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(Fwd) Storia di un ex-combattente Intifada e di un ex-ufficiale



Riproviamo, con questa lista ho avuto problemi stanotte! :-(
Davide

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Date forwarded: 	Sat, 3 Mar 2001 12:25:30 +0100
Date sent:      	Sat, 03 Mar 2001 12:30:43 +0100
To:             	pck-pcknews@peacelink.it
From:           	Alessandro Marescotti <a.marescotti@peacelink.it>
Subject:        	Storia di un ex-combattente Intifada e di un ex-ufficiale
 	israeliano
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Segnalo questa storia uscita ieri su Avvenire nelle pagine della
cultura. Grazie e buon lavoro, Davide Sanchez 1/2/2001



MEDIO ORIENTE Storia di un ex-combattente dell'Intifada e di un
ex-ufficiale israeliano che, deposte le armi, lottano per la pace
L'arabo e l'ebreo, amici ritrovati

«Violenza e armi erano parte di noi. Volevamo uccidere l'altro. Poi
abbiamo capito che i problemi politici non si risolvono con la 
guerra»

Mahnaimi: tra Barak e Arafat accordo prima delle elezioni
Abu-Sharif: sono ottimista sul futuro

Vincenzo R. Spagnolo


ROMA. «Un tempo la violenza e l'uso delle armi facevano parte della
nostra vita. Combattevamo il nemico, pensando solo a annientarlo
perché questo serviva alla causa. Poi, abbiamo scelto la pace». A
parlare sono due amici che una volta erano nemici giurati. Si chiamano
Bassam Abu-Sharif e Uzi Mahnaimi, rispettivamente ex-combattente
palestinese ed ex-ufficiale dell'esercito israeliano. Da tempo hanno
abbandonato le armi. Oggi il primo è uno dei consiglieri del leader
palestinese Arafat. Mentre il secondo fa il giornalista dopo essere
stato, come agente del servizio segreto israeliano, uno dei registi
occulti della cosiddetta «guerra degli spettri», che terrorizzò per
anni l'Europa e il Medio Oriente. E, dopo una vita passata su fronti
opposti, sono divenuti amici fraterni. La loro storia, raccontata nel
libro "Il mio miglior nemico (Sellerio), mostra le radici profonde del
conflitto arabo-israeliano, offrendo al tempo stesso una straordinaria
testimonianza di dialogo e di pace. Uzi, quando ha pensato di deporre
le armi? «Nel 1982, durante l'invasione di Israele in Libano. Fui uno
dei primi ufficiali del mio esercito ad aver raggiunto Beirut. Mentre
controllavo l'aeroporto dalle colline, mi chiesi: cosa ci faccio qui?
Cosa ci facciamo tutti noi? Questa guerra è assurda. Così decisi di
cambiare vita». E lei, Bassam? «Ero entrato nel Fronte di liberazione
palestinese verso la metà degli anni Sessanta, col compito di far sì
che la questione palestinese restasse al centro dell'attenzione
internazionale, anche usando mezzi estremi. Mi avevano soprannominato
"il volto pubblico del terrorismo". Poi, nel 1972, il Mossad
israeliano mi spedì un pacco-bomba. Come vede, sono sopravvissuto per
miracolo (il suo viso e le mani portano ancora i terribili segni
dell'attentato, ndr) e ho iniziato a riflettere. Poi, nel 1988, ho
incontrato Uzi. Aveva già abbandonato l'esercito e faceva il
giornalista. Mi avvicinò con l'intenzione di usarmi come fonte, perché
ero uno stretto collaboratore di Arafat. Mi sorprese il suo sincero
rispetto. La stampa israeliana ci bollava solo come "terroristi". Lui,
invece, chiese la nostra opinione sulla pace e usò termini come
"popolo palestinese" e "Olp". Così, diventammo amici. Oggi, io lo
considero parte della mia famiglia. E credo che lui pensi lo stesso di
me». Entrambi avete scelto d'ignorare i pregiudizi sulle amicizie fra
arabi e israeliani. E di continuare a farlo anche mentre i vostri
popoli si affrontano in scontri che potrebbero persino sfociare in
guerra aperta. Come giudicate l'attuale situazione? Mahnaimi: «È
davvero pericolosa, più di quanto lo sia mai stata negli ultimi
cinquant'anni. E sinora non mi sembra che i leader politici siano
stati in grado di gestirla con la necessaria accortezza». Abu-Sharif:
«Fra gli abitanti dei territori c'è preoccupazione per la virulenza
degli scontri. Da settembre, infatti, Israele ha messo in atto una
vera e propria occupazione militare, con attacchi di blindati e mezzi
aerei che hanno ucciso oltre 350 palestinesi e fatto 10mila feriti. E
gli estremisti arabi hanno risposto con sanguinosi attentati che noi
abbiamo pubblicamente condannato. Eppure, anche in questo caos, da una
parte e dall'altra ci sono persone che si stanno impegnando per
fermare le violenze e riportare la situazione alla normalità. Fra i
nostri popoli sta crescendo la consapevolezza che solo da una
convivenza serena possono venire semi di speranza per il futuro». Già.
Ma che tipo di convivenza? E su quali basi? Mahnaimi: «Non si può
pretendere che ci sia pace se non c'è volontà di trovare punti
d'incontro. Da osservatore credo che si possa ripartire dagli accordi
di Camp David, il che vuol dire rinuncia di Israele alle zone
assegnate ai palestinesi e, soprattutto, un accordo per dividere
Gerusalemme. C'è il problema dei coloni israeliani presenti nei
Territori, è vero, ma il governo di Tel Aviv potrebbe risolverlo
assegnando loro appartamenti e terreni in altre zone: il 90% di essi
probabilmente accetterebbe e non resterebbe che trattare con gli
"zeloti", più duri da convincere». Abu Sharif: «Non si può risolvere
un problema politico con l'uso della forza. E nemmeno costringere il
popolo palestinese ad accettare qualcosa che non sia la libertà. Per
la ripresa dei negoziati sono scese in campo, oltre agli Stati Uniti,
anche Europa e Russia. Da tempo, inoltre, sono in corso contatti
informali fra ufficiali palestinesi e israeliani. Ci sono nuove idee,
che riguardano anche una possibile divisione della città di
Gerusalemme, che il nostro popolo considera sacra e alla quale non può
rinunciare». Insomma, ci sono nuove speranze per la pace in Terra
Santa? Mahnaimi: «Fra Israele e Palestina non può esserci altra scelta
che la pace. Devono tenerlo a mente coloro che stanno negoziando. Non
basta un fragile "cessate il fuoco". C'è bisogno di trovare nuove
soluzioni che contemperino le esigenze di tutte le parti in causa. A
mio parere, il premier Barak e il leader palestinese Arafat dovrebbero
cercare di raggiungere un accordo prime delle prossime elezioni
israeliane. Altrimenti lo scenario potrebbe cambiare e non è detto che
cambi in meglio». Abu-Sharif: «Nonostante le violenze tuttora in
corso, io sono ottimista: noi chiediamo l'indipendenza e non una sorta
di protettorato militare. E, un giorno, anche i nostri interlocutori
saranno convinti che non c'è altra soluzione. La violenza non
risolverà mai i problemi in Medio Oriente. Solo la convivenza pacifica
e la garanzia di diritti uguali per tutti possono farlo».

Vincenzo R. Spagnolo


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