e 
da ultimo per il contratto dei meccanici, a Messina contro il Ponte sullo 
Stretto, a Napoli contro la privatizzazione dell’acqua. Quale che sia la ragione, il «caso italiano» è duro a morire. 
Così 
oggi possiamo contare su una vasta rete di operatori 
dell’informazione critica – radio, giornali, siti web, agenzie e singoli 
giornalisti indipendenti – che costituisce una grande risorsa, da tutelare e 
valorizzare, e sulla quale puntare. Chi pensa per davvero che l’opinione 
pubblica sia una «grande potenza mondiale», non 
dovrebbe sottovalutare questo patrimonio, né ripromettersi di strumentalizzarlo 
per scopi particolari. La politica – penso naturalmente a quelle forze che fanno 
della resistenza contro la guerra e contro il neoliberismo 
la propria ragion d’essere – deve, al contrario, impegnarsi in una grande 
battaglia per la democrazia nell’informazione, tanto più cruciale in un Paese 
nel quale il gruppo imprenditoriale di proprietà del capo del governo detiene 
importanti quote del sistema radiotelevisivo, della carta stampata e 
dell’editoria.
Si tratta di lanciare campagne e mobilitazioni tese a imporre la trasparenza nei rapporti di lavoro nelle 
redazioni, a salvaguardare l’indipendenza dei lavoratori dell’informazione, a 
impedire il varo di leggi liberticide come l’articolo del nuovo codice penale 
militare che prevede pesanti pene detentive a carico dei giornalisti che 
disobbedissero alle direttive dei comandi militari. E, innanzi tutto, ad 
abrogare la Gasparri, tra le più micidiali leggi ad personam varate nel quinquennio 
berlusconiano. 
C’è qui un grande compito per la politica e anche per i movimenti, se è 
vero che nessuna battaglia di libertà può essere vinta senza un forte sostegno 
popolare. Si sente dire talvolta – da ultimo ancora all’indomani della minaccia 
di usare l’arma atomica proferita da Chirac – che il 
movimento per la pace è in crisi. Può darsi invece che la difficoltà di trovare 
subito risposte efficaci sia transitoria, e ad ogni modo non c’è nessuno che 
possa esimersi dalla responsabilità di contribuire al rilancio di una lotta 
di massa. 
Tre scadenze 
attendono nelle prossime settimane il movimento contro la guerra: il 18 febbraio 
la Manifestazione nazionale per la Palestina, il 4 marzo l’Assemblea generale 
dei movimenti, il 18 marzo la Manifestazione internazionale contro la guerra. 
Sono altrettante ottime opportunità per riportare sulla scena politica il grande movimento che si riversò sulle strade di Firenze dopo 
il Social Forum europeo del novembre 2002. Facciamo sì che questi appuntamenti 
siano l’occasione per dimostrare ancora una volta la ferma volontà di pace della 
nostra gente. Impegniamoci in una lotta che intende parlare a tutto il Paese e 
in particolare a quel centrosinistra che ambisce a guidarne le sorti nella 
prossima legislatura.