Cia sotto inchiesta in Italia rapì e torturò un egiziano



La Procura di Milano indaga e decide sui mandati d'arresto .Nel 2003 la missione clandestina per catturare Abu Omar Il commando Usa ha lasciato parecchie tracce. Che cosa sapevano il governo italiano o l'intelligence?

fonte : La Repubblica on line

di CARLO BONINI, GIUSEPPE D'AVANZO E FERRUCCIO SANSA
MILANO - Almeno una dozzina di uomini della Cia hanno condotto un'operazione "antiterrorismo" clandestina a Milano. Il 17 febbraio del 2003, in pieno giorno, in via Guerzoni, a poche centinaia di metri dall'istituto islamico di viale Jenner, hanno sequestrato un egiziano di 42 anni, Hassan Mustafa Osama Nasr, da tutti chiamato Abu Omar. Quello stesso giorno, lo hanno trasferito nella base militare americana di Aviano, dove Omar è stato interrogato e picchiato per sette ore. Prima di essere consegnato, la mattina del 18 febbraio, all'Egitto, dove ha conosciuto le torture delle carceri speciali e dove ancora oggi è detenuto. Abu Omar ha perso parzialmente l'uso delle gambe e dell'udito. La Procura di Milano conosce le foto e l'identità (forse vera, forse falsa) degli agenti americani che hanno condotto l'operazione e sta valutando se chiederne l'arresto per sequestro di persona. Ecco che cosa è accaduto.

Innanzitutto, chi è Abu Omar? All'uomo piace chiacchierare, forse troppo. Fin dal suo arrivo a Milano, accende qualche curiosità. Ha alle spalle una storia controversa. E' nato il 18 marzo del 1963 ad Alessandria d'Egitto e ha lasciato il Paese all'inizio degli anni '90. Gli archivi spionistici (americani, italiani, egiziani) lo definiscono "combattente in Afghanistan e in Bosnia". Nel 1996 è in Albania, dove sposa Marsela Glina. Mette al mondo un figlio. Finisce nei guai. Lo accusano di aver progettato l'assassinio del ministro degli Esteri egiziano in visita a Tirana. Lascia in tutta fretta il Paese e, dopo una sosta a Monaco di Baviera, riappare a Bari il primo maggio del 1997. Nel '99, la questura di Roma gli riconosce lo status di rifugiato. Ottiene un permesso di soggiorno.



Nell'estate del 2000 è a Milano. Lo accoglie l'appartamento di via Conteverde 18, "una nostra casa di passaggio" - spiegano all'istituto islamico di viale Jenner - "per chi arriva in città senza soldi". Via Conteverde non è un indirizzo anonimo. Ci ha abitato qualche latitante eccellente delle prime inchieste milanesi sulle "cellule in sonno di Al Qaeda".

Quella casa è, dunque, "un indizio di appartenenza" per la Digos di Milano. Il telefono di Abu Omar finisce sotto controllo, come i suoi amici, i suoi incontri, i suoi passi. La curiosità non sembra inutile. L'uomo si dà arie da "pezzo grosso". Scrive e pronuncia discorsi infiammati. Appare ai poliziotti "una testa calda". Ai suoi compagni sembra un impostore, un po' narciso. Agli uomini dell'intelligence sembra un uomo su cui lavorare. Ne hanno una conferma quando un tizio (ammesso che non sia una spia) saggia la sua disponibilità a darsi da fare per rafforzare un nuovo network del terrore pronto in Europa. Abu Omar si mostra disponibile.

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In quel 2002, George Tenet non fa mistero del possibile destino di tipi come Abu Omar. Il 17 ottobre, l'allora direttore della Cia testimonia dinanzi alla commissione di inchiesta di Congresso e Senato sui fatti dell'11 settembre. Racconta: "Dopo l'attacco alle Torri, la Cia, con la cooperazione del Fbi, ha restituito alla giustizia mondiale 70 terroristi". La pratica ha un nome: extraordinary rendition, "consegna straordinaria". E' un metodo che non si cura della sovranità degli Stati in cui i "pacchi" da consegnare vengono prelevati. Né si preoccupa della loro sorte una volta giunti a destinazione. "La Cia e l'Fbi hanno perseguito all'estero una politica aggressiva finalizzata alla distruzione di Al Qaeda, delle sue risorse umane e tecniche - dice Tenet - Abbiamo identificato anche 36 fiancheggiatori del Terrore e condotto operazioni nei loro confronti in 50 Paesi. Ventuno di queste operazioni hanno avuto successo e mi riferisco ad arresti, carcerazioni, attività di sorveglianza, consegne e approcci diretti".

Milano, preghiera del venerdì
alla moschea di viale Jenner

La prassi della "consegna straordinaria" è stata battezzata nella seconda metà degli anni '80 ed è diventata routine dopo l'11 settembre. I "pacchi" viaggiano sempre con gli stessi aerei. Nel novembre del 2004, un'inchiesta del Sunday Times individua almeno due dei mezzi con cui la Cia consegna i suoi "prigionieri clandestini". Sono un piccolo Gulfstream 5 da 14 posti con codice N379P e un Boeing 737 senza insegna da 52 posti con codice N313P. Li possiede la società Premier Executive transports services del Massachusetts. Volano da Washington verso 49 destinazioni estere: Giordania, Marocco, Iraq, Afghanistan, Libia, Uzbekistan e, frequentemente, Egitto.

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Ritorniamo a Milano. E' il 17 febbraio 2003. E' un lunedì. Accade tutto tra le 12 e le 12 e 15. Abu Omar esce dal cancello verde della sua abitazione in via Conteverde 18. "Vado in moschea", dice alla moglie. La moschea di viale Jenner, neppure un chilometro in linea d'aria. Abu Omar percorre a piedi via Conteverde, in senso opposto a quello di marcia delle auto e nota un furgone bianco che lo incrocia rallentando. Abu Omar accelera il passo e infila via Ciaia. Intanto il furgone ha girato intorno all'isolato e lo aspetta in via Guerzoni, una strada a doppio senso di marcia, chiusa sui due lati dai giardini pubblici e dal centro di raccolta della Croce Viola. Deve essere apparso il posto giusto per "prendere il pacco". La zona può essere facilmente isolata dal traffico. Due auto che goffamente armeggiano per parcheggiare all'incrocio con viale Jenner e sullo slargo di via Ciaia sono sufficienti per lo scopo. Gli uomini (due) nel furgone bianco "lavorano" con tranquillità mentre gli altri su due auto, prese a nolo, bloccano le due estremità della strada. Sono almeno dodici. Sono americani.

Comunicano tra di loro con telefoni cellulari e lavorano al "prelevamento" da almeno una settimana. Ora, gli uomini vedono Abu Omar. Abu Omar si accorge subito dell'uomo che lo attende, accanto al furgone con il portellone posteriore spalancato, all'altezza del civico 23 di via Guerzoni. Lo sconosciuto parla italiano. Si qualifica come "poliziotto". Chiede un documento di identità. E' questione di attimi. Abu Omar viene sopraffatto. E' vero, è corpulento, ma il suo metro e 65 non riesce a opporsi alla forza con cui viene scaraventato nel vano di carico del furgone, dopo essere stato investito da una sostanza spray sul volto.

Non ci sono auto in via Guerzoni. Nessuno dovrebbe vedere. Dovrebbe. Una giovane donna egiziana, appena uscita dai giardini pubblici con i suoi bambini, risale a ritroso la strada di Abu Omar. Nota quei due in piedi che parlottano. Li sorpassa, coglie alle sue spalle gli indizi di una colluttazione. Sente il portellone di un furgone chiudersi rumorosamente e lo sente partire a tutta velocità. Abu Omar è sparito. Dov'è Abu Omar? La donna racconta quel che ha visto al marito, che frequenta l'istituto islamico di Viale Jenner. Il diavolo ci ha messo la coda (anche se la donna, dinanzi alla polizia, farà scena muta, per poi scomparire dall'Italia).

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Dov'è Abu Omar? Il 3 marzo, a due settimane dalla sua scomparsa, l'intelligence americana solitamente molto riservata si fa avanti. Segnala al governo italiano che "secondo notizie che non si è in grado di verificare, Abu Omar può essere nei Balcani". E' un'informazione storta. Nessuno in quel momento è in grado di verificarla. La storia sembra dover morire lì.

Chi può sapere? La risposta arriva da Abu Omar. Accade il 20 aprile del 2004. Quel giorno, la moglie dell'uomo, Nabila - documenta un'informativa trasmessa al Viminale e pubblicata dai giornali italiani - è al telefono con il marito. La chiamata proviene dal "distretto di Alessandria d'Egitto". La conversazione è intercettata. Abu Omar rassicura la moglie, chiede di mandargli 200 euro e le ordina di non aprire più bocca con la stampa, ma di avvisare soltanto i fratelli.

Le parole di Abu Omar dicono solo che è vivo. Lo stesso giorno il telefono squilla di nuovo. Nella casa di Mohammed Ridha. E' l'imam della moschea di via Quaranta. Egiziano come Abu Omar, suo amico personale. I due si sentono una prima volta il pomeriggio del primo maggio. Abu Omar dà un nuovo appuntamento telefonico per l'8 maggio. E quel giorno racconta, cominciando proprio dal momento in cui il portellone del furgone bianco si chiude alle sue spalle in via Guerzoni. Questo è quel che dice.

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Abu Omar. "I due che mi hanno sequestrato sembravano italiani, almeno dall'aspetto, ma non so dire se fossero italiani. Pensavano di avermi stordito con lo spray, ma quando il furgone è ripartito sono riuscito a mettermi sulle gambe. Mi avevano messo un cerotto sulla bocca, ma avevo gli occhi liberi e mi era stato lasciato l'orologio. Abbiamo viaggiato per circa cinque, sei ore. Quando il furgone si è fermato e hanno aperto il portellone era l'ora del tramonto, tra le cinque e le sei. Ho avuto la sensazione di essere in una base militare americana, perché ho potuto riconoscere le insegne sul timone di alcuni aerei. I due che mi avevano sequestrato, mi hanno portato e lasciato solo in una stanza. Dopo circa un'ora, sono arrivati altri quattro. Mi hanno interrogato fino alle tre del mattino. All'inizio provavano a parlare italiano, ma lo parlavano male e quindi sono passati all'inglese. Insistevano sempre sullo stesso punto: "Tu fai propaganda contro l'intervento americano in Iraq, aizzi l'odio contro gli americani. E' vero? E' vero che recluti combattenti da mandare in Iraq?" Io rispondevo di no, che non era vero, e loro ripetevano le domande. A un certo punto mi hanno mostrato anche un manifesto che avevo scritto in cui denunciavo i misfatti dell'Italia in Libia e Somalia. Poi sono cominciate le botte. Mi hanno pestato fino a notte fonda. Poi, saranno state le tre, mi hanno messo su un aereo, su un piccolo aereo con pochi posti, abbiamo volato per circa quattro ore e all'alba abbiamo fatto scalo in un'altra base militare americana. Credo fosse una base nel Mar Rosso".

E' uno scalo tecnico. L'aereo riparte dopo poco e in un'ora è all'aeroporto civile del Cairo. "Appena sceso dalla scaletta mi hanno preso in consegna ufficiali egiziani. Mi hanno bendato e portato prima a Lazoughli, in una camera di sicurezza dei servizi segreti, di lì un altro trasferimento e mi sono ritrovato in una stanza del ministero dell'Interno egiziano. Qui sono stati sbrigativi. Mi hanno detto: "Se vuoi tornare in Italia, puoi farlo in meno di 24 ore. A una condizione: che tu ti metta a lavorare per noi"". Abu Omar si rifiuta e scrive il suo destino. Quello stesso 18 febbraio 2003 viene trasferito a Tora, il quartiere della sofferenza. Una città carceraria dove "esiste sempre un girone peggiore di quello in cui sei finito".

Abu Omar: "Gli interrogatori sono stati leggeri, pesanti sono state le torture. Mi hanno infilato in una cella frigorifera completamente nudo, doveva essere almeno a venti gradi sottozero, perché sentivo le ossa del mio corpo che si sbriciolavano. Quando ero quasi assiderato, mi hanno trascinato in una stanza che bruciava come il fuoco, almeno cinquanta gradi. Un'altra volta mi hanno disteso su un pavimento bagnato su cui hanno gettato cavi elettrici. A forza di quelle scosse ho cominciato a non muovere più bene le gambe, a non sentire più una parte della schiena".

Cosa vogliono gli egiziani da Abu Omar? Per quello che lui riferisce all'imam di via Quaranta "le domande sono inutili - "Sei stato in Bosnia, sei stato in Afghanistan?" - servono soltanto a dare una parvenza di senso alla tortura". In realtà quel che sembra vogliano da lui è un'altra cosa. E lui la confida all'amico di via Quaranta, quasi con orgoglio: "Mi hanno mostrato una lista con dei nomi. In cima c'era il tuo, Mohammed Ridha, poi quello dell'imam di viale Jenner, Abu Emad. Il mio era il terzo. Mi hanno detto che se volevo uscire dovevo consegnarvi a loro".

Abu Omar resta a Tora quattordici mesi. Finché non gli comunicano che è un uomo libero. A un patto: "Se vuoi uscire con le tue gambe e non in una cassa da morto, non raccontare quello che ti è successo. Dovrai dire che sei venuto in Egitto di tua spontanea volontà con un biglietto comprato in Italia". Abu Omar firma l'impegno. Il 19 aprile 2004 è libero. Ma le telefonate tra il 20 di quel mese e l'8 maggio, riferite dai giornali italiani, gli riaprono le porte della galera. Il 12 maggio i servizi egiziani lo prelevano nella sua casa di Alessandria d'Egitto e da allora di lui nulla più si sa. Che ne è di lui? Ha raccontato la verità?

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Quel che è documentato non è la verità di Abu Omar, ma le misteriose presenze intorno a lui in quel 17 febbraio di due anni fa. La "squadra operativa" della Cia e dell'Fbi ha pasticciato parecchio lasciando tracce dovunque. Lo stesso gruppo di cellulari, secondo le indagini dal procuratore di Milano Armando Spataro, sono in via Guerzoni intorno alle dodici. Gli stessi cellulari "si muovono" verso Aviano, poco dopo. Da quei cellulari partono telefonate al consolato americano di Milano e a un'utenza della Virginia (la Cia ha la sua sede centrale a Langley). Un cellulare di quel gruppo viaggerà fino al Cairo il giorno dopo (probabilmente accanto ad Abu Omar). Dai cellulari (italiani), gli investigatori sono risaliti a chi ha utilizzato le schede telefoniche in quei giorni e, dalle schede, alcuni nomi. Con questi è stato rintracciato l'albergo di Milano dove il gruppo ha alloggiato e l'agenzia di noleggio auto dove hanno preso in affitto il furgone e delle auto dell'operazione.

Con tracciati telefonici, note d'albergo, foto, contratti di noleggio auto, l'inchiesta può dirsi quindi conclusa. Ma qui cominciano le domande e, con le domande, i guai e le polemiche. Possono essere arrestati, per sequestro di persona, una dozzina di agenti della Cia in missione speciale antiterrorismo? Si può chiedere a Washington la loro estradizione? Che cosa ha saputo Roma dell'extraordinary rendition di via Guerzoni e che cosa il governo o l'intelligence italiana ha saputo dopo? (17 febbraio 2005)