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(Fwd) N.E. Balcani #667 - Serbia-Montenegro
- Subject: (Fwd) N.E. Balcani #667 - Serbia-Montenegro
- From: "Davide Bertok" <davide@bertok.it>
- Date: Mon, 12 May 2003 19:46:41 +0200
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Subject: N.E. Balcani #667 - Serbia-Montenegro
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Notizie Est - http://www.notizie-est.com
N.E. BALCANI #667 - SERBIA/MONTENEGRO
12 maggio 2003
UN PRIMO BILANCIO DELLO STATO DI EMERGENZA IN SERBIA
di Andrea Ferrario
Con lo stato di emergenza la DOS ha definitivamente suggellato la
linea politica intrapresa il 6 ottobre 2000, il giorno dopo la caduta
di Milosevic: quella di rinunciare alla spinta popolare e democratica
dell'opposizione generale al precedente regime, preferendole una
politica di potere oligarchica
L'introduzione dello stato di emergenza in Serbia, avvenuta poche ore
dopo l'uccisione del premier Djindjic il 12 marzo scorso, è stata
accolta con grande favore sia dalla popolazione in generale, sia dai
media, dai sindacati, dalle organizzazioni non governative. Nelle
prime settimane, le uniche voci contrarie sono state quelle dei
partiti di opposizione (DSS, SRS, SPS e altri minori), in larga parte
censurate dai media statali o indipendenti. Solo in un secondo tempo
svariati giornalisti e testate che in un primo tempo avevano
sostenuto incondizionatamente la proclamazione dello stato di
emergenza, hanno cominciato ad assumere una posizione maggiormente
critica.
In "Notizie Est - Balcani" abbiamo cercato di proporre una serie di
materiali che fornissero una prospettiva diversa da quella dei media
italiani e internazionali, che hanno dipinto un'immagine univocamente
positiva della linea adottata dal governo di Belgrado. Complice anche
la contemporanea guerra in Iraq, la svolta in Serbia è stata nei
fatti presentata affrettatamente come una positiva chiusura dei conti
con il pesante passato di questo paese. Cercheremo pertanto di fare
un primo bilancio a caldo, in parte necessariamente frammentario, su
quanto è avvenuto in Serbia dal 12 marzo, rimandando per un'analisi
più approfondita a quanto scritto da Luka Zanoni in "Notizie Est -
Balcani" del 10 aprile scorso (http://www.notizie-
est.com/article.php?art_id=756). Per un esame dettagliato della
Serbia prima dell'omicidio Djindjic rimandiamo al dettagliato
rapporto del Comitato Helsinki sulla Serbia nel 2002, intitolato
"Human Rights in The Shadow of Nationalism"
(http://www.helsinki.org.yu/report.php?lang=en).
LE TRE FASI DELLO STATO DI EMERGENZA
A distanza di due mesi dalla sua introduzione, si possono individuare
approssimativamente tre fasi nell'applicazione dello stato di
emergenza:
Prima fase - E' quella che va dal 12 marzo al 24 marzo circa. Vengono
introdotte le misure speciali, sui media cala una pesante censura
(RTS, la televisione di stato) e autocensura (i media stampati). La
DOS si presenta unita, sicura di sé. Il governo afferma di avere
individuato gli organizzatori dell'attentato a sole pochissime ore
dall'uccisione di Djindjic. Sul piano pratico, parte l'operazione di
polizia denominata "Sciabola" e si assiste ad azioni spettacolari,
come la distruzione di edifici di proprietà del mafioso Spasojevic o
l'arresto della cantante pop-folk Ceca, ma di rilevanza pressoché
nulla per le indagini: l'impressione è quella di operazioni puramente
di facciata. Tra il 18 e il 21 marzo viene condotta un'indiscriminata
operazione di epurazione tra i giudici, che si avvale di un misto di
metodi legali e minacce, prendendo di mira sia personaggi corrotti
(nella maggior parte dei casi nominati però dallo stesso attuale
governo) sia altri che non sono ricollegabili alla criminalità.
Vengono chiuse due testate scandalistiche, "Nacional" e "Identitet",
probabilmente legate alla mafia, viene vietata la distribuzione del
quotidiano montenegrino "Dan".
Seconda fase - Compresa all'incirca tra il 25 marzo e il 7 aprile. Le
azioni della polizia serba fanno un salto di qualità e comincia una
serie di eventi clamorosi. Il 25 marzo viene arrestato il presunto
esecutore dell'attentato a Djindjic, un uomo delle unità speciali JSO
("berretti rossi"). Seguono arresti di altri uomini delle JSO, ivi
incluso il loro attuale comandante, e le unità vengono sciolte. Il 27
marzo la polizia uccide Dusan Spasojevic e Mile Lukovic, capi del
clan di Zemun (a tutt'oggi le uniche due persone uccise nell'azione
contro la criminalità organizzata). Nei giorni successivi viene
ritrovato il corpo di Ivan Stambolic, rapito nel 2000, e vengono
arrestati alti funzionari dei servizi segreti, noti mafiosi, l'ex
direttore della televisione di stato Milanovic, il generale Pavkovic.
Viene confermata l'incarcerazione di due pezzi grossi come l'ex capo
dei servizi segreti Stanisic e dell'ex capo delle JSO, Frenki
Simatovic, entrambi sottoposti a fermo nella prima fase. Il 30 marzo
il governo incassa il successo di una visita a Belgrado di Powell,
che gli dà il pieno sostegno degli USA. Si comincia a discutere della
possibilità di vietare alcuni partiti, di reintrodurre la pena di
morte e di creare una commissione che indaghi sul "clima di
linciaggio" creato dai media nei confronti del governo: sono i
prodromi alla svolta politica della terza fase.
Terza fase - Dal 7 al 22 aprile. Il 7 aprile vengono arrestati due ex
consiglieri di Kostunica. Contemporaneamente, il governo rende
pubblica la propria spiegazione dell'attentato: si sarebbe trattato
di una congiura che coinvolgeva criminalità organizzata, vertici
militari, servizi segreti, partiti di opposizione. Tra questi ultimi,
nel mirino è in particolare il DSS, insieme ai radicali di Seselj.
Nei giorni successivi svariati esponenti di governo accusano
apertamente Kostunica di essere tra gli ispiratori dell'uccisione di
Djindjic. Il premier Zivkovic lancia pesanti accuse al governatore
della Banca Nazionale, Mladjan Dinkic, uno dei leader del G-17,
accusandolo di stampare denaro falso. Leader della DOS cominciano a
lanciarsi reciproche accuse di collusione con la mafia e i criminali
(in particolare Covic, Jovanovic e Canak). Si decide che la nuova
Costituzione della Serbia verrà approvata senza la possibilità di
discutere e proporre modifiche. Vengono approvati gli emendamenti
alla legge sulla lotta contro la criminalità, nei fatti un
prolungamento a tempo indeterminato dello stato di emergenza. I media
e le ONG avanzano le prime forti accuse sugli abusi del governo, in
prima fila il Fondo per il Diritto Umanitario, rompendo il clima di
unanimismo durato quasi un mese. Vari esponenti di governo affermano
che ora sarà possibile tenere in Serbia, e non all'Aia, molti dei
processi per crimini di guerra. Vi sono però anche sviluppi di segno
diverso: rientra, almeno parzialmente, il progetto di creare una
commissione di indagine sui media e viene votato un emendamento alla
legge sulla collaborazione con il Tribunale dell'Aia, in base al
quale sarà possibile consegnare al tribunale internazionale anche
persone incriminate dopo l'approvazione della legge stessa.
Dopo un breve dibattito sulla possibilità di mantenere alcune misure
speciali per un periodo indefinito, lo stato di emergenza viene
revocato il 22 aprile, dopo 42 giorni.
IL CONTESTO IN CUI E' AVVENUTA L'UCCISIONE DI DJINDJIC
L'uccisione di Djindjic è avvenuta in un momento del tutto
particolare. Innanzitutto, mai si era avuto un tale vuoto di potere
nel paese: la Serbia non aveva (e non ha ancora oggi) un presidente
della repubblica, era in corso la transizione dalla federazione
jugoslava all'unione Serbia-Montenegro, unione che non aveva ancora
un governo. A livello internazionale, era ormai chiaro che la guerra
contro l'Iraq sarebbe cominciata a giorni. In generale, nel momento
in cui è stato ucciso, Djindjic era arrivato a concentrare nelle sue
mani, con metodi sbrigativi, un enorme potere. La DOS disponeva di
una maggioranza di governo ottenuta con una specie di putsch
parlamentare e che il sostegno popolare di cui godeva (lo stesso vale
per il premier Djindjic) era bassissimo, inferiore al 20%. La facente
funzione di presidente, Natasa Micic, era stata eletta alla carica di
presidente della camera con procedura irregolare. Era però in caduta
anche la popolarità di Kostunica, dopo il fallimento della sua
elezione a presidente, così come in generale quella dell'opposizione.
Il Partito Radicale Serbo (SRS) era rimasto privo del suo leader,
Seselj, consegnatosi all'Aia. In svariate grandi aziende in corso di
ristrutturazione si stavano svolgendo scioperi molto partecipati,
alcuni anche con incidenti. Dall'estate precedente, infine, era in
atto una vera e propria guerra tra le due principali fazioni mafiose
serbe, quella di Surcin (che i media indicavano come legata al
governo) e quella di Zemun (che i media ricollegavano alla lobby dei
criminali di guerra e all'opposizione). Tra fine gennaio e inizio
febbraio tale guerra, che in una spirale di attentati vedeva perdente
la fazione di Surcin, aveva preso la forma di virulente accuse
reciproche lanciate attraverso lettere aperte ripubblicate dai media.
In particolare, una lettera del capo del clan di Surcin, Buha,
accusava la fazione di Zemun di essere responsabile di tutti i
principali crimini mafiosi e politici degli ultimi anni.
L'OMICIDIO, LE INDAGINI
Poche ore dopo l'uccisione di Djindjic, il governo conosceva già i
colpevoli. Una prima versione ufficiale, resa pubblica con grande
enfasi, diceva che l'omicido era dovuto al fatto che quella mattina
dovevano essere emessi mandati di cattura contro i principali capi
della criminalità organizzata, che avrebbero quindi prevenuto tale
sviluppo uccidendo il premier. Tale versione, comunque non
verificabile, è stata tacitamente ritirata dal governo nei giorni
successivi e sostituita con quella di una megacongiura in atto fin
dal novembre 2002 e che avrebbe visto cinque precedenti tentativi
falliti di uccidere Djindjic. Secondo i dati ufficiali delle autorità
sono oltre 10.000 le persone arrestate durante lo stato di emergenza.
Di queste, circa 4.500 si trovano ancora in carcere. Le
incriminazioni emesse sono 3.700 e riguardano 15 omicidi, 8 rapimenti
e 200 casi di narcotraffico. Tutte le informazioni di cui si dispone
sugli arresti, sui moventi degli omicidi e di altri crimini, nonché
sull'andamento delle indagini stesse provengono dai briefing del
governo, riportati dai media in forma pressoché immutata. Non vi è
alcuna possibilità di verificarle indipendentemente, possibilità che
si aprirà probabilmente solo tra molto tempo, non prima dell'autunno
di quest'anno, quando cominceranno i primi processi, secondo quanto
ha dichiarato il ministro della giustizia Batic.
Il "successo" della Operazione Sciabola, che è andata molto più in là
delle indagini sull'uccisione di Djindjic, consiste soprattutto
nell'arresto di personalità finora intoccabili (da Stanisic, a
Pavkovic, ad Aco Tomic). Tuttavia, proprio per questi personaggi
rimane il fatto che non vi sono elementi per giudicare la coerenza
delle incriminazioni contro di loro, sempre che siano incriminati.
Non vi sono ancora garanzie, allo stato attuale, che risponderanno
effettivamente dei loro crimini e, in particolare, di tutti i loro
crimini e non solo di quelli politicamente più neutri dal punto di
vista del governo. Le indagini, inoltre, hanno trascurato i vincoli
tra la criminalità e il governo, fino alla mattina del 12 marzo
denunciati da tutti i media indipendenti.
Ma le indagini hanno registrato anche un fondamentale e macroscopico
insuccesso. I tre principali indiziati, infatti, non rispondono
all'appello. Non è un particolare secondario, perché si tratta delle
persone che avrebbero potuto fornire le testimonianze più clamorose.
Due di essi, Dusan Spasojevic e Mile Lukic, capi del clan di Zemun,
sono stati uccisi dalla polizia e vi sono fondati sospetti che la
cosa non sia stata casuale. L'"accusato degli accusati", Milorad
Lukovic, non è mai stato trovato e, dalla seconda fase dello stato di
emergenza in avanti, le autorità non lo menzionano più se non
incidentalmente. Tutte e tre queste persone hanno avuto per anni
contatti con le istituzioni, originariamente più con l'attuale
governo che con l'opposizione, e vista la loro posizione avrebbero
potuto rendere testimonianze fondamentali, ma forse scomode. Rimane
ancora non chiarito perché Djindjic, dopo un precedente sospetto
tentativo di attentato, fosse stato così vulnerabile e la sua scorta
così impreparata.
LE REAZIONI INTERNAZIONALI
Le reazioni internazionali all'introduzione dello stato di emergenza
sono state univocamente positive. La mossa è stata salutata dai
principali soggetti internazionali con una gamma di reazioni compresa
tra la "comprensione" e l'"entusiasmo", sempre accompagnate dal
"pieno sostegno" al governo. Altro fattore comune a tutte le reazioni
internazionali è stata la richiesta che lo stato di emergenza avesse
una durata limitata. Dall'UE e dall'OSCE il governo Zivkovic ha
incassato un pieno sostegno, nonché lo stanziamento di ulteriori
fondi, molto ingenti, da parte della prima. Durante lo stato di
emergenza la Serbia-Montenegro è stata accolta nel Consiglio
d'Europa. Ma l'appoggio più consistente è venuto dagli USA,
simboleggiato dalla visita imprevista di Colin Powell a Belgrado il
30 marzo. In piena guerra all'Iraq, il solo fatto che il segretario
di stato USA abbia trovato il tempo di fermarsi a Belgrado è stato
interpretato come un forte sostegno al governo serbo, sostegno reso
ancora più notevole dalle parole di Powell che si è detto
letteralmente "entusiasta" del modo in cui le autorità di Belgrado
stavano affrontando la situazione. La visita di Powell è stata
seguita dal viaggio di una delegazione serba a Washington, dove sono
stati stabiliti contatti importanti a livello economico. Durante lo
stato di emergenza, inoltre, la US Steel ha acquistato l'acciaieria
serba Sartid e sono stati avviati altri importanti contatti tra i due
paesi nel settore del business, in particolare nell'industria degli
armamenti e del turismo. Sono state positive anche le reazioni di
tutti i paesi vicini e, in particolare, il Montenegro ha dato un
completo sostegno alla linea adottata da Belgrado. Per quanto
riguarda gli effetti indiretti sui paesi vicini, il governo croato si
è chiaramente trovato in una situazione un po' sgradevole a livello
di immagine, visto che il governo serbo è riuscito a presentarsi come
il paladino della lotta alla criminalità nella regione, facendo
apparire d'un colpo la Croazia come un paese molto più arretrato,
proprio nel momento, tra l'altro, in cui Zagabria ha già notevoli
problemi con Washington in seguito al rifiuto di appoggiare la guerra
contro l'Iraq. In Bulgaria si è fatto sentire il capo della polizia
Bojko Borisov, chiedendo l'adozione di misure speciali come in Serbia
e proponendosi, con una serie di mosse, come potenziale leader
politico in grado di applicare un pugno di ferro nel paese.
PERCHE' IL GOVERNO SERBO NON E' CREDIBILE
L'elemento ultimo che toglie ogni sostanza alla versione secondo cui
la ferma reazione all'omicidio di Djindjic costituirebbe una vera e
proprio svolta è l'assoluta mancanza di credibilità degli attuali
vertici serbi, sia per quanto riguarda la lotta alla criminalità, sia
per la capacità di fare i conti con il passato e avviare la Serbia
verso un'autentica democrazia. Riguardo a Zivkovic e Mihajlovic,
rispettivamente premier e ministro degli interni, abbiamo già
esaminato il recentissimo caso dello scandalo Jugoimport [N.E.
Balcani n. 645 del 22 marzo: http://www.notizie-
est.com/article.php?art_id=747], che li ha visti tra i principali
attori di un traffico illegale di armi e contemporaneamente di
insabbiatori dello stesso scandalo. Entrambi hanno dimostrato, non
per breve tempo, ma lungo i più di due anni passati ai vertici dei
ministeri degli interni rispettivamente federale e serbo, di non
volere fare nulla contro i responsabili di crimini ("organizzati" o
di guerra che siano). Entrambi sono (o sono stati fino al 12 marzo)
businessmen e dirigenti aziendali di imprese coinvolte in attività
illegali e frodi. Il secondo, in più, è stato per anni un esponente
di spicco del regime di Milosevic. Il principale responsabile
operativo dell'azione Sciabola contro gli accusati dell'omicidio di
Djindjic e la criminalità organizzata è Sreten Lukic, capo della
polizia, che nel 1999 è stato ai vertici della polizia serba del
Kosovo e come tale è da ritenersi uno dei principali responsabili dei
massacri e delle distruzioni compiutivi. Zivkovic, Mihajlovic e
Lukic, visti i loro ruoli, sono inoltre da ritenersi i primi
responsabili dell'insabbiamento delle indagini sulle fosse comuni di
albanesi rinvenute in Serbia nel 2001. Il capo di stato maggiore
dell'esercito, Branko Krga, è stato consigliere di Milosevic per la
sicurezza nel fatidico 1999. Come se non bastasse, in pieno stato di
emergenza è stato nominato ai vertici dei servizi segreti militari
Momir Stojanovic, a suo tempo uno dei nomi inseriti nella lista dei
sospettati di crimini di guerra ai quali era vietata l'entrata
nell'UE, accusato nei dettagli da testimoni e ONG come il Fondo per
il Diritto Umanitario di avere disposto il massacro a freddo di circa
100 civili in Kosovo nel 1999: una chiara dimostrazione di come il
nuovo governo non abbia alcuna intenzione di fare i conti con il
passato. E sono solo i nomi più importanti, dietro ai quali vi è un
folto sottobosco di criminali e uomini del regime di Milosevic,
soprattutto nella polizia, nell'esercito e nel mondo del business,
uomini che la DOS non ha mai voluto toccare, non per paura delle
conseguenze, ma più semplicemente perché erano "colleghi" necessari
alla sopravvivenza della propria macchina di potere. Lo stesso Legija
ha goduto di una lunga immunità grazie alla DOS, anche dopo la
rivolta dei "berretti rossi" o dopo le accuse circostanziate sul suo
ruolo nell'attentato a Vuk Draskovic, nel quale hanno perso la vita
quattro persone. Tralasciando qui le accuse sui legami tra Djindjic e
la mafia del tabacco, che non sono mai state accompagnate da prove
precise, vale la pena invece di citare i legami con la "mafia
dell'asfalto", che grazie ad appalti statali concessi senza concorsi
ha creato un giro d'affari miliardario per mafiosi come Ljubisa Buha,
vicino alla DOS, capo del clan di Surcin e oggi principale accusatore
(protetto dalla polizia serba) del clan di Zemun. Fino a poco tempo
fa denunciare questi fatti in Serbia era molto pericoloso, come ben
sa il coraggioso giornalista Zeljko Cvijanovic, esposto per questo
alle minacce esplicite dei mafiosi vicini al governo di Djindjic e a
quelle di un fedelissimo di quest'ultimo, il "censore" Vladimir
Popovic Beba, capo dell'ufficio informazione del governo serbo.
Popovic, dopo essere stato temporaneamente sospeso dal suo incarico
con modalità non chiare, è l'uomo che ha organizzato i briefing del
governo durante lo stato di emergenza, l'unica fonte di informazione
che i giornali potevano riportare sulle loro pagine, vista la censura
in atto, e si è subito distinto per avere minacciato di pesanti
conseguenze fisiche una giornalista e la sua famiglia per avere posto
delle domande politicamente scomode.
Va menzionata anche la politica disinvoltamente autoritaria del DS di
Djindjic, in particolare in relazione alla conquista della
maggioranza parlamentare, nel giugno scorso, con metodi assolutamente
non democratici, tramite la revoca pretestuosa dei mandati di
deputati dell'opposizione e il blocco, seguito dall'addomesticamento,
della Corte costituzionale che avrebbe dovuto giudicare la legalità
di tali misure. Lo stesso vale per la nomina della presidentessa del
parlamento, svolgente la funzione di presidente della repubblica ad
interim, un personaggio di secondo piano che tuttavia si è dimostrata
fondamentale per indire lo stato di emergenza. E non bisogna
dimenticare, tornando indietro nel tempo, il modo in cui la DOS ha
espropriato le proteste dei lavoratori imponendo d'autorità propri
membri ai vertici delle maggiori aziende del paese, posizioni che
nella maggior parte dei casi occupano ancora oggi. Dopo la morte
Djindjic è stato "beatificato", sia in patria che all'estero,
stendendo un velo pietoso sugli aspetti deleteri del suo governo, un
escamotage che permette ai suoi compagni di partito di lavare con un
solo colpo di spugna la propria mancanza di credibilità, la propria
illegittimità e le proprie collusioni, tutti fattori che, non a caso,
avevano fatto del DS e dei suoi satelliti, così come di Djindjic
personalmente, personaggi estremamente impopolari tra i serbi fino
alla mattina del 12 marzo.
L'OPPOSIZIONE
Due parole anche sull'opposizione, che dopo l'omicidio di Djindjic ha
fatto un balzo indietro nei sondaggi e si trova sempre più ai margini
della vita politica. E' forse questo l'unico effetto positivo dei
recenti eventi in Serbia. Radicali e socialisti sono sempre più
ridotti al lumicino, entrambi con in più l'assenza dei rispettivi
leader, che si trovano all'Aia. Il DSS di Kostunica ha perso
ulteriormente credibilità, dopo che la popolarità del "nazionalista
moderato" era già stata fortemente intaccata dalla mancata elezione a
presidente della Serbia. I suoi legami con criminali di ogni tipo,
legami già noti in passato così come lo erano quelli di Djindjic,
sono ora stati portati apertamente sulla scena, smascherando la sua
figura di "nazionalista moderato". Proponendo dopo l'attentato un
governo di unità nazionale, formula ambigua che non si è mai compreso
se dovesse includere o meno i radicali e i socialisti, il DSS ha dato
prova di essere un partito il cui "legalismo" è solo una foglia di
fico per coprire una concezione del potere mafiosa e la mancanza di
una propria base popolare da mobilitare. L'unica arma di cui può
disporre il DSS oggi è semplicemente una retorica nazionale e
"legalista", ma è un'arma assai debole di fronte all'unità nazionale
e al "patriottismo liberista" della DOS del dopo-Djindjic. Tuttavia
non è da escludersi che a medio o breve termine il DSS non riesca a
ottenere una rivincita, e questo per un semplice motivo: l'attuale
svolta di Belgrado è una farsa, che con il passare del tempo si
logorerà e, se la DOS non sceglierà, o non sarà in grado di mettere
in atto, metodi direttamente repressivi, potrebbe aprire un vuoto
politico che il DSS potrebbe riempire.
CONCLUSIONE
Oggi, a sole tre settimane dalla sua fine, gli esiti dello stato di
emergenza si sono notevolmente "sgonfiati". Ai vertici del governo,
nessuno parla più di indagare sui nessi tra criminalità e politica:
passata la sbornia dello show mediatico imbastito durante lo stato di
emergenza, a tutti è chiaro che ogni indagine seria in tale direzione
porterebbe il governo a indagare anche su se stesso. Tutto quindi si
riduce alla criminalità organizzata classica, quella del
narcotraffico e del contrabbando. Con il consueto timing politico,
nei giorni scorsi il Tribunale dell'Aia ha provveduto a incriminare
Jovica Stanisic e Frenki Simatovic, i quali gli verranno consegnati
al più presto da Belgrado, che potrà così spedire a migliaia di
chilometri di distanza due imbarazzanti testimoni. Dopo l'azione di
polizia, le indagini della magistratura devono ancora cominciare; i
processi, se ci saranno, si svolgeranno tra svariati mesi. Di molti
arrestati non si sa nemmeno di cosa precisamente siano accusati
(Stanisic e Simatovic, per esempio, non sono stati incriminati in
Serbia). Ci sono poi casi come quello di Mira Markovic, moglie di
Milosevic, di cui il governo ha annunciato l'incriminazione dopo che
è stato ritrovato il cadavere di Ivan Stambolic, rapito e ucciso
nell'estate 2000: si è scoperto che Markovic in realtà non è affatto
accusata di questo omicidio, bensì di avere favorito l'assegnazione
indebita di un appartamento statale a propri protetti! Uno degli
arresti più clamorosi, quello di Milorad Vucelic, personaggio di
spicco del regime di Milosevic, si è risolto in sordina con la sua
liberazione: era solo un testimone. Un bilancio davvero magro per
quella che era stata definita da molti una rivoluzione.
La nostra interpretazione è che la svolta del dopo-Djindjic, resa
possibile dall'introduzione dello stato di emergenza, sia solo una
trasformazione, e non un cambiamento. Le strutture di controllo della
società e dell'economia rimangono immutate. Nessuna indagine è stata
compiuta o avviata su privatizzazioni, appalti, provenienza dei
grandi capitali, finanziamento dei partiti. Gli organi di polizia e i
vertici del ministero degli interni non sono stati toccati.
Nell'esercito sono stati incriminati solo alcuni singoli personaggi.
L'unico risultato consistente delle indagini è stato quello di
eliminare dalla scena pubblica una parte della criminalità più
visibile, quella che i suoi regolamenti dei conti li faceva con il
mitra per la strada. Era una criminalità che dava del paese
un'immagine imbarazzante a livello internazionale e che causava
disordine internamente. Una criminalità che ormai poteva essere
licenziata perché aveva esaurito il proprio compito, quello di
consentire un'accumulazione primaria del capitale nel paese e, allo
stesso tempo, di fare da esercito/polizia per un potere privo di base
popolare ed estremamente insicuro e instabile. Come avevano
denunciato alcuni osservatori serbi, tra gli svariati obiettivi della
politica di Djindjic e del suo partito, il DS, vi sarebbe stato
proprio quello di consentire ai capitali mafiosi di legalizzarsi
attraverso investimenti, privatizzazioni e appalti. In questo non vi
è nulla di strano, è un processo che, seppure in maniera meno
drammatica, è stato messo in atto in quasi tutti i paesi vicini.
L'esempio della Bulgaria è a tale proposito istruttivo, perché in
questo paese gli avvenimenti più recenti, come l'uccisione del
businessman Ilija Pavlov o altre uccisioni "eccellenti", dimostrano
che tale processo non garantisce nemmeno la fine dei regolamenti di
conti per strada.
A livello più prettamente politico, lo stato di emergenza, che pure
non è sfociato in un governo autoritario, ha creato un pericoloso
precedente. Ha dimostrato che i media, le ONG e la cosiddetta società
civile sono
all'occasione pronti ad accettare all'unisono l'introduzione di
misure
autoritarie e la sospensione della democrazia, tacendo sulle
responsabilità
dello stesso regime. Ha dimostrato che con la scusa dell'emergenza i
sindacati
possono diventare una cinghia di trasmissione pronta a mettere a
tacere le
lotte sociali. Facendo del tema della lotta poliziesca contro la
criminalità
l'elemento decisivo per una presunta svolta del paese, il governo ha
incassato
una depoliticizzazione della società e una passivizzazione della
popolazione.
Le approvazioni univoche ottenute a livello internazionale fanno
inoltre dello
stato di emergenza in Serbia un pericoloso modello applicabile
all'occasione,
con varianti locali, in altri paesi dei Balcani.
Con lo stato di emergenza la DOS ha definitivamente suggellato la
linea
politica intrapresa il 6 ottobre 2000, il giorno dopo la caduta di
Milosevic:
quella di rinunciare alla spinta popolare e democratica
dell'opposizione
generale al precedente regime, preferendole una politica di potere
oligarchica.
In questo senso, e solo in questo senso, gli eventi degli ultimi due
mesi sono
un "6 ottobre" e, più precisamente, una ripetizione del 6 ottobre.
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